Con la locuzione «linguaggio parlamentare» si intende fare riferimento al complesso del linguaggio di cui si avvale la comunicazione impiegata nel Parlamento[1]. Si tratta di una categoria costruita partendo da un’estrema varietà di fonti: i discorsi parlamentari in primis[2], le relazioni illustrative ai disegni di legge, gli atti di sindacato ispettivo e indirizzo, ma anche altri documenti scritti delle Camere, come i Regolamenti (e il linguaggio parlamentare viene annoverato, a sua volta, tra le fonti minori del diritto parlamentare[3]). Gode della considerazione di un linguaggio settoriale, come quello giuridico o giornalistico, ma non specialistico e, sotto il profilo linguistico, costituisce una sottospecie del linguaggio politico (il quale, a sua volta, fa parte della retorica, la scienza del discorso persuasivo ed esteticamente bello[4]); si caratterizza però rispetto a quest’ultimo in generale per la continuità spazio-temporale tra oratore e fruitore, che ne influenza la dinamica e ne indirizza i contenuti (in particolare tramite le interruzioni, quando provocano battibecchi)[5]. Poiché ai fini della sua trasposizione nel resoconto viene sottoposto al cosiddetto filtro stenografico – più o meno incisivo a seconda del periodo storico – non è semplice tracciarne una panoramica generale, anche se alcune sue peculiarità emergono comunque evidenti.
Il linguaggio parlamentare[6] assume innanzi tutto sfumature diverse a seconda del prodotto della comunicazione istituzionale che lo trascrive o lo impiega. Com’è noto, nell’ambito dei resoconti parlamentari, il resoconto sommario – che attualmente in Senato viene utilizzato soltanto presso le Commissioni – riassume i contenuti del dibattito e le parti procedurali in terza persona. Nel far questo, normalmente si avvale di sinonimi (e a volte di verbi d’appoggio), a meno che non sia imprescindibile puntellare il compendio con alcuni dei termini più coloriti sfruttati dall’oratore, al fine di non svilire i concetti principali.
Lo stenografico, invece – che attualmente in Senato viene redatto sempre in Assemblea e solamente in alcune sedi di lavoro delle Commissioni permanenti e speciali – com’è noto, riporta parola per parola tutto quanto viene detto e fatto (dicta e facta). Presenta conseguentemente alcune differenze, a seconda della sede in cui viene redatto. Lo stenografico di Assemblea è improntato alla fedeltà letterale e ad un rigoroso rispetto del gusto e delle caratteristiche del singolo oratore, in misura assai maggiore di quanto accadesse in passato e soprattutto se paragonato al lavoro di Commissione[7]. Poiché infatti è necessaria una rapidissima pubblicazione dello stenografico, lo dev’essere anche la sua produzione: le bozze non corrette vengono pubblicate on line in corso di seduta con uno sfasamento temporale di circa 30-40 minuti (tempistica che pone il Senato ai vertici delle classifiche mondiali). La sede, per la sua rilevanza, è sottoposta ad un altissimo livello di attenzione da parte dei media ed è oggetto di registrazioni audio e video[8]. Con l’obiettivo della massima corrispondenza tra discorso orale e testo scritto, anche gli oratori hanno la facoltà di effettuare correzioni esclusivamente di natura formale (per trasparenza, nella versione definitiva del resoconto ne viene data notizia tramite l’apposizione di un asterisco accanto al loro nome).
In passato vi era una marcata differenziazione fra le formule impiegate nei Regolamenti e nei documenti scritti delle Camere, da una parte, e le forme usate nel parlato e quelle riportate nei resoconti, dall’altra, in quanto gli interventi svolti oralmente in Assemblea normalmente partivano dalla base di una traccia scritta, tratto che collocava gli interventi dei parlamentari in un registro intermedio fra lo scritto e il parlato del linguaggio parlamentare tout court. Recentemente però il parlato-scritto parlamentare è inesorabilmente scivolato verso il parlato, adeguandosi progressivamente alla lingua comune, in conseguenza dell’inarrestabile diffusione della prassi di superare l’utilizzo di schemi, appunti, minute o testi compiuti come base per l’intervento orale, messa in atto anche da parte di figure apicali di Governo nella XVII legislatura[9]. Tale innovazione persegue lo scopo di dare all’eloquio immediatezza e freschezza (anche tramite la maggiore gestualità resa possibile dall’avere le mani libere), con l’obiettivo di guadagnare audience: il dibattito parlamentare in tal modo assume sempre più la connotazione di evento mediatico[10].
Il periodo storico, l’argomento trattato e la fase dell’esame di una materia hanno pure una loro incidenza nel connotare il dibattito: in fase di esame degli emendamenti o degli ordini del giorno, infatti, prevale la funzione giuridica del linguaggio adoperato e la discussione generale di un disegno di legge solitamente non è vivace come quella sulla fiducia al Governo.
