APPUNTI INTRODUTTIVI (UN PO’ STANCHI)
“We got a new player in town”, avrebbero detto nel Far West: si chiama ‘Covid-19’. Il recinto domestico, da spaziale è mutato in una realtà “mentale”, come un acufene: inesistente eppure sanguignamente artigliato all’organismo. Non confortano le voci del passato. Verso la fine del suo studio Il sistema tecnico, il sociologo Jacques Ellul, rifacendosi a Charles Sheldon, dice: «[…] dopo un’epoca di dilapidazione e di spreco di mezzi tecnici, si entrerà in un’epoca di conservazione e di riordino. I problemi attualmente provocati dalle tecniche sono di una dimensione tale che, in realtà, si assisterà ad una ‘pausa’ dell’umanità, che si vedrà obbligata a consacrare tutte le forze a compensare problemi e nocività. Le tecniche attuali non saranno quindi più sviluppate nella direzione in cui lo sono oggi, ma verranno applicate a ‘misure eroiche’ che implicheranno un certo arresto del progresso tecnico». Ciò fu scritto tra l’aprile del ’68 e l’agosto del ‘77. Pietà e arte del governo potranno andare di pari passo? Mai, è acclarato, come in questo primo ventennio del Duemila vi è stata una propensione ad immaginare, su spalti diversi, di ricondurre le funzioni politiche a criteri “universali” (1); a concordare sull’esistenza di stringenti criteri etici che forniscano a tutte le genti, e a chi le guida, basi per instaurare un clima di concordia reale. Domina, in breve, l’impressione che vi siano finalmente tutte le condizioni affinché la nostra epoca, come recita il titolo di un celebre libro di Fukuyama, sia l’epoca della “fine della storia” ovvero della cessazione dei contrasti, di ricerche di nuovi modelli di convivenza fra esseri umani, rivelatesi, più o meno tutte, nel tempo fallimentari. Che non sia proprio il blocco totale, consequenziale alla pandemia, tutt’ora vigente, la “pausa” pronosticata da Ellul?
Non sapremo mai da quale “cucina” sia uscito il ‘Covid-19’, ma è certo che il ricordo di questa sleale creaturina ci costringerà, forse non dall’oggi al domani ma con graduale regolarità, a riscoprire la necessità dello sforzo riflessivo, la cognizione del “limite”, nell’esercizio del pubblico potere come in ogni altra attività sociale. Pur con macroscopiche differenze, la ‘peste nera’ del 1348, diffusasi ampiamente in tutta l’area dell’Europa occidentale, lasciò dietro di sé, non scordiamolo, “un gravoso fardello di orrori e di lutti che si impressero per sempre nella mente dei sopravvissuti, al punto che unanimemente gli studiosi di arte, letteratura e storia della mentalità, riconoscono che quell’epidemia segnò lo spartiacque nel modo di sentire e di rappresentare” (2). Nessuno si augura, ovviamente, che tutto sfumi in un bigio panorama dove esagitati predicatori affollino le strade, gridando più e più volte «Ricordati che devi morire» – e noi, come Troisi buonanima, a rispondere «sì, sì, mo’ me lo segno». Tuttavia, non posso fare a meno di chiedermi se il suaccennato “criterio universale”, il “gendarme planetario” che ponga fine ad ogni attrito debba essere cercato non in un nuovo modello politico bensì, essenzialmente, nel “monito dell’incertezza dell’ora della Morte e dell’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte ad essa” (Ariès, 1992).
