Abstract
A partire da una riflessione sulla figura di Artemisia Gentileschi, che seppe trarre dalla violenza subita l’ispirazione per le proprie creazioni artistiche, l’autrice ha ideato e coordinato una mostra di opere dedicate alla rinascita femminile interpretate attraverso la tecnica giapponese del kintsugi, “riparare con l’oro”.


1. La notte dell’anima

Quando una donna subisce violenza, le ferite del corpo guariscono, ma l’anima resta intaccata per sempre. La vedi sorridere, essere gioviale a volte perfino provocante, trionfante, sicura di sé, ma in fondo allo sguardo un sottile velo di tristezza resta sempre, magari ben mascherato da un paio di occhiali scuri o da una perfetta linea di eyeliner. Ma c’è.

È una commistione di delusione, amarezza e di un’impercettibile malinconia che si impossessa di tutto l’essere quando lo sguardo dell’altro non può scorgerla. L’ingiustizia subita si insinua nei pensieri, anche senza un apparente motivo. Un fugace attimo in cui manca il fiato, un ricordo che affiora alla mente, magari per un banale gioco di parole, una melodia, uno sguardo, una mancanza, uno sgarbo, una disapprovazione, un colore, e accade che quella donna, tanto forte da tenere stretta la sua vita in un pugno, torna a essere una bambina indifesa, violata, smarrita che non sa più a cosa aggrapparsi. Dura solo un istante, ma sembra un’eternità.

È una donna che ha costruito una corazza, un muro di difesa contro i sentimenti e il mondo. Abitata dalla diffidenza e dal timore delle relazioni, perché sa che quello è il suo tallone d’Achille. È una donna che ha conosciuto la notte dell’anima. Ha vissuto un dolore così lancinante da annientare ogni anelito di vita, come se fosse un cristallo andato in mille frantumi. È per questo che si protegge: non vuole più farsi lacerare l’anima. Potrà mai più fidarsi completamente di un uomo? Potrà mai più affidarsi a un maschio? Potrà mai più fidarsi della vita? Dovrà attingere a quel vago rimasuglio di speranza, raschiando i lembi della propria essenza, per trovare le ultime forze rimaste e aggrapparsi al pensiero di non darsi per vinta. Forse è così che si è sentita Artemisia.

2. Artemisia

Rimasta orfana di madre a soli dodici anni, primogenita e unica femmina di quattro figli, Artemisia Gentileschi si ritrovò a dover gestire la casa e i fratelli con l’aiuto di Tuzia, una vicina e amica di famiglia, perché il padre non si era più risposato, contrariamente alla consuetudine del tempo. Tuzia fu un’importante figura di riferimento per la giovane Artemisia: unica confidente e compagna di cui si fidava. Fu anche sua modella, infatti posò per lei in La Madonna col Bambino, dipinto conservato nella Galleria Spada di Roma. Artemisia, sin da piccola, trascorreva molto tempo nella bottega del padre Orazio Gentileschi, pittore particolarmente attivo nella Roma pontificia del ’600. Con il padre condivideva la passione per la pittura. Anzi, Artemisia aveva un talento naturale: già a tre anni si dilettava a miscelare i colori per lui e dimostrava una spiccata propensione per l’arte pittorica, tanto che a sedici anni aveva già dipinto opere importanti. 

Casa Gentileschi era frequentata da molti artisti romani, amici e colleghi del padre, tra cui Agostino Tassi, soprannominato “lo smargiasso”. Dopo il lavoro, si fermava spesso a casa Gentileschi e il padre Orazio, che aveva stima di lui come artista, gli chiese di iniziare Artemisia alla prospettiva. Il Tassi si invaghì della ragazza. Lei lo temeva e cercava di non rimanere mai sola con lui, ma sempre in compagnia di Tuzia o dei fratelli.

Per comprendere il clima di oppressione e violenza psicologica a cui la giovane era sottoposta, occorre considerare la personalità e i comportamenti del Tassi. Egli era un manipolatore e un molestatore: inventava voci, calunnie e maldicenze su Artemisia con la complicità dell’amico Cosimo Cuorli, furiere pontificio che assicurava a lui e a Orazio il lavoro nelle residenze papali. Artemisia usciva solo per andare a messa accompagnata da Tuzia e, regolarmente, il Tassi le seguiva con il suo fedele amico. La povera ragazza era sempre più angosciata e si confidava con Tuzia, che minimizzava le attenzioni moleste del pittore poiché aveva maturato un’intesa con lui. Ormai Artemisia dipingeva solo in camera sua e non si avvicinava più alla bottega per evitare di incontrare lo spasimante indesiderato.

