Nei trent’anni trascorsi quotidianamente da docente nell’ambiente universitario di ingegneria di Pisa, a contatto con giovani adulti, con un’età variabile in genere tra i 19 ed i 28 anni, mi sono via via sempre più sorpreso, a partire dalla fine degli anni ’80, da certe derive espressive utilizzate dai giovani allievi, relative al continuo ricorso nel linguaggio parlato e scritto non solo a idiomi tecnici, sconosciuti fuori da quel mondo, ma anche e soprattutto ad inglesismi quali, ad esempio, report, stage, session, target, in sostituzione delle corrispondenti parole italiane rapporto, tirocinio, sessione, obiettivo.

Certo la sorpresa sarebbe allora venuta meno se avessi subito collegato questo fenomeno con il parallelo passaggio dalla tecnologia meccanica a quella elettronica e digitale, caratterizzato dall’adozione e proliferazione di computer e memorie digitali ed in pieno consolidamento ai giorni nostri, all’interno della cosiddetta quarta rivoluzione digitale; e che tale rivoluzione stava apportando, grazie alle nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (in inglese ICT), al word wide web e più tardi ai social network, non solo a cambiamenti epocali in ambito economico, sociale e culturale ma anche nell’italiano parlato e scritto. Infatti, proprio in quegli anni tra discenti e docenti e viceversa, si iniziò a comunicare via email e diversi anni più tardi via sms e whatsapp. Probabilmente tutto ciò era favorito dall’essere la Facoltà di ingegneria un’ambiente intriso di Tecnica ed a vocazione internazionale, dove questi nuovi strumenti ICT della favoriscono un linguaggio essenziale, veloce ed asciutto.

In realtà, ripensando agli accadimenti di allora mi rendo ora conto che c’era di più: accanto a comunicazioni professionali, parte del mondo studentesco trasmetteva talvolta cinguettii (twitter) propri della filosofia della chiacchiera e dell’opinione non meditata, piuttosto che pensieri compiuti su tutto e su tutti. Si sviluppa inoltre in modo silenzioso una trascuratezza linguistica sans frontieres, sia nella comunicazione scritta che in quella orale fatta di abbreviazioni, tecnicismi, anglicismi e punteggiatura potenziata, che allora erano tollerate dai più in quanto frutto della creatività ed informalità giovanile, nonché della rapidità di composizione, che porta ad abbassare il livello di attenzione alla forma e la correttezza grammaticale.

1. Mondo digitale e nuovi linguaggi 

Era il trionfo dell’italiano digitato non percepito dagli stessi utenti/navigatori della rete come un processo di distruzione dell’italiano “come invece oggi è conosciuto e studiato”; ciò è spiegabile con il generale ‘abbassamento della guardia’ nell’attenzione alla correttezza linguistica non solo in ambito accademico, ma nella stessa popolazione italiana. Basterebbe sfogliare la stampa quotidiana e periodica di allora per notare il prevalere nei giornali quotidiani, salvo alcune eccezioni, di una scrittura ridotta al livello prevalentemente denotativo, povera, non elaborata, non riflessa e senza storia, espressione di un pensiero che si rivela privo di spessore e di sfumature.

Con l’esperienza di oggi si può dire che l’avvento del digitale ha cambiato il modo di parlare, leggere, comunicare e rappresentare la realtà e, pertanto, anche quello di esprimersi. Nel suo libro dal titolo #Hashtag – Cronache di un Paese connesso (Bompiani ed., 2014), l’antropologo Marino Niola, dopo averci ricordato che fino all’avvento dei social la lingua italiana ha dimostrando complessivamente un’ottima capacità di adattamento ai nuovi media, pur rimanendo se stessa, con la rivoluzione digitale subentra la e-lingua, che segna un passaggio epocale in cui nulla tornerà più, molto probabilmente, come prima. 

Il linguaggio quotidiano dei giovani, infatti, a utilizzare sempre più non solo parole mutuate dall’inglese ed i neologismi inventati per dare un’etichetta a fenomeni finora sconosciuti – ma da tempo fa ricorso anche ai like ed agli emoticon, influenzando profondamente così ancor più modo di scrivere e parlare di tutti noi.