Quanto alla lingua da utilizzare nei discorsi parlamentari, i Regolamenti delle Camere, se da un lato prescrivono di adoperare un linguaggio non sconveniente e di affrontare argomenti aderenti all’oggetto in discussione, dall’altro non dispongono esplicitamente l’uso dell’italiano, che viene però dato per scontato (in favore sia della pubblicità dei lavori parlamentari, realizzata tramite la resocontazione, sia della comprensibilità da parte dei destinatari). Di prassi, infatti, è sempre stata tolta la parola ai parlamentari che hanno tentato di esprimersi in vernacolo (ed è stata rifiutata la pubblicazione in allegato degli interventi scritti con la stessa modalità, anche non effettivamente pronunciati) né è stata data la facoltà ai parlamentari eletti all’estero di intervenire in altri idiomi (eccezion fatta per il latino)[11].
Sempre nell’ambito dell’Assemblea, vi sono interessanti differenze nel linguaggio utilizzato dallo stenografico e da un altro prodotto di punta, che ugualmente viene pubblicato in tempo reale durante la seduta e aggiornato al termine di ogni intervento o fase procedurale: il comunicato di seduta. Rispetto ad un sommario, rappresenta un più stringato riassunto dei lavori, poiché ne condensa il contenuto in modo asciutto ed efficace, senza seguirne l’ordine cronologico, con uno stile non aulico e un taglio «giornalistico» (come dimostra il fatto che la stampa se ne avvale quotidianamente per informarne i lettori sul «succo» dei lavori)[12].
Nelle Commissioni permanenti invece il linguaggio è più colloquiale, anche in conseguenza del clima che si instaura in una sede di lavoro più ristretta e informale, il cui dibattito è meno contingentato. Allo stesso tempo, in particolare in occasione delle audizioni di rappresentanti di enti esterni, l’argomento può essere però molto più tecnico (dal ciborio di una chiesa paleocristiana ai livelli essenziali di assistenza sanitaria): per questo motivo si suole definire il resocontista parlamentare come un «tuttologo», che deve sapersi districare qualunque sia la materia trattata[13]. Nel resoconto stenografico di Commissione gli interventi degli oratori – caratterizzati da una certa tipicità, poiché ogni membro ha i propri cavalli di battaglia – subiscono, ove necessario, una più incisiva rielaborazione[14]. Sono svolti perlopiù a braccio, quindi l’eloquio è meno controllato, risultando più sciolto e soggetto ai tipici difetti dell’improvvisazione (reiterate correzioni; ripetizioni; concordanza a senso e mancata consecutio temporum; anacoluti; periodi lunghissimi, che vanno spezzati per non rendere troppo difficoltosa la lettura, e ricchi di incisi che rischiano di far perdere il filo del discorso; sospensioni più o meno intenzionali e conseguenti frasi non concluse)[15].
Sotto il profilo della sua evoluzione storica, il linguaggio parlamentare è passato da una distanza siderale rispetto alla lingua comune – come nella prima legislatura repubblicana, in cui le aule parlamentari costituivano una sorta di isola linguistica rispetto all’abitudine linguistica della popolazione media, che comunicava quasi esclusivamente tramite i dialetti – ad un progressivo avvicinamento ad essa, complice la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e la volontà di avvicinarsi agli elettori. Complice il sempre più frequente ascolto di radio e televisione, infatti, a partire dal periodo del boom economico, si sono verificati un graduale livellamento ed una standardizzazione linguistica, con una conseguente significativa riduzione della forbice tra il linguaggio forbito e paludato adoperato nelle Camere e quello in uso al di fuori di esse. I resoconti parlamentari sono sempre riusciti a stare al passo con la rapida evoluzione della lingua comune, fino al formarsi del cosiddetto «e-italiano»[16] dei giorni nostri, emerso a seguito della diffusione di una comunicazione sempre più mediata da Internet, poiché hanno saputo trovare costantemente un giusto equilibrio tra rispetto del carattere istituzionale e fedeltà al discorso parlato.
A causa della capillare diffusione dei social network, infatti, il linguaggio corrente ha subito un impoverimento e le competenze linguistiche un indebolimento, con conseguenti riflessi sul linguaggio parlamentare[17]: e così, nelle fonti citate dagli oratori nei loro interventi, i brocardi latini o i passi danteschi (frequentemente rinvenibili ad esempio negli atti dell’Assemblea Costituente[18]) sono stati rimpiazzati da slogan, hashtag e luoghi comuni linguistici. La maggiore diffusione di dati e informazioni consentite dai social media trapela anche dal continuo formarsi di neologismi, che hanno arricchito il nostro eloquio quotidiano di termini stranieri (spesso usati in modo decontestualizzato solo per questioni di moda e pronunciati in maniera «maccheronica»)[19]. Anche i colloquialismi, con il preciso scopo di dare colore ad un intervento, hanno via via conquistato maggiore spazio nell’ambito dei resoconti parlamentari, soprattutto nei casi in cui gli oratori perseguono l’evidente scopo di creare una più stretta connessione con i cittadini, ai quale intendono rivolgersi direttamente. I rappresentanti di movimenti politici locali dalla vocazione autonomistica, invece, fanno spesso uso di dialettalismi che ugualmente devono trovare spazio nei resoconti stenografici, perché una volta italianizzati perderebbero tutta la loro efficacia (e che talvolta, proprio per questo motivo, in passato hanno trovato posto anche nel resoconto sommario)[20].
