“Questa non è una marina, è un’ora”[1]

Gustave Courbet

Fig. 1. Impressione, Sole nascente (Il porto di Le Havre), Parigi, Musée Marmottan, 1872

Quando pensiamo all’Impressionismo, sovente il primo nome che viene in mente è quello di Claude Monet (1840-1926). Non è un caso, perché egli è il principale Impressionista “puro”, non solo nel senso che dette il nome al movimento alla prima fondamentale mostra indipendente inaugurata nello studio del fotografo Nadar sul Boulevard des Capucines nel 1874 con il suo Impression, Soleil levant (fig. 1), che il critico Louis Leroy giudicò dispregiativamente una “impressione”, un embrione di dipinto,[2] ma anche perché fu coerente fino alla fine nel perseguire la propria strada pittorica, le sue ricerche sulla luce, e fu così testardo da riuscire alla fine a essere capito, e perfino esaltato dalla critica che lo aveva dapprima deriso, e con lui tutto il movimento. In realtà, come abbiamo visto nel precedente articolo su Manet, questo movimento altro non è che un insieme di pittori eterogenei che erano accomunati dal desiderio di portare avanti una pittura più vera, più intima e personale, e avversi alle regole imposte dai loro maestri e dalle mode ufficiali del tempo. Molti di loro variarono spesso la loro pittura, giustamente cercando nuove strade per migliorarsi. Perfino Camille Pissarro, un altro grande artista e teorico dell’Impressionismo, provò poi strade alternative come il Puntinismo per testare nuove idee nello studio della luce. Come abbiamo visto nel precedente articolo, invece, il “padre” dell’Impressionismo Edouard Manet era alla base un pittore realista (oltre a non partecipare mai alle mostre Impressioniste), attento all’analisi sincera dei costumi della società, come lo fu un altro grandissimo membro di questo gruppo, Edgar Degas. Pierre-Auguste Renoir invece, nella sua magistrale ricerca della grazia in natura, perseguì invece strade classiciste per proseguire i suoi studi. 

Monet può essere considerato lo “scienziato” del gruppo, nel vero senso del termine, in quanto studiò la luce e l’atmosfera in mille modi, con una certa ossessività (tanto che arrivò anche a bruciare alcuni suoi dipinti per insoddisfazione). Una tale ricerca di analiticità lo induceva a portare con sé molte tele per trasporre un tratto alla volta gli effetti luminosi: in tal modo, tramite veloci tocchi di colore prima all’una e poi all’altra, riusciva ad analizzare le varie ore del giorno, come vediamo nelle serie dei covoni o della Cattedrale di Rouen (un esempio a fig. 2). Con questo, è uno degli Impressionisti che si pose più in linea con altri grandi paesaggisti dell’Ottocento della scuola di Barbizon, come Daubigny, che per studiare la luce aveva comprato una piccola barca su cui dipingeva en plein air, e come Corot, che invece, non avendo colori in tubetto, moltiplicava le sue sedute all’aperto per studiare la luce e poi tornare in studio a terminare i dipinti. Questi sono tutti pittori che Monet apprezzava moltissimo, essendosi infatti specializzato nella pittura grazie a Eugène Boudin, che più evidentemente era in linea con quella tradizione pittorica.

Fig. 2. Cattedrale di Rouen, effetto di luce mattutina, Washington, National Gallery of Art, 1894

Una curiosità interessante su cui baso questo articolo (che per limitatezza di caratteri conterrà una più breve riflessione rispetto a quello su Manet) è che questo pittore da giovane disprezzava il suo futuro maestro Boudin e nel mentre si dedicava ancora alle caricature per ottenerne fama e profitto. Si dovette ricredere quando lo incontrò a Le Havre (dove visse la sua giovinezza), nel negozio nel quale vendeva le sue “burle” artistiche e dove Boudin esponeva i suoi dipinti, divenendo prima con riluttanza e poi con convinzione suo allievo e amico. Fu lui infatti a iniziarlo alla pittura en plein air. Poi il suo maestro diverrà Charles Gleyre, che insegnò anche ad altri impressionisti, ma rimane Boudin la sua vera ispirazione. Il caso, o il destino, nel caso di Monet è emblematico perché, senza la casuale conoscenza di questo pittore di marine, egli non sarebbe divenuto il grande maestro che oggi conosciamo. Boudin fu così convincente che egli, da quel momento, predilesse gli studi paesaggistici, diventando uno dei più grandi pittori di tutti i tempi. Per me è una cosa molto bella da ricordare il fatto che, all’inizio, Monet considerasse il suo grande maestro, per sua stessa ammissione, perfino “ridicolo”.[3] Ciò fa riflettere sul fatto che, come Leroy, dobbiamo ponderare bene i giudizi, soprattutto quelli negativi. Per lo stesso motivo, riporto questo passo da Claude Monet, Mon histoire, che visto a posteriori, è davvero emblematico della sua onestà intellettuale e del motivo per cui si sia così accanitamente dedicato alla pittura paesaggista:

Nella vetrina dell’unico corniciaio che faceva i suoi affari a Le Havre le mie caricature erano insolentemente messe in mostra, cinque o sei affiancate, in cornici d’oro e con il vetro, come opere altamente artistiche; e quando davanti a esse vedevo curiosi in ammirazione assieparsi e gridare, additandole: “È il tale!”, non stavo più nella pelle per l’orgoglio. C’era tuttavia un’ombra in tutto questo. Nella stessa vetrina, proprio sopra i miei lavori, vedevo spesso appese delle marine che consideravo, come la maggior parte degli abitanti di Le Havre, disgustose. In cuor mio ero offesissimo di dover subire quella vicinanza e non risparmiavo imprecazioni contro quell’idiota che, credendosi un’artista, aveva avuto l’impudenza di firmarle.[4]

Questo pittore sbeffeggiato da Monet altro non era che Boudin, che sarebbe divenuto uno dei maggiori paesaggisti dell’Ottocento, ma era poco apprezzato all’epoca, proprio come abbiamo visto per Manet e tutti gli Impressionisti. Se Monet all’epoca non era in grado di cogliere la bravura di quel maestro, pur essendo un disegnatore, non è così difficile capire quanto sia arduo avvicinarsi alle cose nuove quando si ha un occhio allenato fin dall’infanzia a determinati schemi visivi e preconcetti. 