La saggezza de ‘A livella come ultima, attuabile forma di disciplina? Molte pellicole, uscite in sala nell’intervallo Ottobre ‘19 – Marzo ’20, hanno vibrato di questo dubbio, recando, con le debite differenze di genere, i segni del mutamento culturale in atto, oltre che del consueto, ormai raffinato, gusto post-moderno – Franco Marineo, nelle sue ricerche, lo spiegò già bene (3). Demoni tentacolati, rancorosi clowns, irriconoscenze filiali, domestiche meschinità: il mio scritto, diviso in due parti (il n. di “SPECIALinguaggi” di dicembre ospiterà la seconda), offrirà alcuni esempi; non scarto l’ipotesi che si trattino degli ultimi di un certo modo di vivere il cinema. Benché gravemente retrocessa dall’immaginario popolare già da decenni, la sala di proiezione è riuscita a reggere finora non certo per la qualità (altalenante) delle opere in cartellone (italiane e straniere) o per l’abilità di reinventare la propria strategia divulgativa alla luce delle fluide tendenze degli spettatori (abilità che, per via di remore generazionali, resta confinata in una ristrettissima percentuale di esercenti) bensì per una ragione del tutto “simbolica”: a dispetto del rendiconto finanziario, i singoli locali si piccano di programmare films per mero orgoglio “cavalleresco”; solo in rari casi, per “speciali” agevolazioni. La sala, in breve, continua a ricoprire un ruolo, fosse anche piccolissimo, finché sussiste come realtà “esternamente”, “tangibilmente” presente nel tessuto comunitario, sia esso paesano o metropolitano: semplicemente, poiché “c’è”, occhieggiando fra un bingo e un ortofrutta, può ancora “proporsi” come fonte di svago (sebbene a suo frequente, ahimè prevedibile, discapito). Una scelta ha, infatti, luogo se vi sono, come minimo, due opzioni: il fruitore sarà libero di restare a casa davanti al televisore (o al computer portatile), altresì uscire e vivere una serata diversa. Una sola, forse… ma che avrà “effettivamente luogo” e tale rimarrà nella sua mente, poco importa se in veste di “curioso ricordo” qualora il film non convincesse.
Su tutto ciò, che ruolo esercita l’attuale contesto? Precisando che le restrizioni sono state elaborate in funzione della produttività nazionale, Giuseppe Conte non ha potuto nascondere l’estrema difficoltà a definire quali attività siano indispensabili in sé e quali no (cfr. discorso del 21 marzo 2020). Si può davvero indicare con esattezza oggettiva ciò che è “necessario”? Al di là dell’onesta ammissione del nostro presidente del consiglio, questa delicata “classificazione” finisce, in sostanza, per ridursi ad una mera distinzione fra ciò che è o non è “possibile” fare. È possibile recarsi “fisicamente”, numerosi, in un luogo di preghiera, al cinema, al museo o in biblioteca? Per adesso, no. È possibile, invece, compiere le stesse azioni (oltre che scoprire nuovi ciarlatani e condividere futili diversivi) con l’aiuto delle apposite funzioni in Rete? Come e più di prima. Se una certa abitudine giunge alla sfera percettiva e sensoriale dell’individuo come “praticabile” in quanto “l’unica concessa”, è pacifico – specie in un quadro eccezionale e severamente gestito come quello che stiamo vivendo – che da “momentaneamente praticabile” identificarla inconsciamente come “l’unica che valga la pena praticare o necessaria in sé”, pure a emergenza conclusa, il passo sarà più breve di quanto si immagini.
Il “sistema tecnico”, sondato a fondo da Ellul e di cui siamo parte già da tempo, si conferma nel caso in esame, a dispetto della latitudine, sistema che poppa al seno di ogni crisi o, stricto sensu, sistema “di” crisi. Non è una “superstrada” lineare ma una costante “assenza di strada” superata attraverso il salto tecnologico e la riorganizzazione di ogni singolo elemento sociale (Cacciari, 11- 11-‘10). Il mercato delle telecomunicazioni, banale a dirsi, ha scorto in tale emergenza la macchina “definitiva” per il dragaggio dell’oro. Le limitazioni alle suddette forme di uso culturale (e cultuale, considerando le fedi religiose), anche quando saranno debitamente aggiornate, avranno già operato come la lontananza – o, meglio, una sua precisa strumentalizzazione – opera sulle relazioni affettive da tempo malate. Al pari di un marito, indifferente ormai da anni alle attenzioni della moglie, che si serve dell’alibi, ancorché fondato, della lontananza (e dell’affievolimento d’affetti che reca con sé) per giustificare una richiesta di separazione, così il consumatore più giovane, sperimentando la versatilità dei servizi digitali e la loro apparente “permanenza” aldilà di ogni limitazione logistica, potrebbe cogliere l’occasione per accantonare una volta per tutte qualsiasi atto che, per norma o inerzia, ha imparato ad accettare come “non essenziale”. Egli avrà, sì, provato l’esperienza (per la sua generazione, almeno) nuova dell’isolamento coatto ma pure un insospettabile “sollievo” alla cui dolcezza non riuscirà ad opporsi pur sentendone una vergogna feroce o intuendone, con la ragione, incongruenze e dannosità; la sensazione, cioè, di essersi emancipato da ogni “mediazione materiale”: dal corpo (il proprio, quelli di terzi che forniscono beni e servizi – alimentari, sessuali o di semplice vicinanza – quelli ‘inumani’ di mari, terre o animali, ciascuno rimpiazzabile con sempre più comodi simulacri), dall’appartenenza etnica (essenzialmente denotativa, non più connotativa), dalla personalità (non conta ciò che sono, figura e spirito insieme, solo la capacità di rendere la mia arte, la personale ‘téchne’, impiegabile, qualificabile; io “sono” la mia ‘téchne’), dallo Spazio o dal Tempo (notte e giorno, interno ed esterno, in mancanza di lancette o rituali che li demarchino, diventano pressoché indistinguibili).
