Il testo a seguire non è un vero e proprio articolo, piuttosto una rosa di impressioni ricavate da alcune visioni cinematografiche dell’autunno 2018. Essa, fin dal titolo, si rifà alla miscellanea Segni dei tempi (Controcorrente; 2004) dello scrittore Gianfranco De Turris imperniata, appunto, su “[…] presagi, segnali, indizi, simboli rivelatori di ciò che succede nella società” (Op. cit., pg. 14) e al contempo protrae alcune riflessioni già tracciate nel mio saggio breve La provvidenziale distruzione del racconto, più specificamente alla voce ‘Rinuncia al linguaggio’ (AA.VV., “Specializzazione”, riv., Gennaio 2018). Ieri come oggi, i film formicolano di segni. I film sono segni essi stessi; incorporano innumerevoli aspetti della nostra quotidianità, “della cultura, del costume, del modo di vivere, sino all’ideologia” (Ibidem). Come costaterete leggendo, ho cercato di raggruppare le otto pellicole visionati in quattro sezioni il cui nome ne suggerisce il tema (o, nel nostro caso, il segno) portante:

  • MANIFESTAZIONI DEL PASSATO: ‘QUASI NEMICI’, ‘MUSEO’

Quasi nemici è una piacevole commedia transalpina diretta da Yvan Attal, meno ottimista di quanto possa apparire di primo acchito. La trama vede un sempre misurato Daniel Auteil vestire i panni di Pierre Mazard, un professore specializzato in oratoria forense all’Università Panthéon-Assas di Parigi. Attaccabrighe e famigerato per le sue posizioni tradizionaliste, Mazard verrà costretto dal collegio dei docenti – a causa di una gaffe compromettente che lo spettatore scoprirà da sé – a trasformare una studentessa araba (la spontanea Camélia Jordana, vista di recente in Due sotto il burqa), da giovane scomposta e bizzosa in un’astuta oratrice degna d’essere presentata ad un agone di eloquenza e, un domani, forse, in tribunale… I detrattori del politicamente corretto troveranno pane per i loro denti: la sceneggiatura tende, infatti, a semplificare questioni complesse come il confronto tra popoli, gli itinerari attraverso cui coriacee minoranze etniche vengono inglobate nel corpo europeo, corpo in apparenza ricco di ideali e cultura seducenti ma, sotto la pelle, essenzialmente monopolista e portavoce degli aspetti più foschi della Modernità (linguaggio ‘volpino’ e assertivo, relativismo ecc.). Eppure Quasi nemici esce a testa alta, giocandosi due carte vincenti: l’affiatamento degli interpreti principali ma soprattutto l’onestà nel mettere in discussione, pur non elevandosi da toni carezzevoli, l’uso che le Istituzioni – siano esse giuridiche, accademiche, governative – fanno della Parola. Una pellicola che incorpori, tra il serio e il faceto, questo tema non poteva che essere concepita in Francia. Benedetta Craveri, nel suo bel studio La civiltà della conversazione, ripercorre la storia di due secoli, il XVII e il XVIII, nei quali “in luoghi cruciali come la corte e i salotti d’Oltralpe, una classe in particolare, l’aristocrazia, celebrava i suoi riti basati sulla tecnica della conversazione. […] Quali erano i requisiti per essere ammessi alla presenza dei potenti? L’eloquio brillante (Le brio è, appunto, il titolo originale della pellicola di Attal; N.d.A.), la capacità di sfornare motti di spirito, la parola insomma efficace. La selezione era micidiale, gli spiriti cosiddetti ‘banali’ o ‘ridicoli’ erano esclusi e non di rado i malcapitati si suicidavano per questo” (cfr. Ridicule in Del Ninno G., Piombo, sogni e celluloide, OAKS, 2018; pgg. 83, 84, 86, 87). Quel gioco sadico, sembra dirci il regista, fra lusso e divertimento, umiliazione e vergogna, non è rimasto sepolto nel Passato, ha solo cambiato contesto: dalla conventicola di Versailles si è trasferito nell’universo degli odierni Atenei parigini. E, forse, non solo parigini.

Ancora una volta il Passato, più precisamente il mondo precolombiano, da del filo da torcere ai personaggi di Museodi Alonso Ruizpalacios, un poliziesco anomalo, liberamente ispirato ad un episodio di cronaca nera avvenuto nel 1985 ai danni del Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico: quasi una parabola tragicomica sulla carenza del senso di identità culturale nonché sulla “vanità” dell’accumulo delle cose terrene. Juan e Wilson (Gael García Bernal, Leonardo Ortizgris), aspiranti veterinari scapestrati e fuori corso, progettano il succitato furto da settimane. L’occasione d’oro si presenta quando il Museo chiude provvisoriamente per lavori all’impianto di ventilazione. Nell’arco di una notte, il colpo va a segno ma i problemi non tardano ad arrivare: i manufatti Maya trafugati sono, infatti, praticamente invedibili al mercato nero delle antichità… Cosa farsene dunque? Dove poter fuggire? E, qualora si vedessero costretti a tornare scornati sui loro passi, come spiegare alle famiglie o alle autorità le ragioni del furto quando non sono mai state chiare neppure a loro, fin dall’inizio? Le pellicole incentrate su rapine sono numerose, dallo spettacolare Topkapi di Jules Dassin al durissimo Oro rosso di Jafar Panahi, ma ciò per cui Museo si distingue è la scelta curiosa e beffarda di descrivere l’universo criminale come un universo di bambini: bambini che hanno visto troppe serie televisive e letto troppi romanzi di spionaggio a buon mercato, con tanto di danzatrici del ventre e scene madri sullo scambio di merci o prove assortite di virilità. La macchina da presa sembra poi totalmente indifferente alle peripezie che coinvolgono i protagonisti: taglia in due i volti, predilige le inquadrature inclinate, tralascia – relegandoli fuori campo – dialoghi importanti preferendo esplorare gli spazi circostanti o dettagli come le movenze dei pesci tropicali in un acquario. Il copione, infine, ci suggerisce che gli oggetti d’arte non sono mai del tutto inanimati: dietro ciascuno si cela una Storia e una ‘vita’ ben più importante di chi li possiede o li ruba… e qualche volta, a modo loro, possono vendicarsi. In breve, la cupidigia non paga, assai mutevole è il Presente (e Juan e Wilson ne sono un prodotto, troppo fragili e acerbi perché lascino una traccia e la cinepresa riesca, quindi, ‘metaforicamente’ ad immortalarli) e il Passato, poiché senza prezzo, non potrebbe mai essere venduto. Museo è, tirando le somme, la cronaca della bravata di due emarginati creduloni i quali troppo tardi si arrendono all’idea che ‘Babbo Natale non mai esistito’; capirete il senso di questa battuta solo gustandovi il film in sala.