Il 9 maggio 1611, il Tassi, con uno stratagemma e la complicità di Tuzia, fece in modo di rimanere solo nella stanza di Artemisia. Come riportano dettagliatamente gli atti del successivo processo, l’uomo entrò, chiuse la porta a chiave e la tolse, le si avvicinò e cominciò a toccarla. Artemisia si difese: urlava, lo graffiava, piangeva, lo supplicava di fermarsi. Lui, beffardo, le diceva di non fare la reticente, perché stava appagando quello che in realtà lei stessa desiderava, e quindi di non fare la preziosa, perché tanto era noto a tutti che fosse una donna di facili costumi. Le strappò i vestiti e la violentò.

Il trauma della violenza, che sia sessuale o fisica, blocca, paralizza, annienta la vittima. Si resta increduli. Ci si chiede perché si sia ‘meritato’ tutto questo. È un pugno nello stomaco che toglie il respiro, che lascia inerme, svuota i pensieri e getta nel nulla. E proprio nel nulla fu gettata Artemisia. Le era stato tolto tutto: la speranza del futuro, i sogni di ragazza, l’amore, la verginità. La sua prima volta non era stata una scelta, ma una violenza. Poi venne la promessa del riscatto: il Tassi l’avrebbe sposata. Si era infatti accordato in tal senso con il padre Orazio. Per dieci mesi Artemisia fu consenziente e si concedeva al suo futuro sposo. Orazio premeva per le nozze per tutelare l’onore della famiglia. Ma le nozze tardavano ad arrivare: si scoprì infatti che il Tassi era già sposato. Questo fece precipitare Artemisia nella disperazione più cupa, mentre Orazio Gentileschi vessava e insultava la povera figlia. Tutta Roma malignava su di lei, inventando falsità e favoleggiando di una lunga schiera di amanti. Artemisia si trovò dunque a essere stuprata e diffamata. L’unica soluzione per una pubblica riabilitazione del nome di famiglia fu una denuncia all’Inquisizione.

Nella Roma papale del ’600, lo stupro era considerato un reato contro l’onore della famiglia. Agostino Tassi fu denunciato, processato e condannato a otto mesi di carcere, malgrado la testimonianza in sua difesa da parte di Tuzia e di altri falsi testimoni. Artemisia sopportò una prova durissima: tradita anche dall’amica, fu sottoposta a visite ginecologiche, a torture dell’Inquisizione per estorcerle una confessione diversa da quella dello stupro, ma lei rimase sempre coerente e forte, subendo ogni sorta di umiliazione pubblica pur di difendere la verità.

Quello di Artemisia Gentileschi è il primo processo per stupro della storia italiana. Il giorno dopo la conclusione del procedimento giudiziario, Orazio combinava il matrimonio di Artemisia con Pietro Antonio Stiattesi, pagando mille scudi di dote. 

3. La rinascita

Artemisia e il marito si trasferirono a Firenze, dove la giovane venne accolta alla corte di Cosimo II de’ Medici. Lì ebbe occasione di frequentare personaggi illustri quali Galileo Galilei, Michelangelo Buonarroti il giovane, e fu la prima donna ad essere accolta presso l’Accademia delle Arti e del Disegno creata dal Vasari. Artemisia coniò un neologismo per definire se stessa, dato che non esisteva ancora il termine ‘pittrice’: si fece così chiamare “pittora”.

Nella sua produzione, il soggetto che più drammaticamente rappresenta il trauma dello stupro è sicuramente quello di Giuditta e Oloferne, che costituisce il tema di due dei suoi quadri più celebri, i quali la collocano tra i grandi protagonisti della storia dell’arte. La versione più nota è la seconda, la Giuditta che decapita Oloferne (1620 circa) conservata presso la Galleria degli Uffizi di Firenze. Molto si è discusso sul significato dell’opera e l’interpretazione condivisa mette in risalto la rivalsa femminile sulla brutale prevaricazione maschile subita dall’artista che, sublimando la vicenda personale attraverso l’arte, ribalta i ruoli, vendicando gli abusi subiti dalle donne. Attraverso l’azione catartica della sua opera, probabilmente Artemisia riuscì a liberarsi dall’esperienza traumatica e a trasformare il dolore in una straordinaria forza d’animo che le consentì di affermarsi come donna e artista.

Artemisia può essere considerata da questo punto di vista un’antesignana delle battaglie femminili, ed è diventata un’icona significativa della rinascita delle donne violate. Il suo esempio insegna a fare delle proprie ferite dei punti di forza per riappropriarsi della propria vita.

Quando una donna rinasce? Come si è detto all’inizio, la rinascita è possibile quando si riesce ad attingere all’ultimo anelito di speranza, trovandovi la forza di non darsi per vinta.