Alcuni oratori, nel corso della XVII legislatura, hanno cambiato destinatario dei loro interventi, tramite l’escamotage di rivolgersi al pubblico esterno sin dall’incipit, anziché alla Presidenza, contravvenendo alle prescrizioni dei Regolamenti e contribuendo così al progressivo deterioramento dei dibattiti assembleari in eventi mediatici. Ancora, nel rivolgersi ai colleghi, il pronome allocutivo di terza persona «lei» è stato spazzato via da quello di seconda («tu»), sia nel parlato, sia successivamente nel resoconto[21]. Discorso diverso vale per il turpiloquio: negli ultimi decenni effettivamente un linguaggio meno conveniente alle Aule parlamentari vi ha fatto ingresso (nelle sue varie sfumature, dalla disfemia all’ingiuria), specialmente nei momenti di tumulto e nella forma di commento fuori microfono (al punto da far guadagnare a volte ai suoi utilizzatori richiami da parte del Presidente, la sottrazione della parola e perfino l’espulsione dall’Aula o la sospensione della seduta, affinché non si debba lasciare traccia di certi fatti in fisionomia)[22]. Normalmente in un documento ufficiale non dovrebbe trovare posto la trascrizione di un turpiloquio, che in tempi meno recenti infatti si tendeva ad epurare per una questione di convenienza (anche quando l’episodio era distintamente udibile nelle registrazioni, a meno che non fosse stato reiterato nel corso dei lavori o non avesse dato luogo a successive azioni legali); al giorno d’oggi, però, spesso viene impiegato dagli oratori come elemento incisivo, allo scopo di catturare l’attenzione ed il consenso del popolo, dunque si tratta ancora una volta di trovare il giusto equilibrio tra resa realistica degli eventi e rispetto del decoro istituzionale[23].
Anche le forme della comunicazione politica hanno subito l’influenza dell’espansione dei mass media e dunque, se in precedenza si differenziavano in comizi, sedi di partito o aule parlamentari, si sono successivamente uniformate. Come conseguenza, il linguaggio parlamentare, per sua natura volto sia ad argomentare, sia a convincere, sembra oggi non più mirare alla creazione del consenso fra i presenti, ma a mantenere i toni propagandistici tipici di una campagna elettorale permanente. Questo fenomeno non è che l’evoluzione e la maturazione di un elemento sempre presente nella dialettica parlamentare, nella quale, fin da quando è stata assicurata la pubblicità dei lavori delle assemblee plenarie, l’obiettivo dell’oratore è spesso stato l’ottenimento dell’attenzione più dei mass media – efficacissima cassa di risonanza – e quindi degli elettori, che degli interlocutori istituzionali[24]. Nel linguaggio parlamentare attuale, in ultima analisi, convivono elementi tradizionali, come un registro linguistico formale e un linguaggio tecnico appropriato, e innovativi, come la ricerca di una teatralità che buchi lo schermo televisivo e guadagni popolarità immediata tramite un tweet o sui titoli della stampa.
Parallela all’evoluzione del linguaggio parlamentare, ha viaggiato nel tempo la ricerca nei resoconti parlamentari di un punto di equilibrio nella resa della differenza tra parlato e scritto che riducesse progressivamente la distanza tra i due. Una cosa, infatti, è il discorso pronunciato da un oratore infervorato, con una determinata intonazione e corredato da una certa gestualità tipicamente italica; altra sono le parole stampate sulla carta, in un documento ufficiale, che deve attenersi a regole precise, come un uso misurato della punteggiatura (che non contempla ad esempio punti esclamativi). Per arrivare all’elaborazione del prodotto finale, i resocontisti devono effettuare un’opera di sfrondatura e perfezionamento dell’eloquio e della sintassi effettivamente impiegati, sistemando in particolare contraddizioni evidenti, litoti errate, ridondanze, inesattezze dei riferimenti storici, geografici, giuridici, normativi o di citazioni in lingue straniere[25]. Nei tempi più recenti, questo filtro stenografico è però divenuto sempre meno incisivo rispetto al passato, anche in ragione del confronto con le registrazioni audio-video cui il testo scritto può essere sottoposto[26]. Proprio la soluzione che di volta in volta il resocontista rinviene per fissare in maniera equilibrata la dinamicità di un discorso orale in un documento ufficiale, anche nei casi di eloquio più oscuro e nebuloso, esprime il valore della delicata e meditata opera che quotidianamente è chiamato a svolgere: far esprimere in modo chiaro e corretto l’emittente, senza tradirne il pensiero.