  • VERITÀ E BELLEZZA, DUE STANZE VUOTE: ‘EN GUERRE’, ‘LONTANO DA QUI’

“[…] È sempre meno appropriato il termine di detective, che sta a indicare chi, per mestiere, deve scoprire una verità nascosta dai veli. Forse perché sotto i veli, il mistero succede al mistero e non il ritrovamento, ma la ricerca perenne è l’orizzonte dell’uomo di oggi e dei suoi sogni meccanici” (cfr. Misteri e Detectives in Del Ninno G., A schermo spento, Pantheon, 2006; pg. 79). Per introdurvi al provocatorio messaggio di En guerredi Stéphane Brizé, potrebbe esserci utile non solo la suddetta citazione di Del Ninno ma anche e soprattutto il dialogo di un altro film, di genere diverso, I signori della truffa (1992) di Phil A. Robinson. Nell’epilogo di quest’ultimo, due esperti di informatica, Kosmo (Ben Kingsley) e Martin (Robert Redford), vecchi amici divisi dalla Storia, discutono ferocemente sull’uso di un decodificatore all’avanguardia e le probabili derive illecite:

Kosmo: “È assurdo che tu abbia rinunciato, avresti avuto il potere. Sai dove si potrebbe arrivare con un simile dispositivo?

Martin: “Lo so, ma non troverei nessuno lì

Kosmo: “Esatto! Il nostro mondo non è più dominato dalle armi, dall’energia, dai soldi ma da piccoli ‘1’ e ‘0’, da ‘bit’ e da dati… […] C’è una guerra là fuori, una guerra mondiale, e non ha la minima importanza chi ha più pallottole ma chi controlla le informazioni: ciò che si vede, si sente, come lavoriamo, cosa pensiamo, si basa tutto sull’informazione”.

Sono trascorsi ventisei anni e laddove finiva I signori della truffain un certo senso comincia En guerre: al centro della vicenda vi è il personale al completo, amministrativo ed operaio, della filiale francese di una società metallurgica tedesca. Quest’ultima decreta la chiusura definitiva della filiale in spregio alla clausola sui tempi di consegna dei pezzi, ampiamente rispettata dai lavoratori. Il più agguerrito, Amédéo (un carismatico Vincent Lindon), si fa portavoce del disagio generale e, supportato da alcuni consulenti, blocca la produzione, schiva le trappole della burocrazia e l’inefficacia dei mediatori aziendali per riuscire ad interloquire direttamente con Hauser, presidente e fondatore della società. Scoprirete, durante la visione, quali sono i svariati guai che precedono questo incontro, si spera, decisivo… La domanda che questo gruppo di lavoratori si pone è la stessa di ogni generazione, secolo o comunità: vale la pena ribellarsi? Anche sapendo che è inutile, che si procureranno sofferenze, incomprensioni? Rimane sempre da capire, aldilà di tutte le sovrastrutture culturali, religiose, ideologiche, quanto noi umani (più specificamente, noi cittadini) siamo ancora portati verso l’epica, intendendo per epica la sfida allo stato delle cose, pur sapendo che la sfida andrà persa. C’è, però, una differenza sostanziale fra i lavoratori di oggi e quelli descritti da Charles Dickens in Tempi difficili (1854) o da John Steinbeck ne La battaglia (1936): essi vivono, come I signori della truffa già previde, in un mondo egemonizzato dall’Informazione, dove l’apparire ha sostituito definitivamente l’essere. Nelle lunghe discussioni fra gli operai fanno capolino frasi come “Cosa diranno di noi al telegiornale?” o “Quale immagine di noi circolerà in Rete?” anziché “Come possiamo coordinare gli sforzi?” o “Dove ci condurrà la nostra guerra?”. Non sembra esserci più posto per la Verità: le nuove ‘litanie’ si recitano con il lessico dell’alta finanza, di calcolatori elettronici che rigurgitano mucillagini di numeri; il Tempo è organizzato in funzione del profitto o con l’ossessione del Domani la quale non ci consente di vivere pienamente gli eventima ci avvolge in un continuo senso di sospensione; la tela sperimentale And / End (1966) di Mirella Bentivoglio sintetizzò bene tale regolazione sociale e culturale del Tempo, in altre parole l’oscillazione fra attesa indefinita (la congiunzione ‘e’, appunto) e termine ultimo (‘fine’). Amédéo e suoi compagni vogliono delle spiegazioni su quanto sta accadendo, ne hanno il diritto, vogliono la Verità come tutti noi. Il mistero (tragicamente laico, non religioso) sembra vicino ad una svolta, resta l’ultima porta. Si apre: Hauser è seduto dietro alla scrivania, parla fluidamente, a voce alta, ma in modo inintelligibile. La stanza, in fondo, è come se fosse vuota. Martin (Robert Redford) aveva ragione: per quanto a lungo domanderemo, per tante che saranno le porte da aprire, per affinati che siano i nostri mezzi, giunti alla meta non troveremo, comunque, nessuno. Nel Regno della Quantità, l’Umano ha cessato non solo di essere tale ma di essere tout court.

