Simon Vouet, Ritratto di Artemisia Gentileschi, 1623 circa, Pisa, Palazzo Blu
Noi donne pensiamo di aver raggiunto traguardi importanti, se confrontiamo la nostra vita con quelle delle nostre mamme e nonne, ma non dobbiamo dimenticare che nessuna conquista è mai definitiva… e che le nostre conquiste sono arrivate dopo secoli di lotte, di tentativi, di morti anche violente.
Guardarsi indietro non è una perdita di tempo, ma è fondamentale per andare avanti, perché noi siamo la nostra memoria.
E la memoria non può dimenticare donne “grandi” colpite da una violenza disumana, proprio perché “donne” e per giunta “grandi”.
Se andiamo indietro nel tempo, la prima donna che mi viene in mente è Ponzia Postumina, vissuta nel I secolo dopo Cristo, amante di Ottavio Sagitta: di lei a Roma si chiacchierava molto, perché – dicevano – “non aveva alcun pudore a nascondere la sua tresca”, trascurava il marito, “non si sedeva più a mensa… non si curava del bene della casa…”. Riuscì a far sciogliere il suo matrimonio e rientrò nella casa paterna, rifiutando però con fermezza la proposta di nozze di Ottavio: “Ponzia assaporava il piacere di essere finalmente padrona di se stessa e del suo tempo… troppo presto era passata dalla tutela genitoriale a quella maritale e ora, da donna matura, poteva conoscere la libertà”. Era troppo moderna, troppo ribelle, Ponzia, e Ottavio le tolse la vita.
Ipazia di Alessandria d’Egitto, vissuta tra il 370 e il 415 d.C., studiosa di astronomia, matematica, filosofia, fu uccisa in modo orribile da cristiani integralisti: il corpo fu colpito con cocci di tegole e vasi, poi tagliato a pezzi e bruciato. Tanto odio, tanto accanimento perché era una donna che discuteva alla pari con uomini, che studiava e divulgava argomenti scientifici, ritenuti – allora come qualche volta ancora oggi – non adatti alla sensibilità femminile.
Nel Rinascimento, le donne non conquistarono posizioni di rilievo, tanto che si contano sulle dita di una mano le artiste e le letterate di cui si riconosceva e forse si temeva il valore: le più note sono Isabella di Morra e Artemisia Gentileschi, entrambe vittime di una violenza ottusa. La prima è una delle voci più originali e autentiche della poesia del ‘500. Visse a Valsinni (1520-1546), figlia del signore del luogo che le permise di studiare con i suoi fratelli. Ma la fuga del padre in Francia per motivi politici consentì al fratello maggiore di prendere le redini della famiglia e da quel momento per Isabella la vita diventò isolamento e solitudine. Le fu proibito seguire le lezioni del maestro Torquato e corrispondere con Diego Sandoval de Castro, ma poiché nel paese circolavano voci malevole, i fratelli uccisero il maestro, don Diego e infine Isabella, ventiseienne che solo il padre aveva capito e avrebbe difeso.
In quel tempo il tema amoroso era particolarmente diffuso nella poesia femminile, dunque spesso questa veniva considerata solo un’esercitazione. Invece Isabella – vissuta in un’epoca che considerava la donna inferiore all’uomo dal punto di vista intellettuale e in un luogo dove nessuna donna poteva frequentare un uomo estraneo alla famiglia – è l’esemplare figura di una poetessa che, con espressioni “alte” rappresenta tutte le donne vittime di una realtà ostile, che impedisce la libera espressione dei sentimenti fino a togliere loro la vita.
Artemisia Gentileschi (1593-1653), donna intelligente e forte, è una pittrice che non si dedica a paesaggi e ritratti – come facevano le donne del suo tempo – ma affronta la pittura “alta”, sceglie soggetti storici e sacri, segue la lezione caravaggesca e dipinge persino nudi! Dunque, come donna sembra avere una marcia in più! Segue le orme del padre Orazio, anche lui pittore romano, ma subisce in giovane età una grave violenza ad opera del suo maestro Agostino Tassi. Seguiranno denuncia e processo per stupro ed abusi continuati per mesi. Artemisia accetta di testimoniare sotto tortura, di provare la sua verginità precedente allo stupro e viene sottoposta ad un’incredibile crudeltà: le dita delle mani le vengono fasciate con funi fino a farle sanguinare. Questa esperienza la segnerà profondamente, ma non le farà perdere l’amore per la pittura. Infatti fu ammessa – è la prima donna – all’Accademia del Disegno a soli 23 anni. Il suo dipinto in assoluto più famoso è Giuditta che decapita Oloferne – conservato al Museo di Capodimonte a Napoli – impressionante per la violenza che domina la tela. Forse una rivincita rispetto alla violenza subita.
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Gli esempi sarebbero tanti, ma veniamo ai giorni nostri: Diana Russo, da magistrata, si è confrontata spesso con tematiche di violenza purtroppo assai comuni, con vittime fragili, costrette, per testimoniare, a parlare davanti a sconosciuti o sconosciute giudici, stagisti, cancellieri, stenotipisti, avvocati/e e mettere in piazza la propria sofferenza, gli abusi subiti, i maltrattamenti deve essere un’esperienza durissima.