I criteri generali cui attenersi nel far ciò stanno innanzi tutto nel rispetto delle caratteristiche personali di ogni oratore, senza cedere alla tentazione di uniformarne l’eloquio al proprio gusto linguistico (altrimenti si slitterebbe verso quell’effetto distorsivo per cui un oratore viene reso in tanti modi diversi, per quanti diversi resocontisti e successivi revisori ne hanno editato l’intervento)[27]. Come linea guida internazionale, è sempre valida la definizione classica dell’Hansard elaborata da Sir Erskine May: «benché non rigorosamente alla lettera, il resoconto sia sostanzialmente alla lettera, con l’omissione di duplicazioni e la correzione degli errori evidenti e non ometta e aggiunga alcunché al significato del discorso, né illustri l’argomento[28]»; nel trascrivere il parlato, però, allo stesso tempo – secondo le note raccomandazioni dell’illustre linguista Tullio De Mauro – bisogna evitare di ucciderne la vivacità[29]. Tale punto di equilibrio che il resocontista deve rinvenire rischia di far apparire il resoconto ad occhi esterni come monotono, impersonale e decisamente perdente a confronto con la vivacità della stampa, anche perché il linguaggio che vi si adopera si colloca agli antipodi rispetto a quello imperversante sui social media (privo di sintassi e punteggiatura, ma infarcito di illeggibili abbreviazioni, icone e smiles per supplire alle parti volutamente sottintese). Del resto, è anche la funzione del testo che ne determina la forma.
Lo stenografico, oltre a riportare gli interventi parola per parola, deve anche rendere ragione di tutti i fatti e gli eventi che accadono nella seduta plenaria, a maggior ragione di quelli che – pur non riguardando strettamente l’attività legislativa – spesso provocano clamore sulla stampa (ossia momenti di bagarre, con relativi richiami della Presidenza; esibizione di striscioni o simboli di protesta; abbandono dell’Emiciclo da parte di un Gruppo; applausi, anche eventualmente ironici)[30]. Tali informazioni sui facta, che hanno lo scopo di agevolare la comprensione dell’andamento dei lavori da parte del lettore, sono affidate alla cosiddetta fisionomia, che le riporta nella maniera più neutrale ed asettica possibile (tra parentesi, in corsivo ed in terza persona)[31].
Last but not least, nell’ambito del linguaggio parlamentare, merita infine una menzione l’annosa querelle relativa all’impiego del linguaggio di genere, attinente anche alla prassi del rispetto della summenzionata pari dignità dell’interlocutore. Già più di quaranta anni fa, nel 1987, Alma Sabatini prese posizione in merito con le sue «Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua» e in tempi più recenti l’ex presidente della Camera Laura Boldrini – in una lettera inviata all’Huffington Post il 5 marzo 2015, resa nota durante l’incontro «Non Siamo Così. Donne, parole, immagini» da ella stessa promosso – ha invitato al rispetto dell’identità di genere, declinando al femminile gli incarichi amministrativi e politici come «ministra» o «sindaca», sia nel linguaggio parlamentare, sia nei resoconti parlamentari, secondo le raccomandazioni dell’Accademia della Crusca e della Guida alla redazione degli atti amministrativi dell’Istituto di teoria e tecnica dell’informazione giuridica del CNR. Suffragata dalla professoressa Cecilia Robustelli, docente di Linguistica italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia, la Presidente ha smontato la critica secondo cui la «ministra» suoni cacofonico, al contrario dell’ormai consueto «maestra», solo perché riferito ad un ruolo di vertice tradizionalmente declinato al maschile. Di diverso avviso la Presidente del Senato della XVIII legislatura, che all’inizio del proprio mandato ha tenuto a precisare di voler ripristinare la prassi tradizionale. Ecco dunque l’origine della differenza dei resoconti parlamentari tra XVII e XVIII legislatura: nei primi abbiamo avuto la presidente Boldrini; nei secondi, avremo il presidente Alberti Casellati.
[1] Come dimostra la stessa etimologia del termine «parlamentare», che deriva dal francese «parlement», che a sua volta deriverebbe da «parabolare» (confrontare due concetti), è proprio «il parlare in forma di dibattito in una riunione con altre persone» l’attività principale che in un Parlamento si svolge ed è la parola finalizzata al raggiungimento di decisioni politiche che si colloca al centro dei lavori di tale consesso (V. E. Orlando, «Il parlare in Parlamento», in Il Ponte, 1951, nn. 1 e 2).