La Poesia sta attraversando un periodo non meno aleatorio della Verità, ce lo ricorda la regista Sara Colangelo nel toccante Lontano da qui. La storia è ambientata in un distretto di New York e segue da vicino una maestra d’asilo (l’espressiva Maggie Gyllenhaal). Lisa, questo è il suo nome, è innamorata della Bellezza. Lo è di un amore ostinato, disarmato ma anche frustrato poiché la donna, pur mossa dalla passione, è priva di un vero talento. La famiglia non la stimola: i due figli, ormai grandicelli, sono quelli che solitamente si chiamano ‘primi della classe’, operosi, sì, ma vuoti e, comunque, già schiavi di telefonini e ritrovati vari; il marito è invece schiavo delle abitudini e di luoghi comuni che fanno capolino da quasi tutti i suoi ragionamenti. Lisa ripone, dunque, il suo amore per il Bello nella cura del giardino, nella frequentazione di un laboratorio di poesia e, più importante ancora, nei metodi di educazione all’asilo: essa circonda letteralmente i bambini “di Bellezza”, lo fa servendosi dei colori, della presenza di piante rigogliose, della musica classica, sottofondo immancabile delle sue lezioni. L’imprevisto accade proprio durante una di queste lezioni: il piccolo Jimmy (Parker Sevak) recita, quasi in stato di ‘trance’, una breve poesia: “Anna è bella. Abbastanza bella per me. Il sole illumina la sua casa gialla. Ed è come se fosse un segno di Dio”. Cinque anni, trascurato dai genitori, accudito da uno zio privo di nerbo ancorché istruito, rincretinito da una balia semianalfabeta, scomposta, venale, presa solo dalle sue velleità d’attrice… nondimeno la voce, il corpicino di Jimmy sono stati perfusi per un istante dal talento; di quel talento che non ha e non avrà mai, per la prima volta nella vita Lisa vede schiudersi una prova davanti a sé. Uno spettacolo che riempie il cuore ma lo spezza al tempo stesso. Possiamo indugiare fino alla noia sul candore dell’infanzia, sul frequente (e, a dire il vero, un po’ logoro) accostamento della figura del Poeta con quella del Bambino, ma il dubbio resta: perché mai Dio avrebbe fatto dono dell’ingegno poetico, della dote più preziosa, la cui Bellezza – in una società sofferente – tutti dovrebbero assaggiare e guarirne, ad un bambino? Un bambino che, in quanto tale, è ovviamente, giustamente disinteressato a tale dote se non nella misura in cui può servirgli da gioco?

In molte recensioni di Lontano da qui, si è parlato di “speranza” e “passione per la poesia”. Passione, forse. Di speranza se ne percepisce ben poca. Il messaggio della storia è inequivocabile: in una società sempre più meccanizzata, nella quale alcuni programmi informatici – come ascolterete in un dialogo del film – possono, se ben tarati, produrre perfino poesie di senso compiuto, leggendo le quali è impossibile distinguere fra artificio e fattore umano, non c’è più posto per la Bellezza e il primo a risentirne, cercando di esprimerla, è proprio il linguaggio verbale, incrinato com’è da neologismi e infantili semplificazioni. La Bellezza risulta assente nella gestualità delle persone, nell’architettura, nei luoghi di ricreazione o di lavoro; assente dagli stessi circoli letterari, frequentati ormai solo da intellettuali ridicoli e sboccati imitatori di Lawrence Ferlinghetti. Neppure i più sensibili si salvano oggigiorno agli occhi della regista, compresa la stessa Lisa. Infatti, come il mondo esterno pensa, sceglie, regolamenta, si esprime al posto nostro così pure si comporta la tormentata (e non proprio simpaticissima) protagonista con il piccolo Jimmy, sebbene mossa da intenzioni in fondo ammirevoli: essa è in qualche modo caduta nella stessa abiezione che si prefiggeva di combattere.

A pensarci bene, una via d’uscita potrebbe esserci, ma non nella Poesia. Non oggi, almeno: la Poesia può certo tentare di “invocare aiuto”, richiamare l’attenzione come fa Jimmy, seduto sul sedile anteriore di un auto della polizia, ma i finestrini sono chiusi e ben pochi riuscirebbero a sentire. Forse nel Silenzio, forse nella Musica, la bellezza può ancora fiorire. Entrambi ricoprono un ruolo importantissimo nel film: il silenzio e un’atmosfera quasi “metafisica” pervadono, ad esempio, i dipinti Il mondo di Christina (1948) di Andrew Wyeth e Un bagno ad Asnières (1884) di Georges Seurat, il primo apparendo di sfuggita in una galleria d’arte, il secondo trasparendo implicitamente dal bagno al lago che Lisa e Jimmy fanno insieme; il Notturno n. 1 in Si bemolle minore di Chopin e Il carnevale degli animali di Camille Saint-Saëns accompagnano poi i giochi e i sonnellini degli allievi della giovane maestra, portando lo spettatore realmente ‘lontano da qui’, definitivamente lontano dalla sfera umana. Come dice infatti M. de Sainte-Colombe (Jean-Pierre Marielle) nel capolavoro di Alain Corneau, Tutte le mattine del mondo (1991): “La musica esiste solo per parlare di ciò di cui la parola non può parlare; in tal senso, essa non è del tutto umana”. Durante le feste natalizie, le sale cinematografiche sono perlopiù intasate di fiabe canterine, bamboccesche: se desiderate una fiaba diversa, malinconica, perfino severa, come severe sono alcune delle fiabe più belle, Lontano da qui potrebbe essere la pellicola che fa per voi.

