L’uomo è da sempre alle prese con due grandi questioni: relazioni fra simili e il confronto con la complessità ed il diverso. Il primo tema coinvolge il principio di identificazione e di appartenenza, il secondo tema invece sviluppa la comprensione delle diversità e dell’organizzazione del mondo.
Fra le relazioni complesse che intercorrono fra gli esseri umani, la più importante, la più difficile, e perché no, la più intrigante è la comunicazione.
Questa ha origine dalla necessità o dall’istinto di trasmettere un contenuto e si serve di un mezzo, il linguaggio, ovverosia un insieme di termini e segni convenzionalmente condivisi, che si tratteggia attraverso una pluralità di registri. I registri sono le varietà di linguaggi impiegati a seconda del tipo di rapporto psicologico e sociale tra i locutori e, soprattutto, delle circostanze in cui avviene la comunicazione.
Questi elementi sono temi di grande importanza per quanti, come ad esempio studiosi, insegnanti, divulgatori, addetti al ricevimento, esperti di comunicazioni, si rivolgono frequentemente ad un uditorio. Sulla base della mia esperienza di guida turistica (un approccio squisitamente divulgativo) condivido un racconto che mi pare pertinente introdurre per una serie di riflessioni su questo tema.

Conducevo una visita alla Galleria degli Uffizi alcuni anni fa, ero all’inizio della mia carriera di guida turistica di Firenze, mostravo al mio gruppo importanti capi d’opera, cercando di illustrarne l’importanza dal punto di vista artistico, storico ed estetico.
C’è da dire che le opere esposte agli Uffizi hanno di per sé un carisma particolare, per il loro essere icone senza tempo, per la bellezza che ‘spontaneamente’ esprimono e anche per l’aura di autorevolezza e fama che il museo stesso si è guadagnato nella sua secolare storia. L’ambiente, soprattutto al secondo piano, si svela come uno scrigno di grande raffinatezza e ricercatezza in cui le opere, seppur estrapolate dal loro contesto originario sembrano incastonate con estrema naturalezza e disinvoltura. Tuttavia, in quell’occasione, notavo che fra i visitatori e le opere si frapponeva una sorta di velo invisibile, come se non vi fosse un vero processo di scambio, ma ci si trovasse davanti ad un percorso interrotto, ad un ponte crollato. Pur ricordando che la comprensione di un’opera d’arte passa attraverso una decodifica del linguaggio iconografico, iconologico e infine storico e critico, l’impressione era che in quel frangente non vi fosse un limite su questi piani, ma che vi fosse un problema di linguaggio: il registro della mia esposizione, risultava inefficace a colmare quel vuoto comunicativo, a ripristinare quel ponte.
Devo ammettere che quella sensazione generava in me un certo turbamento.
Questo breve racconto si conclude velocemente. Uno dei visitatori, peraltro quello che mi pareva il più intraprendente, mi pone una domanda molto semplice: ‘come fa un visitatore del XXI secolo a trovare interessanti le opere di uomini vissuti così tanti secoli prima?’.
Potremmo oggi riformulare la domanda in questi termini: ‘in che modo l’esperienza artistica può consonare in uno spettatore appartenente a un contesto lontano, nelle forme e nei contenuti, rispetto a quello contemporaneo al momento della concezione dell’opera?’
Una domanda secca, precisa e profonda a tal punto che nessuna guida vorrebbe sentirsela porre. L’istintiva risposta svelava, sia pur inconsapevolmente la chiave stessa del lavoro della guida turistica: ‘Il sentimento che ha mosso l’artista tanti secoli fa è identico a quello che muove l’uomo di oggi quando si impegna nella realizzazione di una sua idea. Quindi le opere d’arte, anche quelle antiche sono sempre contemporanee.’
Più sinteticamente: ‘lo scopo dell’arte è da sempre quello di commuovere l’animo dello spettatore’.