[2] Il discorso parlamentare è un «testo parlato monologico, non spontaneo (più o meno fortemente pianificato), su un tema fissato in precedenza, in cui vi è continuità spazio-temporale fra emittente e destinatario, in condizioni di parità» (P. Villani, «Il discorso parlamentare: usi, regole e resoconti», in Aa. Vv., «Il linguaggio della leadership politica tra la Prima e la Seconda Repubblica», a cura di L. Giuliano e P. Villani, Ed. Camera dei deputati, Roma 2015).
[3] V. Di Ciolo, «Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica», Milano 1980.
[4] Intorno alla metà del secolo scorso, il linguaggio parlamentare ha iniziato ad essere mal considerato, alla stregua dell’oratoria forense, in quanto pletorico e artificioso, a volte povero a livello di contenuto, ma anche complesso. Già nel gergo romano degli anni Venti, ad esempio, i deputati venivano apostrofati come «chiacchieroni», con un serpeggiante disprezzo per l’oratoria parlamentare che cominciava a crescere di pari passo con un sentimento di antipolitica e di antiparlamentarismo (G. Andreotti, «Onorevole stia zitto», Milano 1987). Tale discredito della fama del linguaggio parlamentare si è andato legando ad una crescente diffidenza popolare, come dimostra un’icastica definizione dispregiativa del linguaggio parlamentare coniata dal professor Carmelo Ciccia, che è possibile rinvenire su Internet: «un misto di giurisprudenziale, burocratico, retorico, enfatico ed astruso che ne fanno un capolavoro di bizantinismo». A proposito della difficoltà del linguaggio parlamentare, invece, vale la pena ricordare la significativa scelta di Leonardo Sciascia, che «eletto nel 1979 per una sola legislatura alla Camera dai radicali si rifiutò quasi sempre di parlare in aula esibendo una scusa paradossale: “Sono uno scrittore, non un parlatore”» (A. Loiero, «Lorsignori di ieri e di oggi», Rubbettino, 2016).
[5] L. Ciaurro, «Il linguaggio parlamentare: dai resoconti alla diretta on line», in Aa. Vv. «Le parole giuste: scrittura tecnica e cultura linguistica per il buon funzionamento della pubblica amministrazione e della giustizia», Atti del convegno di presentazione del progetto di ricerca e formazione, Palazzo Madama, Sala Koch, 14 aprile 2016.
[6] Dal linguaggio parlamentare, in premessa, va distinto il «linguaggio in Parlamento», definizione con la quale si raggruppano le modalità con cui nei Palazzi vengono espresse correntemente da parte dei loro frequentatori le attività non formali ed extra funzionali (I. Capua, «L’abbecedario di Montecitorio. La Camera dei Deputati in un surreale dizionario dalla A alla Z», Edibus, Padova 2015).
[7] Tempo addietro vi erano due scuole di pensiero: una privilegiava la perfezione dei resoconti parlamentari sotto il profilo letterario, in quanto atti ufficiali; l’altra la massima fedeltà al parlato, in quanto documenti storici.
[8] Secondo M. Martinelli (in «Il resoconto parlamentare nell’era dei social forum», intervento al Convegno «Suoni, segni, parole: Antonio Michela e l’officina del linguaggio 1815-2015», Roma 5 novembre 2015), al momento attuale è proprio il resoconto stenografico in corso di seduta lo strumento che assicura l’effettivo carattere pubblico del dibattito parlamentare, in misura maggiore della trasmissione integrale televisiva delle sedute. Il resoconto e la registrazione infatti, nella loro valenza documentale, sono due strumenti collegati e affiancabili, ma non sovrapponibili.
[9] I. Chiari, «Il lessico di base del discorso parlamentare nel continuum dell’italiano», in Aa. Vv., «Il linguaggio della leadership politica tra la Prima e la Seconda Repubblica: problemi di metodo e linee di ricerca», cit.
[10] La diffusione sul web di un sempre maggior numero di frammenti di discorsi parlamentari – in forma di testo scritto o di registrazione audio e video – e, parallelamente, la trasmissione diretta televisiva hanno avuto un influsso decisivo sull’evoluzione del linguaggio parlamentare. D’altro canto, anche il crescente fenomeno delle videoriprese effettuate dai parlamentari stessi mediante dispositivi mobili durante i lavori delle Camere, che poi vengono diffuse sul web, è una prassi che non può non avere effetti distorsivi su di esso. Il linguaggio parlamentare infatti ha via via accentuato la propria televisività con un ritmo inarrestabile, che ha finito per incidere a sua volta su intonazione, accento, ritmo e gestualità degli interventi (aspetti accorpabili sotto l’etichetta linguistica di prosodia). Nonostante non sia possibile effettuare paragoni dettagliati con il passato remoto, non coperto da registrazioni audio-video, si possono rinvenire interessanti seppur sintetiche descrizioni nei resoconti stenografici dei primordi, che trovarono il modo di lasciare memoria del tono di voce dell’oratore, quando appariva particolarmente sopra le righe, menzionandolo nella fisionomia, a volte anche nell’incipit dell’intervento, a guisa di una moderna sottotitolatura per non udenti.
