L’articolo che state per leggere è già stato pubblicato, con qualche piccola modifica, su “Moviestruckers”, piattaforma digitale di cultura e spettacolo, ideata e curata da Stefano Terracina (26/04/’24).


Lo spettro di Molière aleggia fra le scene de “Il coraggio di Blanche”, settima regia di Valérie Donzelli, dal 24 aprile nelle sale italiane: i fatali pericoli degli odierni legami d’amore quando inesperienza, passività, doppiezza e assurdità di condotta vi si annidano da principio vengono, infatti, raccontati con lo stesso cinismo e intima disperazione del grande commediografo del Seicento, citato in una sequenza. Manca una vera catarsi, è vero, ma la tensione si tocca con mano e le prove attoriali di Virginie Efira e Melvil Poupaud non si scordano tanto presto.

Plagiata da un marito brutale, ossessionato dai dettagli, regolarmente forzata al sesso con l’agghiacciante Marche au supplice di Berlioz in sottofondo, Laura fugge a nuoto durante una gita notturna in barca, simulando la propria morte. La vita della donna assume tinte nuove ma il Passato, come un cadavere, non si può nascondere a lungo: svelato l’inganno, Martin, così si chiama l’uomo, con ostinazione arriva a ritracciarla. «Fate presto, ho ucciso un estraneo» dirà Laura per telefono alla polizia un attimo prima di freddare il suo “avversario” con un colpo di pistola… La trama, l’avrete riconosciuta, è quella di A letto con il nemico (‘91). Sono passati da allora poco più di trent’anni che sembrano, però, un secolo dopo aver visto Il coraggio di Blanche.

Tratto dal romanzo L’amore e le foreste (Salani Ed.; 2015) di Éric Reinhardt, il settimo lungometraggio di Valérie Donzelli (di lei si recuperi Marguerite et Julien) ci fa, infatti, un po’ rimpiangere il thriller con Julia Roberts. Non perché quest’ultimo sia migliore, anzi. La sceneggiatura, firmata a quattro mani dalla regista insieme a Audrey Diwan (La scelta di Anne), si distingue per acume, sangue freddo certo maggiori del modello americano, e così il disegno dei personaggi, qui più raffinato e pregno di uno scetticismo tagliente e sincero… tuttavia, considerati i temi messi in luce (affetti sbagliati, orrori che si consumano in casa, manipolazione mentale – “gaslighting” in inglese – che spinge al senso di colpa, a mettere in discussione il personale giudizio e la percezione stessa del reale) e, metafora a rischio di retorica, il grido (“Non sarò più la tua vittima”) che negli ultimi sette anni si è levato da una parte non trascurabile dell’universo femminile, italiano ed estero, sarebbe stata più opportuna… una fiaba. No, non avete letto male. Una fiaba cruenta, antica – o non poi così antica, forse – come il mondo, necessaria più che mai a chi da tempo si nasconde per il dolore e sa che gli incubi, almeno al cinema, possono aver tregua: rimasta sola con il Mostro la Principessa non soccombe, non attende il salvataggio, veste una Corazza e, armata di Lancia, gli trapassa il cuore, decisa. Il “coraggio” che promette il titolo italiano del film di Donzelli lo ammirammo, appunto, nella Laura di Julia Roberts, in Jennifer Lopez (Enough), Elisabeth Moss (L’uomo invisibile) e – perché no? – nella mai dimenticata Ripley di Sigourney Weaver (Alien)[1], purtroppo non lo ritroviamo in Blanche (l’intensa, ormai lanciatissima Virginie Efira), “antieroina” della storia.

Rimaneggiando l’antefatto e cornice della narrazione (anziché il romanziere, alter ego di Éric Reinhardt, è un’avvocatessa ad ascoltare la confessione della protagonista), introducendo qua e là invenzioni di riuscita discontinua, la pellicola comunque cattura e, al pari del testo letterario, è abile a far entrare lo spettatore nel quotidiano di una giovane docente di lettere di un liceo di provincia che non può (o non vuole?) sottrarsi al proprio “calvario”, avventatamente intrapreso (i segnali d’allarme già c’erano), a fianco del marito Grégoire (Melvil Poupaud, di spaventosa bravura). La meticolosa descrizione dei deliri fuoriusciti dalla bocca dell’uomo, malato nell’anima e nel corpo (i due figliolini, testimoni muti e un poco “sinistri” a dire il vero, si accorgono del “disagio” del padre ben prima di Blanche), le notti rimbombanti di minacce, l’insonnia, le lacrime: da tutto ciò si viene travolti quasi senza sosta, sull’esempio della prosa di Reinhardt che è un flusso continuo, pressoché senza interruzioni di riga (neppure nei dialoghi), con rari spazi dove poter respirare, “fuggire”, prendere il largo come spetterebbe a Blanche, prigioniera dell’esistenza che si è creata.