  • TENTAZIONE DELL’UTOPIA: ‘CAPRI REVOLUTION’, ‘LA DONNA ELETTRICA’

“Gan ‘Eden” secondo il pensiero ebraico, “Pardes” per i Babilonesi, “Giardino di Yaperikuli” per i Baniva sudamericani… molti sono i suoi nomi e quasi ogni cultura condivide questa visione comune: un luogo traboccante di vita, immune dalla rovina, al quale non siamo più degni di accedere benché vi appartenessimo; perciò non ci rimane che ripensarlo, cercare fra mille pene di ricreare qualcosa che vi assomigli il più possibile. L’Utopia consiste esattamente in questo: è una bramosia sedimentata da qualche parte nell’organismo. Ci occupa, ci molesta ma finiamo sempre per espellerla o, al limite, ammutolirla. Perché?

Sette anni fa, durante una presentazione letteraria, il compianto filosofo Costanzo Preve (1943-2013) ricavò uno spunto di discussione sulla prassi in ambito sociale, che così rielaboro evidenziando in corsivo tre concetti-chiave: «[…] Possiamo anche far finta di niente ma oggi quasi tutti gli studiosi, alcuni in maniera neo-liberale, altri in maniera sapienziale, altri ancora sotto il segno di Heidegger o di Weber, sentenziano la definitiva perdita di senso del mondo, che i destini della tecnica e dell’economia sono oramai sovrapposti ad esso, che l’esperienza del comunismo storico novecentesco ha dimostrato che ogni tentativo di cambiare le cose non può che peggiorarle ecc… Ebbene, questo gigantesco apparato ideologico, poiché l’ideologia di fatto si concretizza in apparati ideologici, occupa dall’80 al 90 % dei gruppi intellettuali e delle facoltà di filosofia nell’Europa Occidentale (probabilmente non in America Latina o nei Paesi Arabi), i quali sono pagati dallo Stato, cioè da noi sostanzialmente, per insegnare ai giovani che non c’è più niente da fare. Ciò è il riflesso, filtrato, dell’egemonia dell’impero americano» (cfr. Fusaro D., Preve C., Essere senza tempo, conf., Assoc. Culturale Quintiliano, Torino 03-04-2011).

Le parole di Preve potrebbero apparire eccedenti rispetto al tema in oggetto – e, in parte, lo sono – nondimeno ben identificano i tre “granatieri” che puntualmente intervengono all’insorgere di una visione ribelle, di qualsiasi natura: (I) messa in evidenza del carattere ‘contro-natura’ del rinnovamento, (II) rassegnazione all’impossibilità dell’agire organizzato, (III) invito al pragmatismo materiale (sovente di matrice statunitense) e ad un cammino di liberazione individuale come l’unico praticabile. Se questi, però, sono i fondamenti dell’assetto sociale e istituzionale moderno, perché allora tollerare che si parli tutt’ora di Utopia, continuando ad instillarne il desiderio negli individui, magari proprio attraverso l’Arte? La domanda è meno scontata di quanto sembri e così pure la risposta che, involontariamente, ci suggerisce Michel Thévoz nel suo splendido libricino Le théâtre du crime (1989): al fine di esorcizzarla, l’Utopia deve essere, in qualche modo, presentata come già compiuta (in parte, almeno), così che il fruitore (uditore nel caso di una canzone: lettore, nel caso di un romanzo o di un saggio; spettatore, nel caso di un film) si meravigli di non essersene mai accorto e di averne goduto, ignaro, i frutti fino a quel momento. Sullo schermo o sulla carta prendono, quindi, forma delle immagini in cui l’ideale si finge naturale, passando per ‘storicamente realizzato’. O, meglio ancora, l’ideale invoca l’alibi del reale per non dover mai realizzarsi. Le due “fiabe per adulti” (consentitemi di chiamarle così, come già feci per Lontano da qui) scelte per questa sezione, seppur notevoli sotto molti aspetti, rientrano fatalmente nel summenzionato meccanismo culturale. Osserviamole insieme.

Nella prima pellicola, Capri revolution, il talentuoso cineasta Mario Martone, coadiuvato da Ippolita di Majo, immagina che sull’isola del titolo una giovane guardiana di capre, Lucia (Marianna Fontana), scorga per caso il pittore bavarese Karl Wilhelm Diefenbach (1851-1913) – personalità atipica della corrente germanica del Simbolismo, ribattezzato Seybu dal copione – mentre rivolge la sua carnale preghiera all’Alba Nascente: pettinato alla nazarena, spogliato delle vesti, ritto su uno scoglio e attorniato dai suoi discepoli, anch’essi nudi. Quest’immagine, in tutta la sua travolgente innocenza, lascia un segno negli occhi di Lucia al punto che la fanciulla abbandonerà tutto, doveri e famiglia, per abbracciare una nuova vita: conosce il Bello, si nutre di cibi sani, diviene sempre più abile nella scrittura e nella lettura, “vola” letteralmente sopra i Faraglioni come in un dipinto di Chagall, impara a danzare per sentirsi più vicina al quel Dio che non castiga affatto il Creato, come raccontano le vecchie cocciute, ma lo impregna amorevolmente in ogni sua forma (corpi compresi). Lucia si sta, dunque, trasformando in un essere libero il cui linguaggio, parafrasando il Vangelo, inizia a rifiutare il superfluo per dire ‘sì’ quando è ‘sì’ e ‘no’ quando è ‘no’. Nel cammino di Lucia subentrerà un’altra presenza incisiva: Carlo (Antonio Folletto), un giovane medico vicino ai circoli rivoluzionari russi, fiducioso che le strategie operative di questi ultimi possano accendere anche gli animi dei braccianti del Mezzogiorno. Carlo e Seybu / Diefenbach (Reinout Scholten van Aschat) sono due utopisti, entrambi anelano al cambiamento: il primo è un uomo dell’agire, il secondo dell’essere. Quale delle due vie risulterà più feconda per Lucia e, indirettamente, per la sua terra natale?