Le tante peculiari espressioni linguistiche che anche oggi vediamo su Facebook, Twitter, Instagram e gli altri social penso perciò che siano la diretta conseguenza di quei cambiamenti, già allora troppo veloci per essere metabolizzati e condivisi.

Approfondendo lo sguardo retrospettivo sugli strumenti ed i linguaggi delle giovani generazioni studentesche, non ha più molto senso definire queste forme di comunicazione come “nuovi media”; basti pensare che la “nonna” di internet, arpanet è nata a fine anni Sessanta, mentre il word wide web (www) risale alla fine degli anni ’80. Perfino i social esistevano in altre forme proprio in quegli anni, come ci segnala Elena Pistolesi nel volume Il parlar spedito: l’Italiano di chat, e-mail e sms (Esedra ed., 2004) secondo la quale il cambiamento maggiore avvenuto in rete è il passaggio da una fruizione limitata, elitaria, alla “rete in tasca di tutti”. È comunque controverso parlare di una “lingua della rete”, visto che gli ambienti comunicativi on line sono ormai molto variegati che anche per gli addetti ai lavori non è facile individuare tutti i registri e gli stili che vi albergano e le relative differenze dai contesti comunicativi più tradizionali, mentre c’è concordia sul fatto che oggi siamo in piena era dell’e-italiano, che è un italiano né scritto, né parlato, ma digitato.

Eppure, andando con la memoria ai successivi anni ’90, ricordo che nelle tesi di laurea degli allievi di ingegneria gestionale – dove avevo nel frattempo concentrato il mio impegno didattico – leggere certe costruzioni ed usi verbali mi provocava più di una perplessità, che evidenziavo con la matita blu; cosa che non facevo rilevare purtroppo – con la stessa determinazione – nei confronti delle comunicazioni via email o sms per le quali allora il pensiero non espresso era: “l’importante è che ci si capisca”; dimenticando che, nonostante la sensazione di volatilità, ciò che veniva digitato aveva ed ha non solo una vita lunghissima, ma anche un’altissima e facilissima replicabilità, sotto forma di inoltro oppure di screenshot; insomma, digitata manent.

Tra le costruzioni di questo neoitaliano digitale mi colpiscono ancora oggi l’uso smodato di acronimi come ASP (per aspetta) o RISP (per rispondi) o come quelli inglesi FYI (for your information), oppure ASAP (as soon as possible) o ancora l’acronimo LOL (laughing out loud) che viene ancor oggi usato coniugato come verbo, lollare, senza avere quindi più consapevolezza dell’origine acronimica del termine. Lo stesso dicasi per gli emoticon prima e gli emoji ancor oggi impiegati come un codice “di supporto” alle parole, dato che permettono, se usati bene, di chiarificare il senso di una frase o di esplicitare una battuta. Non era poi affatto raro, già anni fa, l’uso di una faccina per annullare la carica offensiva di un messaggio! 

Con l’inizio degli anni 2000, ricordo ancora, non solo tra studenti ma anche tra colleghi docenti, inoltre l’uso sempre più massivo di parole inglesi più o meno isolate e più o meno “pasticciate” o ibridate, come downloadare o backuppare , usato solo perché sentito come più espressivo e perché mancava il corrispettivo sintetico italiano. In quegli anni vengono usate anche espressioni dialettali, messe in circolazione da studenti provenienti da altre regioni italiane, sempre più numerosi nei corsi di studio di ingegneria. Penso al termine siciliano imparpagliato, oppure al romanesco daje in sostituzione dell’ancora oggi sfruttato ok

Un’altra libertà linguistica dei giovani di allora ha riguardato l’uso della scriptio continua, cioè la scrittura di più parole senza spazi nel mezzo, insieme ai raddoppiamenti fonosintattici come in abbestia, vabbuono, chettelodicoaffà il cui utilizzo era favorito proprio dagli hashtag, che richiedono per l’appunto una scrittura senza spazi. O ancora l’uso delle maiuscole assunte al ruolo di parola URLATA; e ancora la stessa punteggiatura volontariamente polarizzata sui segni di maggiore espressività, come il punto esclamativo, digitato “a raffica” e talvolta alternato nella fretta anche al numero 1, come in SVEGLIAAAAA!!!!1!!111!!!!; o infine il punto interrogativo ugualmente reiterato tra i due segni in combinazione: ???!?!?!!!?!. Diventano già allora, se ricordo bene, molto popolari anche i puntini, solitamente in sovrannumero rispetto ai tre previsti dalla corretta prassi linguistica e l’uso opzionale del punto a fine frase, spesso assente (cfr. Vera Gheno, Social-linguistica. Italiano ed italiani del social network (Franco Cesati ed., 2017).