[11] Diversi articoli dei Regolamenti parlamentari riguardano invece le modalità in cui si deve prendere la parola, ossia stando in piedi, rivolgendosi al Presidente e con stile. Oltre ad essere corretto nella forma linguistica, dunque, il linguaggio parlamentare dovrebbe esserlo in quella del comportamento, che ci si aspetta sia cortese, equilibrato e permeato dal rispetto della solennità dell’ambiente e della eguale dignità degli interlocutori (mentre il linguaggio assertivo ultimamente ha assunto toni sempre più aggressivi). Per avere un’idea concreta del profondo mutamento subito dalla prassi oratoria parlamentare, basti pensare alle prescrizioni formulate in epoca statutaria da M. Mancini e U. Galeotti, in «Norme ed usi del Parlamento italiano: trattato pratico di diritto e procedura parlamentare», Camera dei deputati, Roma 1887, ai nostri tempi per nulla rispettate: non interrompere gli altri oratori; non leggere estratti da giornali; non richiamare i contenuti di discorsi di oratori da confutare; non riferirsi ad atti extraparlamentari di deputati; non citare la dottrina; non censurare deliberazioni precedenti della Camera. Sono queste le caratteristiche di quel parlare «parlamentariamente» che Matteotti chiede gli venga lasciato fare nella seduta della Camera del 30 maggio 1924, lamentando le limitazioni subite dalla sua libertà di parola a causa delle continue interruzioni e minacce dei colleghi.
[12] Nella sua versione originaria, quando ancora veniva ancora redatto anche il resoconto sommario dei lavori dell’Assemblea del Senato, il «comunicato di fine seduta» si limitava ad elencare i passaggi procedurali più rilevanti e veniva pubblicato alla conclusione dei lavori. Frutto di una minuziosa attività di studio preparatorio dei provvedimenti all’ordine del giorno, al momento attuale seleziona le informazioni con ampi margini di discrezionalità: veicola per prima l’informazione sull’esito delle votazioni, che viene sottolineata graficamente grazie all’uso del grassetto; cristallizza il punto in cui si trova l’iter dei disegni di legge in esame; illustra le modifiche apportate dalla Commissione di merito in sede referente e il contenuto politico degli emendamenti approvati, rivelandosi prezioso per chiarire anche ai non addetti ai lavori il testo trasmesso da un ramo del Parlamento all’altro; esplicita le posizioni espresse dai diversi gruppi politici in fase di discussione generale o di dichiarazione di voto, con un occhio di riguardo per le opposizioni (le cui argomentazioni sono spesso sacrificate sulla stampa, a vantaggio di quelle del Governo o delle esternazioni di vari esponenti politici uti singuli sui social media). Nell’epoca attuale, in cui si comunicano informazioni clamorose ma effimere, tramite spot parziali e senza filtri, appiattendo la gerarchia di priorità dei contenuti, il comunicato valorizza il lavoro parlamentare e il valore informativo e probatorio della comunicazione istituzionale.
[13] A tal fine, in passato nell’Ufficio dei Resoconti del Senato è stata sperimentata una specializzazione settoriale, per consentire ai resocontisti di padroneggiare meglio i vari linguaggi specifici in uso presso le Commissioni permanenti o di coltivare una maggiore consuetudine con le complesse procedure parlamentari dell’Assemblea. Oggi tale prassi è decaduta ed essi vengono impiegati indifferentemente in entrambe le sedi, a vantaggio di una maggiore fluidità dell’organizzazione del lavoro e di una più profonda condivisione delle competenze.
[14] Del resto, il resoconto stenografico di Commissione consente una riflessione maggiormente ponderata sul testo anche in ragione della diversa organizzazione del lavoro ivi vigente, che consente agli stenotipisti di presenziare a tutto l’andamento del dibattito. Non viene effettuata la pubblicazione on line delle bozze non corrette in corso di seduta, perché non è obbligatoria la resocontazione immediata, dunque vi è più tempo a disposizione per la redazione dello stenografico.
[15] Il resoconto stenografico delle Commissioni d’inchiesta costituisce un caso a sé, in quanto si tratta di sedi più delicate, che dispongono di poteri inquirenti. Quando viene deliberata la secretazione di tutta o di parte della seduta, l’unica forma di pubblicità è rappresentata proprio dal resoconto stenografico (poiché il sommario, per ragioni di riservatezza, si limita a stilare l’elenco di chi prende la parola). Il testo deve dunque assumere le caratteristiche di un verbatim, che in casi estremi può arrivare a fare uso dei puntini di sospensione (quasi come un’intercettazione telefonica).