Nessun Mostro, Principessa, Lancia o Corazza, soltanto… le odierne, catastrofiche debolezze del Maschio (nella frase da collana Harmony di Grégoire «Pretendo di sapere la verità!» si riassumono tante inutili, oltre che meschine, spinte, filosofiche o ideologiche, alla conoscenza totale, al controllo) e della Femmina (emula della sig.ra Bovary, Blanche sogna i sogni che i classici – Racine, Marivaux, de Musset – le offrono, illudendosi di vederli incarnati nel premuroso, all’inizio, consorte), i pericoli dell’inesperienza, della noncuranza, dell’insincerità, ciascuno regolarmente drammatizzato e ridicolizzato – a volte con feroce cinismo – dal copione di Donzelli e Diwan il quale, non a caso, ospita al suo interno un riferimento a Molière ossia un brano da Il misantropo (1666), letto in classe dagli allievi di Blanche in una breve, incisiva sequenza: “[…] gli uomini li odio tutti. Gli uni perché sono malvagi e vivono in modo malvagio, gli altri perché ai malvagi si mostrano compiacenti, invece di nutrire per loro quell’odio vigoroso che il vizio deve suscitare in un animo virtuoso”. Fantasticando, se mai il grande commediografo parigino scrivesse ai giorni nostri metterebbe in scena proprio il dramma di questa volpe in gabbia che piange i boschi e la libertà perduta (“Renard” è il cognome della nostra) la quale, fra l’altro, ha una sorella gemella, la gioviale e spiccia Rose (sempre Efira): il motivo del Sosia ci porta all’Anfitrione e la slealtà, la febbrile attenzione di Grégoire alle spese, rispettivamente a Tartuffe e ad Arpagone. Ancora Molière, dunque.

Violenza relazionale, invito a sporgere denuncia: casi spinosi che la cineasta francese non ignora ma che la affliggono fino a un certo punto. In qualche modo è una “pura”, affine al ruvido Alceste: è l’essere umano nella sua interezza a non andarle a genio. Che vi siamo carnefici e vittime e chi siano gli uni o le altre è tutto un caso perché gli uomini, nel microcosmo da essa tratteggiato, sono abituati a procedere incauti, passivi. L’autonomia, la coscienza delle scelte sono relative ed è questo che fa più male guardando il film. La complicità con la collega Delphine (Romane Bohringer), il buon senso di un infermiere (Salif Cissé), la lungimiranza di una compagna d’ospedale (Virginie Ledoyen), alla quale è bastato uno sguardo per intuire di che pasta sia fatto Grégoire, non bastano a lenire le pene di Blanche, indifesa non tanto davanti al Mostro (eco molesto, restio ad andarsene dalla testa, dalle orecchie) quanto davanti al Diritto (ha le fattezze severe di Dominique Reymond, l’avvocatessa su menzionata) il cui sostegno sarà più facile immaginarsi che non affidarvisi. Starà alla donna, e a lei solamente, trarre una lezione dall’amoroso incontro con Christian (comparsata del cantautore Bertrand Belin), cordiale Arciere d’impronta “confuciana”: il tiratore che fallisce il bersaglio deve cercare in sé la causa del fallimento. E il bersaglio stesso è dentro di lui.

Degne, infine, di nota le scene di Gaëlle Usandivaras (la serie tv Chez Maupassant), le immagini di Laurent Tangy (The pyramid) e le musiche del poliedrico Gabriel Yared (Betty Blue, The Happy Prince, Judy).


[1] Meno celebre rispetto a queste tre pellicole, ma storicamente e sociologicamente forse più importante, è Oltre ogni limite (’86) di Robert Milton Young, ispirato al lavoro teatrale Estremi (’78) di William Mastrosimone (pubblicato in Italia da Guanda con la traduzione di Bruno Armando). L’angosciosa vicenda «[…] esplora i temi della persecuzione e dell’aggressione sessuale da varie angolazioni, portando lo spettatore alla conclusione che nulla sia davvero cambiato oggi in società rispetto ad allora: l’impassibilità delle forze dell’ordine, la veridicità dell’accaduto messa subdolamente in dubbio, la lacerazione interiore della vittima, senza testimoni, costretta a dimostrare in tribunale la mancanza di consenso fin dall’inizio pur di evitare il vicolo cieco delle dichiarazioni individuali (“è la tua parola contro la mia”), lasciando l’abusante libero da ogni punizione» (C. Júnior; 13/05/2018). “Extremities”, questo è il titolo originale, dopo un prologo notturno assente nella pièce di Mastrosimone, ci trasporta in un ambiente prima familiare poi claustrofobico (la casa di Marjorie e delle sue coinquiline Pat e Terry), facendoci sentire sulla pelle tutta l’umiliazione, l’impotenza, la rabbia e infine la lucida spietatezza della protagonista, assai ben resa da Farrah Fawcett (indimenticata Jill della serie “Charlie’s Angels”).

Invito alla visione de… “Il coraggio di Blanche” – di Giordano Giannini

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