A tale livello, l’indagine dello studioso non riguarderà più solo l’articolato passaggio dei fruitori da “passivi” a “coscienti” (si leggano i saggi di Alberto Trobia o la curatela L’immagine videoludica di Catolfi e Giordano), mentalmente ormai formati e vogliosi di “interattività”: confinati a casa, comunicando mediante il “video”, protetti da “schermi” tra i più vari, questi ultimi hanno potuto stabilire, in soli due mesi, relazioni a livello di “pura coscienza” con una praticità senza precedenti. La dimensione del «post-umano», oggetto di un’annosa speculazione filosofica, ora è verità pubblica, ora è politica (cfr. Padre Benanti, Paolo Sommaggio, Giovanni Giorgio, Fabio Polidori, Sylviane Agacinski). Senza contare che sempre maggiori pubblicazioni e corsi di teoria della comunicazione accolgono nuove, strumentali chiavi di lettura della “preistoria dell’audiovisivo”: mutoscopii, teatri ottici e affini studiati non più come antesignani della Decima Musa ma primi vagiti degli odierni smartphone, bacheche a cristalli liquidi, postazioni ‘dual-monitor’ etc… (cfr. Elio Girlanda, Francesco Casetti, Erkki Huhtamo, Maurizio Bolognini, Craig Buckley). Sarà in grado la filmografia futura di competere con un simile panorama? Lungo la Passeggiata Morin viene, intanto, a crearsi un’atmosfera di pace misteriosa: cielo e linea del mare si squagliano in un bianco lattiginoso. I miei occhi riescono ancora a vedere, le mie mani vorrebbero toccare… e il cinema che amo non cesserà, forse, di essere lo «spirito che sempre dice sì».
La Spezia, 08 aprile – 11 maggio 2020
N.B.: alcune formulazioni iniziali, pur con qualche modifica, sono riprese da un intervento del prof. Marco Tarchi. Cfr. Portinaro P., Tarchi M., Giordana E., Etica vs Politica. Esercizi di machiavellismo nell’era globale, conf., Associazione Culturale “Vicino/Lontano” (assn. with Tavolo della Pace del Comune di Udine), Chiesa di San Francesco (UD) 06-05-2012.
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CHE ENTRINO GLI SPETTRI, SI APRANO LE DANZE: ‘L’UOMO DEL LABIRINTO’, ‘UNDERWATER’, ‘FANTASY ISLAND’, ‘LA MAFIA NON È PIÙ QUELLA DI UNA VOLTA’
I mostri appaiono sempre più irresistibili, chissà poi perché. Di certo, insegnano molte cose. Nel Medioevo, e per buona parte del Rinascimento, erano ritenuti portatori di un ammonimento divino (4): ‘mostro’ deriva, infatti, da mostro cioè ‘manifesto’ e ugualmente da moneo ossia ‘ammonisco’. Nell’ultimo quadriennio tali esseri, osceni (ma, a loro modo, savi) ambasciatori, hanno letteralmente folleggiato in produzioni grandi o indipendenti (si guardino Life, The Cloverfield Paradox, La forma dell’acqua, A quiet place, The head hunter, Godzilla: King of the Monsters), comprese – a sorpresa – quelle nostrane. L’uomo del labirinto di Donato Carrisi ne cela, ad esempio, uno in sé ma starà a voi – seduti comodi sulle poltrone, ben attenti ai dettagli – dargli un nome e un volto. Come accadeva sul grande schermo, oscurato dal fumo di sigaretta, quarant’anni or sono, si ripete la storia: una mano di bimba picchietta, incauta, il finestrino di un’auto; dal buio dell’abitacolo emergono due occhi rosso fuoco; una mano sulla bocca, un grido soffocato; segue l’ovattata, spettrale armonia di un carillon e, di colpo, il silenzio. In ciò consisteva la via italiana al thriller, sovente cosparsa di elementi macabri ed occultistici. Alcuni registi, all’inizio del Duemila, cercarono, con esiti incerti (es. Voci di Franco Giraldi), di resuscitare il genere. Di recente, cinque giovani promesse si sono nuovamente, ostinatamente imbarcate nell’impresa: Massimo Coglitore con L’ascensore (3 minutes), Stefano Lodovichi con In fondo al bosco, Giordano Giulivi con Il demone di Laplace, Roberto De Feo con Il nido e, non da ultimo, Carrisi con la pellicola sunnominata, tratta dal suo omonimo romanzo.