2. Meticciato linguistico e ruolo della Cultura

Quanto sopra, a ben guardare, più che segno di scarsa attenzione per l’ortografia, frutto di un linguaggio creativo, va considerato, credo, anzitutto pressappochismo linguistico frutto delle idiosincrasie delle giovani generazioni (e non solo) nei confronti della loro lingua, con danni talvolta subito evidenti; basti pensare alla compilazione, fatto questo delicatissimo, del curriculum vitae (o curricula) e delle lettere di accompagnamento a quest’ultimo, che, mi inducevano a chiedermi se non abbia ragione chi nota nota che chi non sa scrivere bene (cioè correttamente), spesso non pensa bene (ha cioè pensieri deboli)!

Ora è normale, anche per un non esperto di lingua italiana, accettare l’idea che le lingue – tutte le lingue -evolvano, sotto la spinta della maggiore istruzione e della diffusione delle lingue straniere a strati sempre maggiori di popolazione. Per cui quando si legge Shakespeare, inevitabilmente si pensa alla bellezza della lingua inglese; se si legge Virgilio, si dice che è il latino; se si legge Dante, siamo tutti convinti che è l’italiano. E come dubitarne quando ascoltando, ancor oggi, dopo 700 anni la frase di Dante Alighieri “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura…” ne capisci non solo bene il senso ma ne apprezzi la profondità di pensiero e la “musicalità” del linguaggio e noti una lingua italiana arrivata a noi, fino a pochi decenni fa, senza stravolgimenti.

Nella complessa e multiforme realtà del mondo globalizzato e della modernità, con l’esperienza di oggi, mi rendo ora pienamente conto quanto sia strategico che uno dei compiti dei docenti sia quello legato all’impegno costante, seppur silenzioso e non necessariamente visibile, di valorizzare non solo il Sapere Tecnico-scientifico nei giovani, ma anche irrobustire la loro Cultura, per salvaguardare lo sterminato patrimonio linguistico, artistico, creativo, intellettuale e culturale, che è una specificità e una eccellenza italiana.

In realtà questo compito di farsi educatori non riguarda solo gli insegnanti ma tutte le persone di Cultura chiamate e contrastare, con spirito critico, questa sorta di meticciato linguistico digitale. E ciò è ancora più importante quando si richiamano alla mente gli ultimi dati sul comportamento dei giovani verso l’uso smodato dei dispositivi digitali, propri di un ambiente virtuale non reale: il 90% dei giovani tra i 18 ed i 29 anni dorme con il proprio smartphone acceso e il 75% dei giovani usa il telefono in media 8 ore al giorno, lo tiene acceso senza interruzione nelle 24 ore; e infine metà di essi controlla immediatamente il telefonino quando si sveglia durante la notte. C’è dunque molto da meditare sulla difficoltà di contrastare questi fenomeni e c’è da temere che si avveri il pensiero di Seneca quando diceva: non si ferma il vento con le mani!

L’uso della lingua sui social, dunque, è profondamente cambiato nel corso del tempo. «Se procediamo di questo passo nel 2050, sotto la spinta delle continue contaminazioni, delle nuove tecnologie, delle migrazioni e dei cambiamenti demografici parleremo un italiano inglesizzato non solo poco colto, grezzo, ma anche sgrammaticato, visto che spesso, soprattutto i giovani, tendono a dire, per esempio, “domani vengo da te” al posto di “verrò”. A lanciare l’allarme è il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, professore di Storia della lingua italiana all’Università del Piemonte Orientale. “Già oggi sono nati” – continua lo scienziato della lingua – “…molti verbi nuovi, legati al mondo di internet, tutti della prima coniugazione quali taggare, chattare, postare”. Secondo questo studioso la lingua scritta non sparirà, ma visto lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e della telematica, si ricorrerà sempre più ai messaggi vocali ed ai programmi di dettatura.