Ugualmente, la vicenda di Capri revolution offre due fili logici che lo spettatore sarà libero di percorrere: il primo è rapportarsi ai personaggi dell’età storica rievocata (i mesi che precedono lo scoppio del primo conflitto mondiale) solo perché in essi si intravedono “i simboli di eterni problemi, di universali posizioni ideali” (A. Tilgher), in breve tuffarsi nel Passato non perché sia interessante di per sé ma solo per ciò che in esso vi è di valore universale o, più semplicemente, di riconducibile al Presente. In questo senso, gli verrà spontaneo il collegamento fra le utopie di Karl Diefenbach e seguaci con le tendenze del secondo Novecento (naturismo, liberazione dei costumi sessuali, scelte vegetariane, medicina alternativa, volgarizzazione delle religioni orientali ecc.) ma le suggestioni a riguardo, va detto, potrebbero esaurirsi presto.

Il secondo filo logico consiste nel prestare attenzione all’aspetto figurativo per ricavare il vero, sottile messaggio del film… e in ciò la messa in scena di Martone è davvero prodiga di indizi. I riti consumati nei boschi e sugli altipiani capresi traboccano, infatti, di citazioni pittoriche: si passa da un capolavoro come L’Età dell’Oro (1540) di Lucas Cranach il vecchio, alle incantevoli driadi nude di Bouguereau e Warren B. Davis, a Girotondo sul Tirreno (1907 ca.) del macchiaiolo Francesco Gioli fino a La danza (1909) di Henri Matisse; ma la vera fonte di ispirazione del direttore della fotografia Michele D’Attanasio è l’opera di Hugo Höppener (1868-1948), il miglior discepolo di Diefenbach che lo ribattezzò ‘Fidus’, del quale, in due inquadrature di Capri devolution, vengono fedelmente riproposte le litografie Preghiera alla luce (1894) e Pioggia e Nebbia oscurano il radioso Mezzogiorno… (1905). Perché mai una simile precisione iconografica può tornarci utile per comprendere il fine ultimo dell’operazione? Alla domanda “Sei d’accordo con chi sostiene che certe correnti tardo ottocentesche legate al culto del corpo saranno riprese dal nazismo?” il regista risponde: “Il nazismo nacque attraendo e poi trasfigurando mostruosamente molte idee nuove del suo tempo, questo dovrebbe sempre metterci in guardia dal canto di ogni sirena politica che si proclama come risolutiva dei problemi del mondo: è ben diversa la storia guardata dall’inizio o dalla fine dei suoi processi. Artisti come […] Hugo Höppener […] aderirono al nazionalsocialismo venendo ben presto ripudiati dal regime e scaraventati sulla lista nera dell’Arte Degenerata. Ma quello che mi attraeva delle comuni, come quella di Diefenbach, era proprio la loro collocazione in un tempo precedente agli orrori del Novecento, un punto innocente, aurorale, in cui lo sgorgare delle idee aveva una purezza che oggi può essere riconsiderata. (cfr. Conversazione tra Antonio Gnoli e Mario Martone in Martone M., di Majo I., Capri revolution, ‘La Nave di Teseo’, Milano 2018).

L’onestà intellettuale e la nostalgia di Martone sono fuori discussione: è la speranza di tornare all’Età dell’Oro che ha intravisto in questa curiosa pagina della storia di Capri! Addormentarsi al Sole, tuffarsi nei ruscelli, mangiare i frutti della terra dimentichi di ogni conoscenza di fatica e dolore: perché non dovrebbe essere questo il destino dell’Umanità? Quali mete ultime della Storia non sarebbero deprecabili né la convivenza armonica con la Natura, né la divina atarassia o l’indole contemplativa se non fosse che l’Utopia dell’artista bavarese non ha, purtroppo, più nulla che possa considerarsi “aurorale”: essa si trova solo in apparenza fuori dalla Storia, in realtà vi è ben dentro; può giusto mimare l’Età dell’Oro o i Paradisi elencati all’inizio ma nulla più. Senza contare che di pace imperturbabile, grazia arcadica e sanità incorruttibile era già satura la coeva produzione grafica (es. Ludwig Fahrenkrog) e plastico-scultorea (es. Ludwig Habich) tedesca la quale fungerà da abbeveratoio alla propaganda del Terzo Reich, come Antonio Gnoli prima accennava.

Altri fatti decretano inesorabilmente il fallimento dell’Utopia. Il personaggio di Herbert (Maximilian Dirr), ad esempio, liberamente ispirato a Otto Gross (1877-1919), stravolgendo i principi della neonata psicanalisi apre alla comunità di Karl Diefenbach le porte del subumano, recuperando il culto dionisiaco con un’intensità “bassa”: esso, infatti, non ha più nulla della sacralità originaria ma diventa quasi un perverso festino tra amici, con tanto di crocifissione blasfema – ricalcata sulla tela Al chiaro di luna (1894) di Albert von Keller. Le movenze impacciate ma gioconde intorno agli alberi, tanto care a Lucia, cedono poi il passo a pose gelide e affettate, le stesse che, sotto il Nazismo, caratterizzeranno i dipinti di Johann Schult e le fotografie artistiche di Gerhard Riebicke (però la comunità si giustifica: “Dobbiamo progredire!”). Diefenbach congeda così la ragazza “È destino che il cambiamento debba avvenire solo attraverso la guerra”, parole terribili che rinviano al filosofo Georges Bataille quando scrisse “L’azione armata ha nelle battaglie omicide, nei massacri e nei saccheggi un senso vicino a quello delle feste” (cfr. Théorie de la Religion, op. posth., 1973, pg. 53): la guerra è perciò l’unico “rito religioso” che il mondo della tecnica possa permettersi, in ogni caso l’unico che sedurrà il personaggio di Carlo il quale, infatti, accoglierà la chiamata alle armi e, purtroppo, non in funzione del Sogno Rivoluzionario. Sempre Diefenbach, verso la fine, si ergerà di notte su una rupe, in una postura simile al giovane del quadro Sguardo nell’eternità (1903) di Ferdinand Hodler, con la differenza di non essere colto nel momento supremo del suo sforzo creativo bensì nella solitudine e nella paura: egli grida atterrito, spaesato, senza più coraggio, proprio come Massimo Girotti nell’ultima sequenza di Teorema di Pier Paolo Pasolini.