[16] Giuseppe Antonelli, «L’italiano nella società delle comunicazioni», Il Mulino, 2007.
[17] Il linguaggio contemporaneo, sempre meno formale, è innegabilmente influenzato dall’imperversare di una comunicazione rapida, fatta di slogan, e delle strategie della pubblicità e del marketing, in cui appare sempre meno rilevante il contenuto informativo. Quanto agli hashtag e alle derivanti forme linguistiche prive di punteggiatura, spazi e lettere maiuscole, enorme è l’influenza di Twitter sulla comunicazione, politica e non, con i connessi limiti legati alla brevità dello scambio comunicativo: basti pensare a quanto spesso ultimamente i comunicati ufficiali di esponenti politici di alto livello, anche a livello internazionale, siano stati sostituti da ufficiose esternazioni estemporanee tramite i loro profili su tale piattaforma.
[18] F. Bambi, «La lingua delle aule parlamentari. La lingua della Costituzione e la lingua della legge», in www.osservatoriosullefonti.it, 2015, n. 3.
[19] A differenza di quanto si soleva fare in altri periodi storici maggiormente connotati da nazionalismo, al giorno d’oggi la lingua italiana si dimostra più pigra rispetto ad altre nel tradurre parole nuove, di origine inglese, che recepisce tal quali (si pensi a verbi come «chattare», «twittare» o «loggare»), senza nemmeno traslitterare i suoni delle parole importate, a differenza di quanto ad esempio la lingua spagnola almeno si sforza di fare. A tale proposito un valido esempio potrebbe essere la parola «maquillagiato», coniata da un senatore della scorsa legislatura: in un periodo diverso, poiché di fatto la parola allora non esisteva, se ne sarebbero potute mantenere la radice e il significato utilizzando una perifrasi, come «sottoposto ad un’operazione di maquillage»; a fronte però delle registrazioni audio e video e dell’attenzione del soggetto per le sfumature linguistiche, il resoconto si è dovuto attenere alla lettera, riportando il neologismo, che all’epoca del suo conio non registrava praticamente occorrenze.
[20] Le caratteristiche innovative impresse all’oratoria parlamentare da parte dei rappresentanti di tali movimenti politici in termini di radicalizzazione del confronto e simbolismo estremo, nell’ottica di una rottura con i modelli tradizionali della comunicazione politica e di una differenziazione dall’establishment romano, hanno portato i linguisti a parlare di passaggio dal «politichese» al «gentese». Anche il linguaggio scurrile caratteristico degli albori di tali movimenti – che poi, con lo scemare dell’intensità dei contenuti di protesta, si è andato annacquando – serviva, sul piano comunicativo immediato, ad avvicinarsi ai cittadini; eppure, si ha la sensazione che più il linguaggio parlamentare cerchi di infarcirsi delle espressioni tipiche della collettività, più crescano il distacco e la distanza avvertiti dalla gente. I movimenti di protesta cronologicamente successivi hanno dunque trovato un terreno già preparato, sotto il profilo linguistico. (F. Giuliani, «Il discorso parlamentare», in Aa. Vv., «Il Parlamento», in «Annali della storia d’Italia», a cura di L. Violante, vol. 17, Torino 2001).
[21] Non vengono più trascritte con la lettera maiuscola le ormai rarissime occorrenze della forma di cortesia di terza persona femminile «ella», reminiscenza dell’alta formalità del linguaggio parlamentare d’altri tempi. Si tratta però di una formula che, di contro, viene ancora utilizzata da qualche sparuto oratore, che reiterandola più volte nel corso dei propri interventi, con un andamento quasi ritmico, ne ha voluto fare un tratto distintivo, sia per reazione al disuso del «lei» sia per sottolineare l’ufficialità del contesto e la solennità del dibattito (non certo al fine di indicare una differenza di status, così come il «lei» non esprimeva mancanza di conoscenza personale).
[22] A dire il vero, già in epoche ben lontane dalla nostra vi era chi si lamentasse di tale mancanza di bon ton istituzionale: Piero Calamandrei – nella lettera che nel 1951 scrisse a V. E. Orlando per chiedergli di illustrare il significato e l’origine storica dell’espressione «linguaggio parlamentare» in un articolo per la rivista Il ponte – lamentava allora di aver sentito più «ingiurie, parolacce e contumelie» in una breve porzione di legislatura trascorsa nell’Aula di Montecitorio che in quarant’anni di esercizio dell’avvocatura nelle aule giudiziarie, al punto da definire il linguaggio parlamentare – un po’ esageratamente, forse, dati i tempi – come «plateale e sconveniente».