Purtroppo oggi sui social si nota talvolta anche il ricorso gratuito al turpiloquio come cagate o rincoglionito; il tutto, condito da giudizi spesso non richiesti. Bisognerebbe ricordarsi che nello spazio spartano della rete, noi siamo le parole che scegliamo di usare, nel bene e nel male. Sembra una vera banalità, ma la sensazione è che non siano poi molti i giovani (e non solo), che manifestano piena consapevolezza dell’importanza della parola nella costruzione del sé. 

Per alcuni è rinfrancante pensare che queste tendenze sono, in realtà, riscontrabili un po’ in tutte le lingue. La minore attenzione rivolta alla lingua scritta, anzi digitata, la tendenza al pressappochismo, la visibile difficoltà nel gestire le proprie competenze linguistiche e comunicative, i problemi legati al mancato filtro tra aspetti pubblici e privati, si riscontrano indipendentemente dall’idioma usato nelle relazioni in rete. È però probabile che con il tempo le persone volgano sempre più attenzione alla loro reputazione in rete, curando di conseguenza di più la lingua usata. In fondo, sono competenze che dobbiamo farci tutti: è necessario imparare a vivere bene il mondo digitale, comprendendo che siamo diventati tutti personaggi pubblici, che di conseguenza devono imparare a gestire bene quello che fanno vedere sui social, ricordando che la maggior parte della costruzione della personalità online passa proprio dalle parole. Saremo, come esseri umani, all’altezza della sfida cognitiva e comunicativa offerta dalle nuove forme di connessione che abbiamo creato? Ai post(eri) l’ardua sentenza. Ma ricordando che la rivoluzione silenziosa parte dalle scelte individuali di ognuno di noi. Non è, ad esempio, il semplice possesso di una biblioteca a far diventare una persona uno studioso. È un dato di fatto imputare ai social l’impoverimento delle idee e dell’atteggiamento corretto e responsabile; in realtà questo dipende dall’impoverimento del livello culturale delle persone!

3. Evoluzione o involuzione identitaria?

L’era della globalizzazione mercatistica che stiamo vivendo travolge tutto ciò che è singolare, differente, individuale, qualificato e selezionato, tanto che oggi si parla di effetto Flynn capovolto: nei paesi occidentali il Q.I. diminuisce di mezzo punto annuo dal 2000. Insomma, stiamo diventando più sciocchi. È l’effetto della civiltà dell’immagine, basata sulla superficialità, sull’accumulo indifferenziato di informazioni, sullo specialismo che ci rende esperti in un minuscolo ambito della conoscenza e ignoranti in tutto il resto. È anche l’esito dell’affidarsi agli apparati artificiali per compiere qualsiasi operazione intellettuale e assumere ogni decisione, disattivando intere aree del cervello. La terza e ora la quarta rivoluzione industriale, basata sulla tecnologia informatica e sulla robotizzazione, non hanno bisogno di ingenti masse umane, né di intelligenze speculative. 

È gradita un’umanità che non ponga e non si ponga domande: bastano masse addestrate all’uso dei dispositivi informatici, dalla mente binaria (aperto/chiuso, sì-no) come gli apparati tecnici. Il pensiero critico, il dubbio fecondo non interessano. La cultura è riservata alle minoranze destinate al comando. Il presente si basa prevalentemente sull’immagine, il flash, il flusso di informazioni che si disperdono per sovraccarico e delle quali devono essere trattenute solo quelle “utili” al sistema del consumo. Conta solo ciò che può essere fatto valere immediatamente sul mercato o che serve per utilizzare gli apparecchi informatici, non più propaggini dell’essere umano, ma guide, maestri, tutor la cui mancanza produce un drammatico cortocircuito.

L’uso compulsivo di computer, calcolatrici, smartphone ecc. non diminuisce solo la capacità di calcolo, di concentrazione e ragionamento, ma rende il linguaggio più tecnico ed essenziale. Di qui proviene l’impoverimento del linguaggio. Non si tratta solo della diminuzione della conoscenza lessicale, un vocabolario di massa ridotto a poche parole, ma della perdita della capacità di elaborazione linguistica che permette di formulare un pensiero complesso. Di qui anche la progressiva scomparsa di tempi e modi verbali, che dà luogo a un pensiero quasi sempre declinato al presente, incapace di proiettarsi nel tempo. Il signorino soddisfatto – e imbarbarito – pensa, parla e si comporta sempre e solo al presente. Senza le parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso è impossibile.