La tragedia si è compiuta: una volta per tutte la Natura si rivela matrigna e gli Déi vanno in esilio, lasciando l’Uomo del Novecento in balia di sé stesso e del mondo che si è creato. Nulla resta da fare, però – e qui torniamo alle premesse iniziali – l’Utopia, per il solo fatto di venire inscenata ed interpretata, giunge allo spettatore come realmente compiuta. Essa si afferma sotto il segno di ciò che in linguistica viene chiamato enunciato performativo, che rinvia soltanto a se stesso, e che di conseguenza “equivale al compimento di un atto” (cfr. Thévoz M., op. cit., pg. 30). Il messaggio, in sostanza, è che tutt’oggi godiamo (fosse anche in parte, ripeto) dei piaceri dell’Utopia, ci troviamo già in essa ma non ce ne siamo ancora resi conto. Sembrerebbe una concezione fiduciosa, in realtà è il quieto trionfo della censura o, se preferite, una grande “strizzatina d’occhio” che così può riassumersi: ideali e desideri sono da secoli serviti a scaricare i “bollenti spiriti”, lasciate dunque folleggiare chi li coltiva! Il ribelle è, in fondo, un essere incompleto, non ancora maturo, in cerca del suo posto nel mondo, ma imparerà le “buone maniere”, diventando magari un illuminato professionista o un cittadino emancipato. Non a caso, pur tenendo conto del contesto storico e culturale, vedremo nell’epilogo Lucia imbarcarsi per l’ultimo, allettante surrogato dell’Eden: l’America.

Dalla Capri paganeggiante di Mario Martone, con i suoi picchi rocciosi e le grotte sospese sul mare, facciamo rotta verso altri lidi ed altre utopie, in terra d’Islanda, suggestivo sfondo de La donna elettrica (titolo originale Kona fer í stríð: lett. “Una donna va alla guerra”): senza dubbio una delle pellicole più gustose fra quelle proiettate in anteprima durante le Giornate Mantovane del Cinema d’Essai (8-11 ottobre 2018). Come riassumervi la storia e, soprattutto, la sua idea centrale? Partiamo da un aneddoto: come ci racconta nel film una guida turistica, il popolo vichingo che colonizzò le terre islandesi nel IX secolo d.C. era solito tracciare delle linee che demarcassero il cosiddetto “frith-garthr” che in norreno significa più o meno ‘Cerchio della Concordia’. Esso poteva essere formato nel cuore di un boschetto mediante marcatori di varia natura (segni di pittura, lastroni in pietra ecc.) oppure dagli stessi combattenti una volta riunitisi in circolo: in questo recinto si poteva entrare in contatto con gli Spiriti degli Avi, con gli Déi; entrambi guidavano la casta guerriera a prepararsi spiritualmente alla guerra, a giudicare, a legiferare e, attraverso di essa, Déi e Antenati fortificavano e proteggevano il popolo vichingo. Il “frith-garthr” diventava quindi spazio sacro e, al tempo stesso, spazio politico.

I vichinghi, ovviamente, non abitano più questa terra da secoli, tuttavia – pare suggerirci il regista Benedikt Erlingsson – i Cerchi del Potere esistono ancora: a formarli non sono più guerrieri bensì dirigenti d’azienda, esperti di comunicazione, conduttori televisivi e politici rampanti. Essi non sono più mediatori fra gli Déi e la Comunità ma hanno preso, in un certo senso, il posto dei primi. L’economia islandese, le sue tradizioni, i suoi tribunali, il suo meraviglioso paesaggio portano i segni del loro barbaro operato. Pianori, sentieri e pareti rocciose vengono scrutati, giorno e notte, da droni radiocomandati che paiono, ormai, aver sostituito i draghi delle leggende e concretizzato ad un tempo l’invenzione del ‘corpo volante dei pompieri’ in Fahrenheit 451 di Francois Truffaut. Ciò non significa che non vi siano più guerrieri, paladini ansiosi di raddrizzare i torti… che non ci sia più posto per una visione sacrale della Natura. Per fortuna, Hella (Halldóra Geirharðsdóttir) è fatta di questa pasta! Di pomeriggio questa coraggiosa donna, piacente benché non più giovane, insegna canto presso un Centro per l’Educazione degli Adulti ma di notte, fino alle prime luci dell’alba, compie atti di sabotaggio ai danni di alcuni impianti strategici del sistema elettrico nazionale, munita di arco, frecce e arpioni quasi fosse un buffo ‘ninja’ in missione. Come si evolverà la sua rischiosa impresa? Basta fare un piccolo sforzo d’immaginazione…

Prima ancora che politico, quello di Hella è un atto sacro e morale: lei conosce la sua terra palmo a palmo, la salvaguarda, le porge un saluto prima di percorrerla, si inginocchia e la bacia come una figlia bacerebbe la madre. Durante le sue azioni temerarie Hella arriva perfino a camuffarsi sotto una pelle di montone e subito torna alla mente dello spettatore il significato che questo combattivo animale ricopre nell’iconografia cristiana ma anche in altre religioni: il montone ha, infatti, una duplice valenza che allude, da una parte, al sacrificio che suggella un nuovo patto con il Divino (le gesta quasi cavalleresche di Hella stendono, infatti, un ponte fra il Presente e il Passato della sua gente) e, dall’altra, al richiamo dell’Uomo alla responsabilità e alla necessità di intraprendere una battaglia in nome di valori in pericolo (cfr. Il montone in Stocchi C., Dizionario della favola antica, BUR, Milano 2012).