Samantha Andretti era poco più di una ragazzina quando se ne persero le tracce. La polizia brancolava nel buio e i famigliari, pur di non lasciare niente di intentato, si affidarono in segreto a Bruno Genko (Toni Servillo), catarroso e bislacco ispettore tributario, che non ha mai detto di no ad un incarico fuori settore né ad un pacchetto di sigarette: vizio, quest’ultimo, che riscuoterà, a tempo debito, il suo tributo. Quindici anni dopo il fatto, un camionista (Stefano Rossi Giordani), ‘cannulato’ e gravemente ustionato in viso, si imbatte ai margini di un bosco in una giovane donna (Valentina Bellè), tutta rannicchiata sul terriccio, seminuda, intirizzita. Al di là dei segni del tempo, la descrizione non lascia dubbi: si tratta della Andretti. Dall’istante del ritrovamento, il ‘sentiero’ del film si biforca: sul primo versante seguiamo l’indagine non ufficiale di Genko il quale, appreso dal telegiornale il soccorso di Samantha, vede ricomparire i suoi incubi riguardo al caso; manie che finiranno per scoperchiare, al modo di Gadda, un “pasticciaccio brutto” di molestie, fisiche e spirituali, avente per sfondo la sagrestia di una piccola, cadente chiesa di provincia; sul secondo versante assistiamo all’interrogatorio al quale il dott. Green (Dustin Hoffmann: pare imbambolato ma, fidatevi, è grande), psicologo della polizia, sottopone la superstite, ancora fuori di sé dal terrore: quest’ultima racconta, infatti, di un dedalo da percorrere e che, a intervalli regolari, pareva cambiare conformazione; di un balocco a forma cubica; di strani ‘premi’ e crudeli ‘punizioni’… Cos’hanno in comune i due versanti narrativi? Chi fu, anni prima, a rapire Samantha, costruendole attorno una tale diavoleria? Per ora vi basti sapere che i cliché del giallo ‘classico’, poco alla volta, cederanno il passo alle atmosfere surreali, imprevedibili di una fiaba. Una fiaba nera, s’intende. Caso improbabile, ma se un bambino vi chiedesse quale sia la morale de L’uomo del labirinto, rispondete così: se vuoi seguire Alice nel Paese degli Orrori (anziché delle Meraviglie), metti da parte il senso. Sulla scorta del capolavoro di Carroll, Carrisi getta così nel “pentolone”: una bimbina, fortuitamente, di nome Alice; immancabili specchiere; un satanico coniglio bianco e un pertugio che dà su un mondo sadico e capriccioso, dove «le parole», direbbe il paffuto Humpty Dumpty, «significano esattamente quello che io deciderò».
“Bentornato, Lewis Carroll” si è tentati di esclamare poiché, mettendo da parte il primo capitolo della trilogia di Matrix o gli scontati Alice in Wonderland di Tim Burton e Alice attraverso lo specchio di James Bobin, sarebbero già quattro le pellicole (compreso L’uomo del labirinto), uscite fra l’ottobre del 2019 e il febbraio del 2020, che hanno scomodato i raffinati rebus dello scrittore inglese, forse per rammentare ancora una volta allo spettatore, mediante citazioni o dettagli al limite del subliminale, la definitiva “scomparsa di ogni cultura del senso” (Baudrillard, 1981).