Tuttavia questo aspetto, per quanto apparentemente chiarissimo sotto un profilo intellettuale, non si manifesta sempre apertamente e chiaramente, vi è un elemento che si frappone in questa dinamica: il linguaggio, muta profondamente nel corso del tempo (e anche nello spazio), tiene conto dell’evoluzione del pensiero della società, si evolve e assume via via forme diverse. Il linguaggio attraverso cui un uomo del passato esprimeva un contenuto necessita oggi, per essere compreso, di una parafrasi, di una traduzione. Siamo davanti ad un problema di comunicazione.
Ma c’è di più. Nel mondo di oggi, dominato dalla tecnologia, dall’immagine, dall’immediatezza, dall’abbondanza mediatica che il web, il pc, e i vari strumenti digitali pongono in essere, si assiste ad un sostanziale cambio di equilibrio fra l’uomo e il mondo che lo circonda e senza dubbio la filosofia dietro al cosiddetto web 2.0 influenza in modo determinante il linguaggio e la comunicazione. I social network, youtube e altri strumenti mettono al centro dell’attenzione il soggetto rispetto all’oggetto. C’è il rischio che ogni esperienza esista solo se l’osservatore riesce ad immortalarla con la fotocamera, e che la verità di un evento passai attraverso un filtro tecnologico.
Tornando al nostro esempio, il fruitore medio di un museo mostra un comportamento quasi vorace nella ricerca dei pezzi più importanti della collezione, mettendo più impegno nel raggiungere la sala dove questi sono esposti per una veloce foto con lo smartphone, rispetto ad analizzare e cercare di comprenderne i contenuti stessi.
Una foto (o addirittura un ‘selfie‘) alla Venere di Botticelli equivale ad ‘aver visto’ la Venere di Botticelli, anche senza alcuna riflessione sui valori artistici espressi nel dipinto.
Le opere cessano di essere le protagoniste di una visita al museo, i protagonisti sono diventati i visitatori. Non è questa la sede per un ulteriore approfondimento antropologico, tuttavia il problema di comunicazione, già complesso in partenza, diventa, sulla base di questa tendenza, ancora più difficoltoso per una guida turistica.
Trasmettere il ponderoso insieme di informazioni storiche e artistiche, nel breve tempo di una visita, rendendo l’esposizione chiara e coinvolgente, divertente perfino, è una sorta di impresa, l’equilibrio fra tutti questi elementi è il sacro graal delle guide turistiche. Ed è una questione di comunicazione.