Viene da chiedersi se La donna elettrica possa essere interpretato come una ballata medievale in abiti moderni. Non è una lettura peregrina. La avvalorerebbero non pochi elementi. Come noterete fin dal prologo del film, gli abitanti islandesi, al pari degli antichi guerrieri, si salutano recitando la propria genealogia familiare, come se rivelarla e ascoltarla costituisse al tempo stesso un dono e un onore. La protagonista è, poi, seguita da un’orchestrina di vago sapore ‘klezmer’ nonché da un trio canoro di fanciulle in abiti tradizionali che sembra uscito dai dipinti dell’olandese Jan Portielje: entrambi i complessi decantano le gesta di Hella, fungendo da menestrelli e, insieme, coro tragico.

Armonia, coraggio, integrità e perfino un simpatico omaggio ai classici della commedia hollywoodiana degli equivoci (si vedano Lady Eva oppure Non tradirmi con me) costellano la vicenda de La donna elettrica, offrendoci oltretutto uno dei ritratti femminili più belli di questa stagione. Ciò nonostante, al pari di Capri revolution, neppure la robusta (anche se antica) fionda di Hella è stata in grado di abbattere il tecnologico Golia: fatta eccezione per la sorella gemella Ása e il cugino pastore Sveinbjörn, nessun’altro (dal popolo alle autorità competenti) ha compreso le sue ragioni. La donna conoscerà sì le gioie della maternità ma, ancora una volta, proseguirà da sola il proprio cammino, controcorrente, lungo una strada “simbolicamente” allagata dove ognuno prende una direzione diversa. Dopotutto, ci sarà sempre uno straniero (Juan Camillo Estrada) che espierà le colpe della società.

  • L’ACCETTAZIONE: ‘EUFORIA’, ‘PAPA FRANCESCO: UN UOMO DI PAROLA’

“La Morte distrugge un uomo: l’idea della Morte lo salva”. Così scrisse Edward Morgan Forster nel romanzo Casa Howard (1910). Si confonde spesso ‘accettazione’ con ‘rassegnazione’, ma sono due concetti distinti: uno è attivo, l’altro passivo. Le due pellicole che commenterò brevemente parlano di accettazione della transitorietà, su entrambi i versanti, individuale (es. la vita propria o di una persona cara) e collettivo (il genere umano nella sua interezza).

La prima si intitola Euforia ed è diretta dall’attrice Valeria Golino. Due fratelli, Matteo ed Ettore, interpretati rispettivamente da Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea, ci accompagnano nella vicenda. Matteo lavora presso uno studio di progettazioni illuminotecniche per mostre temporanee: ciarliero, decisionista, scialacquatore, arredatore dai gusti pacchiani; si comporta come un vero e proprio Signore ‘delle Illusioni’ o, meglio ancora, della ‘Superficie’ (si vedano i vetri-spia attorno alla sua cucina), pago di sguazzare in ambienti che oggigiorno di miraggi, di simulacri, fatalmente campano, siano essi legati alla Museologia, all’Industria o ad una certa propaganda fideistica. Ettore è un insegnante di scienze naturali col pallino della biologia marina: padre, marito, segretamente amante, in tutti e tre i casi abbastanza vigliacco da non riuscire a prendere una decisione. Nondimeno, pur con molte contraddizioni, Ettore si occupa (o cerca di occuparsi) della ‘Profondità’, esercizio estraneo alla vita di Matteo. Due uomini diversi eppure complementari poiché, come appurerete dalla pellicola, si vedranno costretti a gettare il proprio sguardo nell’abisso: Ettore è condannato da un tumore inoperabile ma non lo sa; Matteo invece ne è al corrente ma non vuole rivelarlo. Forse un viaggio a Lourdes cambierà le cose, aprendo loro gli occhi al mistero della Grazia. O forse no.

Euforia non convince fino in fondo: troppe sono le parentesi prolisse sulla vita godereccia di Matteo e così le sottotrame, riguardanti le vicende familiari e sentimentali dei fratelli, mai realmente approfondite. Tuttavia, Valeria Golino riesce a gettare uno sguardo autenticamente disturbante sugli eventi inscenati e – coadiuvata dal direttore della fotografia, l’ungherese Gergely Pohárnok, e lo scenografo Luca Merlini – incastona le figure umane in sfondi non comuni, irreali, per certi versi paragonabili a quelli degli ultimi film di Marco Ferreri, in particolar modo Il futuro è donna (1984). Degna di nota è, poi, come accennai nella premessa, la visionarietà con la quale si tratta uno dei temi più ispidi in assoluto: la Morte. L’intero film può essere letto come viaggio di iniziazione, quasi fiabesco, all’idea della Fine. I segnali sono numerosi: gli aneddoti di Ettore sulla bizzarra fauna oceanica che popola la cosiddetta zona ‘ado-pelagica’ nel cui nome risuona chiaramente l’Averno; i fugaci estratti di video d’arte con tunnel fosforescenti che paiono estendersi per miglia; il soggetto del ‘puzzle’ lasciato incompiuto da Matteo ossia ‘Krishna che traina il cocchio di Arjuna’ (il dio indù fiducioso che l’anima dell’eroe, suo protetto, sfuggirà all’oblio); stormi di uccelli in volo che in svariate culture sono considerati emissari dell’aldilà (o ‘psicopompi’). Ugualmente, Euforia narra della ritrovata voglia di giocare di due figli: figli che non sono mai stati davvero fratelli e forse neppure bambini anche se qualche volta si divertivano a imitare Stanlio e Ollio che cantano e ballano nel classico I diavoli volanti (1939). In ogni caso, per Matteo ed Ettore giungerà il momento di giocare ad un ultimo, coraggioso gioco: non un ‘puzzle’ da completare insieme, non i balletti comici dell’infanzia e neppure una rissa amichevole sul divano bensì correre incontro, sorridendo, alla Fine, aprendole perfino le braccia dal momento che – sentendosi pronti – non fa più così paura.