Ad esempio, nel tetro Underwater di William Eubank non c’è posto per spiegazioni scientifiche. Norah (Kristen Stewart), eroina della storia, si sveglia di soprassalto nella sua cuccetta, in un cantiere minerario subacqueo: a stento si ricorda di sé. Tutto è sottosopra, come nella fossa del Bianconiglio: guarda caso il collega Paul (T.J. Miller) ha un leprotto di pezza per portafortuna, cita Carroll a memoria e, intanto, un “cugino pelagico” del Giabervocco, destato dal sonno millenario, incenerisce tutto ciò che può ostacolarlo, seguito da una ridda di “sgorbi” anch’essi, potremo dire, fuggiti dal bosco (marino, in tal caso) di Tulgey. L’italiano Figli inscena, invece, il “carnevale” di un infantile presente che sembra non dover aver mai fine, con le “maschere” di Alex il Drugo, Leila Organa e Beatrix Kiddo al posto di Colombina, Pantalone o Arlecchino (il tema della Festa verrà approfondito, come su accennai, in un prossimo numero): Sara (Paola Cortellesi) sta per cedere a uno spasimante, che le ha appena donato una copia, l’ennesima, di Alice ma, come la piccola protagonista, fuggirà anch’essa dal “bosco di Tulgey” prima di venirne per sempre assorbita e, come altri, tramutata in un’assurdità vivente. Rischio che corrono pure Melanie (Lucy Hale) e Gwen (Maggie Q) in Fantasy Island; l’ambiguo Roarke (Michael Peña) ha creato per loro un mondo ideale, dove tutto “sarebbe come non è”: “spingimi”, bisbiglia un bottone, “e tutti i superbi verranno torturati a morte”; “varcami”, esclama poi una porta, “e ogni sbaglio del passato verrà cancellato in un istante”.
Com’era anche prevedibile, è la nota lettura che Deleuze diede dell’opera di Carroll a fare da “filtro” a questi riferimenti (5). Partecipe com’è della logica del mezzadro (che tutto dosa, stima e, ordinando, in un certo senso “fa essere”), così beffardamente definita dal filosofo francese, Alice risulta troppo “consistente”, “corporea”, “vera” agli occhi di Humpty Dumpty: egli la rifiuta. Viene, così, ribadito il principio per cui la questione dei valori (verità compresa) si riduce ad avere o meno il potere di imporre loro un certo significato. Tale è l’essenza della post-modernità, suggerita una volta per tutte dalla filmografia a noi vicina. David Harvey, sulla scorta del critico letterario Terry Eagleton, ci facilita l’identificazione di un prodotto tipico della corrente, prendendo atto che sia (6):
“[…] giocoso, ironizzante perfino su sé stesso, quando non schizoide; che esso reagisca all’Alta Modernità autoannettendosi spudoratamente alla lingua del mercato e della funzionalità. Il suo atteggiamento nei riguardi della tradizione culturale è solo in termini di irriverente ‘pastiche’ e la sua premeditata assenza di spessore fiacca ogni solennità metafisica, complice l’estetica aggressiva dello shock e dello squallore”.
Mostri d’altro genere affollano, poi, La mafia non è più quella di una volta. Vincitrice del Premio Speciale della Giuria alla settantaseiesima Mostra del Cinema di Venezia, oscillante fra il documentario d’inchiesta e il grottesco apologo, l’opera di Franco Maresco “pedina” la fotografa Letizia Battaglia mentre si aggira, con sicurezza un po’ goffa, per le vie di Palermo. Artista impegnata, fatalmente legata alla Sicilia e ai suoi delitti, che immortalò in celebri scatti in bianco e nero, la Battaglia si sente indifferente ai toni giovanili, esuberanti del corteo che omaggia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a venticinque anni dalla loro uccisione. Il genuino ricordo dovrebbe essere silenzio, invito alla conoscenza… Il genuino ricordo ha ben poco da spartire con gli anniversari i quali, solitamente, congelano fatti e vite in ‘nature morte’ o laiche ‘reliquie’ pregate con esibizionismo, in attesa di chissà quale miracolo. Letizia solleva le spalle: sospira, s’indigna, immagina un domani migliore per il capoluogo siciliano ma il regista, la cui voce quasi ci “bracca”, sembra solo volerla sfottere… Forse che il vero coraggio (meglio parlare di ‘faccia tosta’) debba essere cercato non sugli spalti della politica bensì in uno scalcinato gruppo di cantanti, pronto a esibirsi nel quartiere San Filippo Neri? Ciò fonda, in apparenza, quest’opera. In che modo il paradosso verrà portato alle estreme conseguenze (e se l’autore del film ci creda veramente) rimane un segreto fino all’ultimo.