Il fatto è che quando si capiscono alcune cose, e si cambia idea, nei casi veramente importanti è come essere colpiti da una folgore divina. Questo è quello che è successo a Claude Monet, come San Paolo sulla via di Damasco, e questa sua apertura mentale lo ha portato a delle vette pittoriche impensabili probabilmente anche per lui stesso. La sua strada però sarebbe davvero stata molto più semplice con le sue simpatiche caricature: infatti, prima del suo lento trionfo, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta dell’Ottocento, Monet ebbe grandi difficoltà economiche. Per fare un esempio, Edouard Manet una volta propose a Théodore Duret di comprare dieci o venti suoi quadri facendoli passare come se li avesse comprati un intenditore, proprio per aiutarlo e non deprimerlo, e per “rendere servizio a un uomo di talento” (lettera a Théodore Duret del 1875), e in varie altre occasioni dovette farsi aiutare, poiché i suoi acquirenti erano davvero pochi.

Proprio Manet lo definì “Raffaello dell’acqua”,[5] inteso come “maestro dei maestri in quel campo”. Questa definizione non molto conosciuta, secondo me, calza a pennello per questo pittore, i cui capolavori sono quasi sempre collegati ai sapienti riflessi di luce, principalmente notabili sull’acqua, che è l’elemento sul quale i riflessi si colgono in tutte le loro caratteristiche, ma anche nelle vedute di campagna e nelle figure umane, intese da Monet come elemento stesso del paesaggio che si fonde con la natura (fig. 3), così come nella poetica della piena maturità di Renoir, anche se in maniera differente. Basti pensare alle famose ninfee del suo giardino (fig. 4) per rendersi conto di quanto egli fosse capace di rendere le trasparenze e i riflessi: perfino le piante sotto l’acqua con pochi tocchi di un realismo unico e di grande energia. Ma anche con una pittura così veloce e nuova che ebbe molta resistenza da parte della critica e critiche aspre. Eppure, nella sua inquietudine e nel suo ardore artistico, Monet cercò di inseguire la natura e gli effetti atmosferici nelle loro continue trasformazioni, senza tuttavia mai riuscire, come scrisse amaramente lui stesso, a fermarle sulla tela.

Fig. 3. Donna con parasole, Parigi, Musée d’Orsay, 1886
Fig. 4. Lo stagno delle ninfee, armonia rosa, Parigi, Musée d’Orsay, 1900

Se si vuole ricercare un senso nella poetica di Monet, dunque, esso non è soltanto la ricerca sui riflessi di luce, la passione per i bei paesaggi e l’interesse per l’attimo fuggevole, ma è anche quello di un uomo che riesce a rivedere le proprie vecchie convinzioni, e che dunque con coraggio e forse senza neanche accorgersene, passa così facendo dalla caricatura alla poesia, utilizzando l’attenzione ai particolari, che un caricaturista deve avere di professione, per approfondire cose più “serie”, quali la bellezza (fig. 5): proprio come un ragazzo che passa dalla giovinezza all’età adulta. Nei suoi dipinti, secondo me, si vedono entrambe queste età umane.

Fig. 5. Donne in giardino, Parigi, Musée d’Orsay, 1866

Bibliografia
Come nel precedente studio, per non fare un elenco che sarebbe ovviamente lunghissimo, consiglio la bibliografia contenuta in John Rewald, La storia dell’Impressionismo. Rievocazione di un’epoca, trad. it. Margherita Leardi Milano; Mondadori, 1991. Menziono, fra altri, anche l’interessante libretto, già citato in questo articolo, Claude Monet, Mon histoire. Pensieri e testimonianze, trad. it. a cura di Lorella Giudici, Milano, Abscondita, 2009.


Note

[1]  Questa citazione da Courbet fu ripresa con grande acume da Edouard Manet per descrivere la pittura di Claude Monet: Antonin Proust, Edouard Manet, souvenirs, “La Revue Blanche”, Parigi, febbraio-maggio 1897. Cfr. Stephane Mallarmé, Edouard Manet e gli Impressionisti e altri scritti su Manet di Antonin Proust, Milano, Scalpendi, 2021, p. 62.

[2]  Cfr. L’Exposition des Impressionnistes, “Le Charivari”, Parigi, 25 aprile 1874.

[3]  Cfr. Claude Monet, Mon histoire. Pensieri e testimonianze, trad. it. a cura di Lorella Giudici, Milano, Abscondita, 2009, p. 14.

[4]  Ibidem.

[5]  Antonin Proust, Edouard Manet, souvenirs, cit., p. 62.

“Impressioni” su alcuni dei primi Impressionisti – Una breve riflessione sugli esordi di Claude Monet – di Fabrizio Bianchi

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