4. La mostra

Ispirata dalla vicenda di Artemisia e dal tema della rinascita attraverso l’arte, ho ideato un progetto dal titolo Rifiorire a novembre che ha coinvolto gli studenti dell’Istituto Blaise Pascal e dell’Istituto Calvi-Maragliano di Voghera (PV). Si tratta di una mostra di opere realizzate dagli allievi ispirata alle “donne che ce l’hanno fatta” a uscire dalla spirale della violenza.

La mostra è stata inaugurata il 25 novembre 2023, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ed è stata promossa dal C.I.F. (Centro Italiano Femminile), dal Centro Antiviolenza C.H.I.A.R.A. Onlus, dalla Commissione Pari Opportunità e patrocinata del Comune di Voghera.

L’idea di fondo del progetto è stata fornire una testimonianza del fatto che dalla violenza ci si può affrancare e che una ‘vita generativa’ degna di questo nome, è possibile. Per ottenere tale risultato, occorre partire dai traumi e farne punti di forza, trasformare, cioè, le ferite in poesia e poi rifiorire, come solo le donne sanno fare.

Questo, naturalmente, non significa sottovalutare il significato del femminicidio e di tutte le forme di violenze che le donne subiscono, ma piuttosto cercare di cogliere il problema da un nuovo punto di vista. Negli ultimi tempi, le donne hanno acquisito una maggiore consapevolezza della propria condizione, sicché, anziché continuare a subire passivamente gli abusi, si sono organizzate in associazioni di tutela e hanno iniziato a combattere pacificamente per liberarsi da ogni forma di sopraffazione. Molte ce l’hanno fatta, diventando per tutte un modello a cui ispirarsi per cambiare la propria vita.

È proprio questo aspetto che il progetto ha cercato di mettere in evidenza, operando attraverso una prospettiva creativa: mostrare come la generatività femminile non è solo relegata agli ambiti tradizionali della generazione della prole e della cura dell’‘altro’ (figli, mariti, genitori, parenti…), ma è anche in grado di pervenire a una nuova visione della vita e della società.

Nel titolo della mostra è contenuto il mese di novembre, non solo alludendo alla Giornata dedicata a tutte le donne vittime di violenza, ma anche per suggerire che un progetto di rinascita, di “rifioritura”, non ha bisogno di attendere l’arrivo della ‘primavera’, ma che invece ogni istante dell’esistenza può essere foriero di una rinascita, di uno sbocciare a nuova vita. Così, l’arte diventa messaggio di speranza per tutte quelle donne che finora non hanno avuto il coraggio di ribellarsi, di denunciare, di affermare se stesse, un messaggio che le invita e le sprona al cambiamento. Ancora una volta, l’arte è catarsi: in questo caso, cura e liberazione dal dolore e dagli abusi subiti.

Il primo passo compiuto dai diversi attori dell’iniziativa è stato quello di mettere in relazione tutti i partecipanti al fine di scegliere una linea guida, un filo conduttore unico sia progettuale che concettuale. Si è pertanto pensato di fare riferimento e ispirarsi all’arte giapponese del kintsugi, un’espressione che significa letteralmente “riparare con l’oro”: si tratta di una tecnica adottata nel restauro degli oggetti in ceramica rotti, che riesce a trasformare una riparazione evidente in un valore aggiunto essendo effettuata con l’oro. Il kintsugi diventa quindi una metafora della donna a pezzi che si ricostruisce e fa risplendere come oro le proprie ferite.

01 – Gaia Toso, Rinascita e fecondità
02 – Diana Scotto Di Minico, La vita nelle mani
03 – Stella Scherpa, 30.000 a.C.
04 – Giulia Cudalb, Esplosione di vita
05 – Gianluca Gallo, Il trionfo di Olimpia
06 – (in primo piano) Natalia Strocchi, L’ascesa
07 – (abito) Sofia Corradi, Rifiorire a novembre
08 – Chiara Caiazzo, Come una fenice
09 – Eugenio Cormio, Metamorfosi rigogliosa

Bibliografia

Marcello Riccioni, Arte terapia dell’anima. Guarisci te stesso, prefazione di Daniele Novara, Roma, Fefè, 2022.

Nello Teodori, Roberto Vecchiarelli (a cura di), Arte come cura, Catalogo della Mostra tenuta a Città di Castello nel 2022, Arezzo, Magonza, 2022.

Dario Barone, Curare l’anima con l’arte, Treviso, Brè, 2019.

Anna Banti, Artemisia, a cura di Daniela Brogi, Milano, Mondadori, 2023.

Susan Vreeland, La passione di Artemisia, trad. it. Francesca Diano, Vicenza, Beat, 2023.

Philippe Daverio racconta Artemisia Gentileschi, Milano, Corriere della Sera, 2017.

Da Artemisia al ‘kintsugi’: l’arte come catarsi del dolore – Una mostra degli allievi degli istituti artistici di Voghera – di Lilli Barberi

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