Gli ambienti non democratici hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c’è pensiero senza parole. Il potere è sì apolide, ma ha una sede in chi vive di riduzionismo, semplificazione, fastidio per i concetti. Dal mondo digitale viene la spinta a semplificare l’ortografia, abolire i generi, i tempi, le sfumature, la complessità, ovvero a impoverire la mente umana. È una scelta in cui erroneamente si crede così facendo di possedere potere, diritti, persino capacità di direzione, ma la realtà è opposta. È espropriato il pensiero meditante e non solo le belle parole, allontanate dalla Cultura, riempite di pseudo diritti privi di senso, quasi tutti appartenenti alla sfera pulsionale, e orientati alla perdita di responsabilità a vantaggio della comodità. 

D’altronde il rischio è che con queste dinamiche linguistiche sia bandita non solo la Cultura ma la stessa trascendenza e spiritualità, col rischio di creare un mondo distopico abitato da una massa acritica, credulona, aliena dalla realtà, immersa in paradisi artificiali audiovisivi e chimici, in cui l’uomo è un codice numerico senza importanza, destinato a produrre, consumare ed essere gettato via non appena cessa di essere utile alla produzione delle cose. Nessuna cospirazione, nessun complotto: solo che la libertà linguistica non può sostituire quella originaria, naturale, propria della condizione di uomo libero.

Ora l’identità, così come la si intende sia nel linguaggio quotidiano e cioè come nucleo ed essenza di ciò che siamo, “decidere l’identità”, significa decidere ciò che si è e ciò che non si è, a chi si è simili e da chi si è dissimili, implica due operazioni contrapposte ma strettamente connesse: la separazione che gioca la carta del particolarismo e che costruisce l’identità sulla base di quelle caratteristiche che rendono il soggetto unico e irripetibile; l’inclusione che gioca la carta della generalità e riconosce appartenenze e somiglianze. L’identità dipende sempre da un insieme di decisioni e di scelte. Si tratta allora di decidere dove disegnarne i confini: cosa tagliare e come classificare, cosa assemblare e come costruire, cosa includere e cose escludere.

Quando l’ambivalenza culturale viene giocata fino in fondo elimina, per così dire, i dilemmi identitari derivanti dall’appartenenza a culture diverse: quella d’origine e quella maggioritaria. Dire: non sono l’una ma sono l’altra cosa, sono entrambe le cose, non sono nessuna delle due … diventa una scelta provvisoria e relativa all’interlocutore di turno o alla contingenza delle circostanze. Questo non vuol dire svilire l’identità, negare l’importanza cruciale che per ciascuno ha il senso della propria continuità e interezza nel tempo, sottovalutare la necessità di porre confini per narrare, a se stessi e agli altri, ciò che si è e a ciò che non si vuole essere. Vuol dire – e ciò diventa tanto più significativo e necessario durante l’adolescenza – mostrare e nascondere a seconda delle circostanze, modificare i propri comportamenti a seconda dell’interlocutore, sottrarre o aggiungere prospettive nuove al proprio e altrui sguardo, cambiare i criteri con cui si classifica la realtà e si rappresenta se stessi. Scrisse Dario Fo che il padrone conosce mille parole e l’operaio trecento: per questo è il padrone. È uno squarcio di verità, che spiega l’impegno di pochi a tenere nell’ignoranza e nella minorità i tanti; se quest’ultimi provano ad alzare la testa, gli rubano le parole, le conoscenze e magari rimuovono progressivamente le loro capacità intellettuali. È sempre bene trarre ispirazione dai grandi autori. Pier Paolo Pasolini, ad esempio, nelle Lettere Luterane scriveva: ”l’Italia di oggi è distrutta esattamente come l’Italia del 1945; anzi la distruzione è ancora più grave perché non ci troviamo tra macerie pur strazianti di case e monumenti, ma davanti a macerie di valori spirituali e Civiltà”.

Lingua italiana, giovani e modernità nell’Era delle Tecnologie digitali – di Giuseppe Bellandi

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