Buon uso di chi introduce alla visione di un film è cercare le parole giuste per valorizzarlo. Partire, invece, da quanto non avesse convinto o addirittura sia apparso deprecabile è, come minimo, bizzarro quando non controproducente. Ma è quanto sto per fare. Potrebbero non essere la veridicità dei contenuti o lo spirito militante (e non c’è nessuna ironia in questo termine) bensì il metodo di Maresco a destare dei dubbi: il commento fuori campo, il suo continuo rimarcare, o peggio, liquidare in poche battute l’ignoranza, l’incoerenza, la povertà morale e lessicale (tutte attendibili, purtroppo) degli intervistati risultano ovvi e l’involontario protagonismo dell’autore, in più di un passaggio, perfino irritante; parate civili, eventi politici, caratteri regionali e usanze (come anche la visita di Letizia Battaglia alle Catacombe dei Cappuccini), tutto è colto dalla macchina da presa esclusivamente nei suoi effetti più parossistici e degradati; certe inquadrature di espressioni facciali dementi, sorrisi sguaiati, movenze ora impacciate ora scalmanate sono, poi, prese quasi di peso, checché ne scriverà la stampa, dal torvo Mondo cane di Jacopetti & Prosperi. Non da ultimo, il disincanto del regista (a detta di molti, lucido), man mano che la visione procede, si rivela poco più di un’astuta facciata, sotto la quale si nasconde ancora una volta la fascinazione, pigra e lugubre ad un tempo, per quel sentimento che illustri penne – da Brunialti a Malaparte, fino a Roberto Vacca – definirono “fatalismo mediterraneo”; erede sbilenco e singhiozzante del mondo ellenico (7) come vorrebbero dimostrare, nel secondo tempo del film, i farneticanti riferimenti ad Omero (rispondendo “Nessuno” ai fratelli ciclopi, Polifemo avrebbe posto – sic! – la prima pietra dell’edificio dell’omertà del Sud d’Italia) e, con minore evidenza, alla “famigerata” confessione del Principe di Salina al diplomatico Chevalley (8):
“Il sonno […] è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali. […] I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria, ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla”
Per sensibilizzare i cittadini alla legalità, non dimentichiamolo, il cinema serve a ben poco (pensiamo ai tribolati lavori di Giuseppe Ferrara), men che meno operazioni del genere. Perché, allora, la visione de La mafia non è… prende come rare volte capita con le ultime opere italiane? Suonerà assurdo ma i limiti prima denunciati coincidono esattamente con i suoi pregi, come se la pellicola somigliasse ad un ospite sudicio e dalla bestemmia facile eppure attentamente ascoltato a tavola, quando non temuto, dagli altri commensali poiché quando parla dice la nuda verità, specie su laidezze che credevano sepolte per sempre. La sensazione, concedetemi il paragone, è quella di partecipare ad una sorta di “corteo medievale” siculo dove squallidi pezzi al sintetizzatore prendono il posto, senza saperlo, delle “danze di morte” (Totentanzen) che in tempi antichi sollecitavano negli ascoltatori una condotta buona e pietosa, in vista di una Fine che, sempre più lesta, cavalcava verso tutto e tutti (9): monito che, ad esempio, attraversa Ad mortem festinamus, ballata a tre voci dal ‘Llibre Vermell de Montserrat’ (1399), la celeberrima Ballade des pendus (1489) di François Villon, altrimenti il poema La nave dei folli (1494) dello strasburghese Sebastian Brant, tradotto per la prima volta in italiano da Francesco Saba Sardi.