La magistrata vuole capire, vuole andare a fondo, vuole comprendere vittime e (se è possibile) carnefici, trovando la conferma, in situazioni scottanti, che le donne sono in genere forti e tenaci. Oppure sono fragili perché non hanno conosciuto altro che violenza e dunque pensano che il comportamento del padre, del fratello, del marito o del compagno sia comunque una forma di amore, anche se violento e possessivo.
A volte, queste vittime temono di “tradire” se parlano con estranei, o si vergognano, si chiudono in se stesse e rifiutano qualsiasi aiuto.
Diana Russo ricorda i suoi incontri con queste donne quando era all’inizio della carriera, probabilmente un po’ insicura. Perciò voleva che l’affiancasse una psicologa: i casi di cui si è occupata sono i più diversi, da Rosalia, vittima di incesto, a Queen, studentessa “Erasmus” arrivata a Palermo dalle Canarie, che denuncia il tentato stupro ed è costretta, il giorno dell’udienza, “a rendere la propria testimonianza al cospetto del suo aggressore” perché “il giudice, malgrado le mie sollecitazioni, non ritiene di utilizzare alcuna forma di protezione, neppure un paravento. ‘Sono maggiorenni’, dice”. E dunque, dopo la violenza fisica, anche la violenza psicologica perpetrata da un magistrato!
In realtà la violenza ha tante facce: esiste quella fisica, di cui si parla di più sia perché lascia tracce visibili sui corpi, sia perché finisce a volte in femminicidio, ma esiste anche la violenza psicologica, il ripetere ossessivamente alla moglie/fidanzata/compagna/figlia/sorella: Tu non sai fare niente… Tu non vali… Tu non sei capace… La violenza economica (Non sei capace di amministrare le finanze familiari… devi chiedere a me i soldi… faccio io la spesa perché tu non sai scegliere…), e così via. Insomma, tanti diversi modi per annullare, demotivare, terrorizzare una donna.
Se ne parla e se ne scrive tanto, il 25 novembre si ricordano las mariposas, le sorelle uccise perché impegnate in politica, e nel contempo si indossano scarpe rosse o si dipingono di rosso le panchine. Ma nulla cambia, e nulla cambierà se non educheremo uomini, donne e bambini al rispetto di sé e degli altri.
Potremmo cominciare dalle canzoni, Annalisa canta: L’amore è un po’ un pretesto / per legarci mani e gambe… Ci vogliono carezze / ci vogliono gli schiaffi… e Tananai: non c’è amore senza una ragazza che pianga…
Questi sono solo due esempi, ci sarebbe tanto altro e tanto peggio.
La storia di Ipazia merita una consultazione delle fonti d’epoca e non di rielaborazioni illuministiche.
Da anni si diffondono articoli, post, meme e citazioni erronee su Ipazia, l’intellettuale pagana trucidata da un gruppo di cristiani intorno al 415. Per chiarire la questione, racconta Eusebio di Cesarea che Ipazia non fu uccisa per ordine di san Cirillo di Alessandria né per motivi religiosi, ma per motivi politici.
I responsabili dell’attacco erano alcuni eretici chiamati “parabolani”, cristiani fanatici che avevano preso in prestito il loro nome dai gladiatori che si battevano contro i leoni (prima che Teodosio abolisse tali spettacoli nel circo). Questi individui disprezzavano la vita e, volendo morire il più presto possibile per Cristo (secondo la loro convinzione), si impegnarono con un giuramento ad assistere i malati di peste e le persone affette da malattie infettive.
Cirillo cercava di controllarli, ma a un certo punto scoppiò un dissidio politico tra lui e il prefetto di Alessandria, Oreste. Si sospettava che Oreste fosse pagano e così i parabolani (a cui si aggiunse qualche monaco fuori controllo) presero di mira Ipazia, favorita da Oreste. Inoltre, l’ostilità verso Bisanzio, di cui Oreste era un rappresentante, era diffusa in tutto l’Egitto. Questo astio giocò un ruolo importante quando gli Arabi arrivarono e furono accolti in Egitto con gioia, principalmente a causa dell’odio antibizantino (Costantinopoli applicava tasse pesanti). Cirillo venne a conoscenza del linciaggio solo dopo che l’atto era stato compiuto.
Un’altra osservazione. Benissimo deprecare la violenza contro le donne, ma anche quella delle donne contro gli uomini, contro i bambini non nati (aborto), delle donne contro le donne (Mainetti).
Certamente. E molti altri aspetti si potrebbero elencare. E la Rivista è aperta ad ogni contributo.
Senza pretesa neppure lontana di esaurire tutti i possibili i versanti della violenza. In questa occasione si è cercato di portare almeno alcune riflessioni su un ambito delimitato in particolare alla violenza contro le donne.
CR