La seconda pellicola, Papa Francesco: Un uomo di Parola di Wim Wenders, a metà strada fra documentario e poema audiovisivo, è invece dedicata ai quasi sei anni di pontificato di Jorge Bergoglio. Uno strano incontro: il gesuita argentino proveniente da una terra in capo del mondo e il cineasta tedesco che più di ogni altro (in ciò è secondo solo a Werner Herzog) ha cercato di immortalare la fragile Bellezza del mondo, riponendo nell’Arte e, più in generale, nell’Immagine, la speranza di dar scacco alla Morte e all’imbruttimento della civiltà (si pensi a capolavori come Lampi sull’acqua, Lo stato delle cose o il recentissimo Il sale della terra). Ci si aspetterebbe da questo incontro, specie dal punto di vista della seconda personalità, un esito apologetico, umilmente a servizio della dialettica vivace del Santo Padre. Cosa che in parte avviene (es. il prevedibile accostamento con il Poverello d’Assisi), restituendoci comunque una visione del Reale – quella del Pontefice – ben più sfaccettata (e meno corriva) di quanto molte voci integraliste supponessero; una visione in cui si agitano idee rinviabili ai canonici Antonin Sertillanges e Georges Lemaître (per un dialogo auspicabile fra teologia cattolica e cosmologia), al filosofo brasiliano Corrêa de Oliveira (di cui sembra riprendere il concetto di ‘innocenza primordiale’), ad un’opera tutt’ora scomoda – ed emblematica per la sua generazione – come I dannati della terra di Frantz Fanon (reinterpretando la quale, il Terzo Mondo potrebbe ancora divenire focolaio del riscatto politico e, più importante ancora, spirituale del genere umano), al romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevskij (le riflessioni di Ivan sullo scandalo della presenza del Male) fino a citare puntualmente il beato Pier Giorgio Frassati («Dovete vivere, mai vivacchiare»)… Tuttavia, Wenders non rinuncia alla sua poetica: si potrebbe dire che attraverso Un uomo di Parola il regista tedesco concluda un discorso iniziato ventisette anni prima con Fino alla fine del mondo, una delle sue opere più lampanti sul piano ideologico e, forse proprio per questo, all’epoca, aspramente criticata e fraintesa: storia di una coppia che, presagendo l’Apocalisse, compiva un lungo viaggio attraverso il globo terrestre ‘catturandone’ le immagini più belle da riversare poi in un marchingegno avveniristico che, in teoria, dovrebbe restituire la vista ad un’anziana donna cieca (metafora di un’umanità malmessa, resa incapace di ‘vedere’ in senso profondo?).

Quel viaggio di ‘salvataggio e custodia’ della Bellezza è ancora faticosamente in atto, sembra suggerirci Wenders dietro le confessioni di Papa Francesco e così pure dietro la rievocazione dello spettacolo “Fiat Lux” che, l’8 dicembre 2015, ritinteggiò letteralmente la facciata di San Pietro con le variopinte forme del Creato. Ma, nel mondo d’oggi, sono in atto purtroppo anche le parole del Levitico (Cap. 26, vv. 29-31) e la visione del documentario ce ne offre squarci ripugnanti:

“Mangerete la carne dei vostri figli e la carne delle vostre figlie. Distruggerò i vostri alti luoghi e annienterò le vostre stele solari; porrò i vostri cadaveri sopra i cadaveri dei vostri idoli e vi prenderò in disgusto. Renderò le vostre città una rovina e devasterò i vostri luoghi sacri e non aspirerò più l’odore dei vostri profumi.”

Il pio augurio che il Santo Padre – e Wenders con lui – ci lasciano è che tale viaggio si compia il prima possibile poiché oramai, a dispetto del sottotitolo del film, solo l’Immagine (contemplando la quale si sfiora il mistero dell’Infinito) potrebbe purificarci, non la Parola. Difatti, sotto la buccia lieta che avvolge l’operazione, il problematico messaggio che lo spettatore credente intuisce, uscito dalla sala, è che nel mondo moderno il Rappresentante di Dio in Terra può essere “uomo di parola” solo nel senso comune della definizione cioè “uomo della prudenza”, “uomo la cui parola è degna di fiducia” e non della Parola come Manifestazione della Chiarezza, della Determinatezza e, dunque, di Dio. Ciò è provato dalla triste sequenza in cui Papa Francesco, davanti alle famiglie delle vittime del maremoto in Indonesia, non riesce a pronunciare una parola di incoraggiamento né a giustificare, alla luce della logica divina, il senso ultimo del catastrofico accaduto. Egli è, quindi, un “uomo di parola” tragicamente segnato dacché, temendo una possibile fiacchezza nell’uso o addirittura una contraffazione per mano del ben radicato regno di Mammona, non si arrischia a darla e, forse, non ne ha neppure il potere sebbene, come capo della Chiesa, ne sia di fatto investito. In quel suo silenzio sembrano farsi carne i versi di Montale, che scendono come un pesante sipario sulla civiltà occidentale: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo”.

Il protagonista (Harry Dean Stanton) del recente e toccante Lucky di John Carroll Lynch confessa ai compagni ed amici della tavola calda: “Ogni cosa scomparirà, tutto sarà oscurità e vuoto… E cosa ci possiamo fare? Sorridere!”. Insieme alle labbra sorridono anche i suoi occhi: è lo stesso sorriso che, quasi enigmatico, solca il volto del Santo Padre nell’epilogo del documentario di Wim Wenders. E il pubblico non sa se accettare tutto questo, gioendo assieme a lui.

Segni sul grande schermo… ma segni di che cosa? – di Giordano Giannini

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