[23] Si consulti a titolo esemplificativo il resoconto stenografico della seduta dell’Assemblea del Senato del 25 febbraio 2016 (e in particolare la conclusione dell’intervento del senatore Airola).
[24] Già nel 1862, Ferdinando Petruccelli della Gattina, ironizzando sui difetti fisici dei suoi colleghi deputati al primo Parlamento nazionale, deplorava che tra tanti balbuzienti, sordi, zoppi, un gobbo persino, «uomini ad occhiali» e un gran numero di calvi – quasi tutti – vi fosse «Non un sol muto! ciò che è una sventura. Imperocché, parlando tutti, ciascuno dimanda l’ora sua per farsi udire – non fosse che per farsi leggere dai suoi elettori». (F. Petruccelli della Gattina, «I moribondi del Palazzo Carignano», Milano, 1862).
[25] Il resocontista parlamentare, osservando le espressioni e la mimica di un oratore, riesce a cogliere il senso generale del suo discorso e quindi ad operare le scelte necessarie – ad esempio, nei casi in cui le frasi non vengano concluse – anche considerando la sede in cui viene pronunciato. Nel corso delle varie legislature, matura una sempre più spiccata sensibilità professionale verso le sfumature del linguaggio – che spesso, poi, tali non sono affatto – per sostituire i sostantivi reiterati con sinonimi o supplire ai lapsus linguae. Imparando col tempo a conoscere stile, caratteristiche e temi di interesse di ogni locutore, nel riprenderne il parlato, riesce infine ad anticiparne l’argomento-chiave.
[26] A seguito dell’ingresso dei radicali in Parlamento nel 1976 e della diffusione radiofonica delle sedute mediante Radio radicale, si iniziarono ad esigere una maggiore genuinità del resoconto stenografico e un’attenuazione dell’incisività del filtro stenografico. Del resto, proprio ai fini di una sempre maggiore trasparenza nei confronti dell’elettorato, in alcuni Parlamenti europei, come quello finlandese, è recentemente invalsa la prassi di lasciare intatte nel resoconto le sviste commesse dai parlamentari.
[27] È però inevitabile che qualche caratteristica personale finisca per «trapelare» nell’estensione dell’elaborato (soprattutto nelle scelte minori, relative ad esempio alle preposizioni) e del resto è questa la caratteristica che, distinguendo l’uomo dalla macchina, permette di magnificare le peculiarità di ogni professionista in questo mestiere. Come se la resocontazione fosse una forma d’arte, il resocontista – con una sorta di maieutica socratica – «estrae» da un concitato discorso il pensiero dell’oratore, dando forma compiuta, adatta al documento scritto, alle stesse parole che questi ha usato, tramite un uso sapiente e misurato della punteggiatura.
[28] Erskine May, «Parliamentary Practice», Butterworths Law, (23rd edition), London, 2004.
[29] Nella ricerca di uno standard professionale universale, tramite principi da impartire sin dal momento della formazione del resocontista, rivestono preminenza cruciale il corretto uso della lingua – tutt’altro che scontato dalla lettura dei giornali o dall’ascolto della televisione (basti pensare al generale appiattimento subìto dall’uso dei modi e dei tempi dei verbi e al disuso del passato remoto, del congiuntivo e dell’infinito) – e contemporaneamente il mantenimento di un’apertura mentale verso i cambiamenti, che arricchisca il consolidarsi nel tempo dell’esperienza professionale.
[30] Per le suddette ragioni, la presenza dello stenografo parlamentare in Aula è fondamentale per tutta la durata dei lavori, a vantaggio di una democratica trasparenza delle informazioni nei confronti dei cittadini: nei momenti di concitazione, infatti, questo consente al resocontista di cogliere le battute di contestazione pronunciate fuori microfono da uno o più oratori contemporaneamente per interrompere l’intervento di un collega o gesti di particolare rilievo politico che potrebbero essere sfuggiti ad impianti di registrazione anche di tipo avanzato o all’inquadratura del circuito televisivo interno. Quello che il resocontista riesce a udire distintamente ha valore di testimonianza, dato che spesso si tratta di informazioni che, in sua assenza, andrebbero irrimediabilmente perdute: in tali frangenti, deve cogliere prontamente tali contenuti, con particolare riferimento a scritte di protesta, prima che vengano rimossi dagli assistenti parlamentari su richiesta della Presidenza.
[31] Certamente la forza delle immagini trasmesse da un telegiornale o da una fonte non ufficiale difficilmente potrà essere uguagliata da una menzione dei fatti tanto secca, che tra l’altro si è andata ulteriormente asciugando nel corso delle legislature, fino a scomparire quasi del tutto ad esempio negli Hansard, che si limitano alla generica dicitura «[Interruptions]»; non è questo del resto il fine dei resoconti parlamentari, documenti ufficiali che non devono eccedere in dettagli poco rilevanti ai fini dell’attività preminentemente legislativa.