Estinta, dunque, ogni collera il crepuscolo delle illusioni (siano esse politiche o filosofiche) viene “messo in musica” dal copione con stupefacente, festosa rassegnazione. Certo, a più riprese le strofe delle canzoni e la stessa voce narrante rammentano, quasi cercassero di “scusarsi”, il coraggio dei giudici Falcone e Borsellino, la nostra indiretta responsabilità nel loro isolamento dapprima e nell’assassinio poi… ma Franco Maresco pare interessato soprattutto a comporre, e insisto, una ballata di mostri (e di impiccati), come del resto si poteva intuire già dal 1992 quando, a fianco di Daniele Ciprì, ideò per Rai 3 il programma ‘Cinico TV’, firmando successivamente, sempre a quattro mani, la regia degli ispidi Lo zio di Brooklyn (1995), Totò che visse due volte (1998) e Il ritorno di Cagliostro (2003). Mostrare tutto, indurre senza alcun tatto alla vergogna: idea coerente e mai tradita dall’autore. Stavolta, però, le “aberrazioni” di Maresco non ammoniscono più soltanto sulla cultura mafiosa, che abbandona la gente nelle sabbie mobili dell’accidia e della sudditanza, ma, in un’accezione più ampia, sull’odierna e sempre più riconoscibile contaminazione tra ‘umano’ e ‘non-umano’, di qualunque cosa si tratti; il “caravanserraglio” meridionale che la pellicola restituisce ai nostri occhi fa paura proprio in virtù di una velata minaccia di ciò che l’Uomo nella sua interezza, aldilà di ogni tradizione o nazionalità, potrebbe diventare in un luogo e in un futuro ormai non più così remoti, una volta privato di ogni legame culturale, compreso paradossalmente il legame con la mafia stessa, un tempo partecipe – come l’irritante titolo del film suggerisce – di una sua austera, ancorché scellerata “disciplina”. Estremizzando, ma non troppo, La mafia non è… ci appare non come una semplice opera d’inchiesta, tra il serio e il faceto, piuttosto il tentativo di dare una risposta (avversa ed inamovibile, in ogni caso) all’orrore contemporaneo della dissoluzione dell’io, del ristagno di ogni cosa e dell’incombere del nulla.
NOTE:
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“[…] Se attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità”. Dal Messaggio del Santo Padre Francesco per la celebrazione della 52ª Giornata Mondiale della Pace (01-01-2019): il documento integrale è reperibile sul sito www.vatican.va; “Intendiamo cooperare con i cittadini di ogni Paese del mondo […] e promuovere la costituzione di una comunità umana dal futuro condiviso”. Dal Messaggio di fine anno del presidente cinese Xí Jìnpíng, edit. spec., ‘Il Giornale’ on-line S.r.l.: ‘Cinitalia focus’, Milano 31-12-2019. Si sondi, inoltre, il pensiero di Hans Küng, imperniato sulla definizione di un ethos universale, una globalizzazione dell’etica che risponda formalmente alla globalizzazione dei problemi. Cfr. Etica mondiale per la politica e l’economia (Queriniana, 2002); Religioni, etica mondiale, destinazione dell’uomo (insieme a Friedrich Schleiermacher; Il Melangolo, 2002).
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Cfr. “Virum aut murum”: la politica del controllo in Moine C., Chiostri tra le acque. I monasteri femminili della laguna nord di Venezia nel basso Medioevo, All’Insegna del Giglio, Borgo San Lorenzo (FI) 2013, VII, pg. 96.
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Marineo F., Complessità, immedesimazione, modularità in Id., Il cinema del terzo millennio, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2014, pgg. 118-121.
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Cfr. Izzi M., I mostri e l’immaginario, Basaia, Roma 1982; Parte I, pgg. 17, 18.
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Cfr. Sul paradosso in Deleuze G., Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2009, pgg. 72-75. Vedi pure Ma un terrorista pluriomicida deve marcire in prigione? in Barzaghi M., Parafernalia. Cronache dal trapassato futuro, Borè s.r.l.: ‘Youcanprint.it’, Tricase (LE) 2019, VII, pgg. 309-312.
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Harvey D., Introduction in Id., The condition of Post-modernity. An inquiry into the origins of cultural change, tr. it. mia, Basil Blackwell, Oxford 1989, I, pgg. 7-9. Si legga inoltre: Definizione e Dialettica del Post-Moderno in Preve C., Il tempo della ricerca (Vangelista, 1993).
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Cfr. Il pessimismo e La civiltà del fato in Tilgher A., La visione greca della vita, Ecra, Roma 2019, Parte 1, cap. III; Parte 2, cap. III.
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Cfr. Tomasi di Lampedusa G., Il gattopardo, Feltrinelli: coll. “Le comete”, Milano 2002, pg. 183.
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Cfr. I temi macabri in Ariès P., L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Mondadori, Milano 1992, Parte II, cap. III, pgg. 132-135.