In questa chiave, per una guida, (ma anche per chi svolge una qualsiasi altra attività in cui si trasmette un contenuto ad un uditore) è sempre più necessario trasformare le ‘esposizioni’ in ‘racconti’, le ‘spiegazioni’ in ‘spunti di riflessioni’, in ‘ponti di collegamento’ fra le vicende artistiche, storiche e antropologiche e la vita quotidiana dei visitatori. La sfida che noi guide dobbiamo affrontare, è rendere ogni visita una ‘esperienza’. Il termine latino experior indica (col prefisso ex-) un movimento da un punto di origine, uno spostamento fisico, un cambio di stato ed è attraverso un sincretismo di strumenti e linguaggi che si può rendere possibile questo passaggio. In effetti il visitatore è istintivamente incuriosito tanto dai fatti che si nascondono dietro alla creazione di un’opera, quanto dai luoghi in cui fisicamente e concretamente si svolgevano le vite quotidiane degli uomini del passato, grandi artisti o grandi figure politiche. In altre parole si preferisce un approccio esperienziale, in cui si conosce attraverso i sensi, attraverso il corpo, ad un’impronta più tradizionale, scolastica, accademica, intellettuale o nozionistica. E ancora, sono di grande attrattiva quei musei e quei siti che offrono un’impostazione sinestetica (c’è molto da fare ancora, qui da noi, su questo punto), attraverso cui i visitatori possono interagire direttamente con gli strumenti, con i materiali, con le fasi della creazione di un’opera, accostando al senso visivo anche altri sensi (tatto, olfatto …). Condurre una visita diventa sempre di più una sinergia fra la conoscenza della materia e la capacità di raggiungere, per così dire, il cuore del visitatore, e in questo la guida ha bisogno di sviluppare, accanto allo studio vero e proprio una molteplicità di abilità.
Innanzitutto il controllo del linguaggio del corpo. Se da una parte si insegna a comunicare, anche nei corsi di formazione, con un’impostazione elegante e una postura correttamente neutra, ultimamente si tende a favorire l’espressività che dà invece, un corpo ‘disposto’ a parlare, reattivo agli stimoli, vivace e flessibile. Così come l’educazione della voce che deve risultare chiara, risonante, espressiva e che insieme al linguaggio del corpo costituisce uno strumento di comunicazione efficace ed immediato.
In questo senso l’esperta di linguaggi non verbali Kristine Linklater nel suo libro ‘La voce Naturale’ e il sempre fondamentale ‘Giù la maschera ‘ di Paul Ekmann offrono numerosi spunti di riflessione.
Un altro punto è il ritmo, la presenza scenica. Come da anni si nota nell’approccio dei colleghi dei paesi anglosassoni, per una esposizione accattivante occorre sviluppare una certa capacità di intrattenere. Si diventa in un certo senso attori, con un copione ma anche con la abilità di improvvisare se necessario e quindi si trasform un semplice ascoltatore in un pubblico (il pubblico è elemento centrale di una performance può spesso esserne parte integrante, applaudire o fischiare). Coinvolgere l’uditorio con il contatto visivo e con il ritmo dell’esposizione orale, risulta essere una abilità essenziale per mantenere l’attenzione di chi ascolta.
Altra arma assai sottovalutata, ma molto attuale e di grande effetto è la risata. Il professor Avner Ziv, dell’università di Tel Aviv nel suo libro ‘Perché no, l’umorismo’, pone il divertimento e la risata come veicoli di grande efficacia per l’attivazione della memoria e della comprensione astratta. Vediamo come i più autorevoli divulgatori della Tv e della rete, propongano un approccio divertente e divertito seppure scientificamente fondato, chiudendo gli interventi con una battuta o con una nota più leggera. Da notare inoltre come molti libri, ad esempio diversi titoli scritti di Philippe Daverio, con il loro piglio colto ma informale, tecnico ma accostante, godano di un globale successo diventando best seller presenti nelle librerie di lettori non sempre avvezzi al linguaggio scientifico dello storico dell’arte.
Credo tuttavia, concludendo l’intervento con una notazione di tipo personale, che l’elemento centrale e definitivo per una comunicazione efficace sia la volontà di comunicare. L’esigenza di trasmettere una propria idea, un proprio approfondimento, la propria passione è il fatto determinante per la riuscita di un processo comunicativo, ma non bisogna negare che la comunicazione è un processo circolare e continuo e quindi anche l’ascoltatore deve imparare a fare la sua parte, rilanciando informazioni a chi espone e stimolandolo con domande, curiosità e, almeno in piccola parte impegno e pazienza. Tutto è linguaggio e tutto è comunicazione, non solo nel racconto delle vicende artistiche del passato ma anche nella trasmissione delle esperienze, e il mezzo orale in questo caso è da sempre quello più espressivo e potente. Nei rapporti, siano essi personali o professionali, ciò che permette uno sviluppo ed un evoluzione è sempre lo sviluppo e l’evoluzione di un linguaggio condiviso, via via più approfondito ed espressivo.

Quindi diciamo, con una battuta, che anche la comunicazione è un’arte, poichè essa si sviluppa, si evolve e si raffina con lo studio e con l’esperienza. Comunicare l’arte, raccontarla è sempre più complesso, ma è anche sempre più necessario per trasmettere ad un pubblico che si fa giorno per giorno più globale e diversificato, una serie di contenuti e di idee che appartengono al nostro DNA culturale e che quindi meritano di essere protetti, rispettati e valorizzati per continuare ad esistere e a commuoverci.
L’arte per esistere necessita di essere amata, vissuta, studiata, capita, raccontata ed ascoltata, in una parola comunicata.

L’arte di raccontare l’arte di Marco Bello

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