«Ci ricorderemo della fratellanza che ci ha unito in queste ore terribili e con la tenacia che Dio ci ha dato ricominceremo a lottare… perché il sole sia più splendente, perché i fiori più belli e la miseria sparisca dalle nostre città e dai nostri villaggi. Dimenticheremo le discordie… e quando avremo voglia di morte cercheremo di sorridere»

(dal film Il ritorno di don Camillo, ’53, di Julien Duvivier)

 “[…] Ma pur cantando il canto di Mimnermo / sento che è morta l’Ellade serena / in questo giorno triste ed autunnale. / L’Anima trema nell’enigma eterno; / fratello, soffro la tua stessa pena: / attendo un’Alba e non so dirti quale”

(dalla poesia Domani, 1904, di Guido Gozzano)

  • PERIODI TORTUOSI

Come promesso, l’articolo integrerà quanto scrissi sullo scorso fascicolo di “SPECIALinguaggi” (n. 6, 06-2020) riguardo all’illusione di affrancamento da ogni prassi, limite o vincolo materiali (Corpo, Soggettività, Spazio, Tempo) che la “prima ondata” dell’epidemia (21 febbraio – 9 giugno) e la quarantena a casa ci hanno lasciato. L’omelia di Don Camillo per l’inondazione di Brescello non ha mai reso umidi gli occhi, lievi i timori, gradito il suono del respiro come negli ultimi mesi: perciò l’ho posta in epigrafe. Il senso di “perdita” non è stato, tuttavia, mitigato e alla fede di Guareschi ho fatto, così, seguire i tristi versi del poeta torinese. Un panno smagliato, di odore acre, reale o meno, continua tutt’ora a “separarci” dalla scrivania, dalla carne dell’Amata; dall’amico freddo dei piovaschi, dalla solitudine che non fiacca quando è voluta; dalle viuzze presso il Lungarno Cellini, protette dal drappo livido e discreto di novembre; dal vapore piluccante la muratura in carparo o pietraforte, vapore che curva le dimore e offre la sola, la vera vita, giocondamente consunta, a chi le possiede. Ma questi non sente, non cerca di ricordare. Poter tornare a salutare un viandante che non c’è! Gioire al pensiero che, “toccando”, basta il tempo di un frinio e più squisiti archivi si aprono! O, in vesti più accese, assieme, poter agire ancora! Come avvenne in martedì lontani, forse confusi, forse mai esistiti… rincorrendo, stavolta, visioni sgorgate dalle nostre stesse viscere e non ispirate da brillanti intrusi. Ribellarsi: ecco il verbo proscritto!

Cosa deve succedere ancora perché si levi, finalmente, un grido che svegli dal sonno la terra? Il principale stimolo per questa “seconda parte” de L’ultima stagione “reale”? nasce da una riflessione, di per sé non originale ma valida, di Diego Fusaro [1] sul “telelavoro”. “Perché è stata promossa con tale energia questa nuova forma d’attività?” si chiede il giovane filosofo. Insieme ad ovvie cause di forza maggiore si aggiungono numerosi altri scopi ma tre in particolar modo balzano all’occhio: (a) abbattere il muro divisorio fra il tempo della vita e quello del lavoro; (b) violare ulteriormente la casa nel senso antico del termine – (òikos, in greco) – ossia angolo di comunione degli affetti, rifugio dalla “macchina”, dal fermento lavorativo, come anche spazio per attività contemplative e ricreative; (c) far sì che l’ingresso del Capitale nel recinto domestico – uniformando di quest’ultimo, alla stregua di un’azienda, ritmi e convenzioni – sopprima definitivamente la possibilità del formarsi di una coscienza di classe che spinga dapprima a difendere la propria personale dignità umana, con la forza se necessario, e guidi poi all’emancipazione. I primi due scopi ben rientrano in quel processo di “frammentazione”, di assorbimento del soggetto nell’oggetto creato da lui medesimo, che fonda l’odierno mondo della produzione e del commercio; sicché inquietano ma non stupiscono: qualcuno li aveva già previsti un sessantennio prima, fornendoci gli strumenti necessari per non soccombere (si leggano La sovranità di Bataille altrimenti, più recente, il saggio Oltre il Novecento di Revelli). Subdolo e meno prevedibile risulta il terzo fine: operando in fabbrica, in ufficio, in redazione o in piccoli e medi studi professionali, accanto agli altri, con gli altri, nello stesso tempo e luogo, si creano, infatti, più agevolmente le condizioni per la maturazione di una coscienza di classe che sia condivisa. Viceversa, il “telelavoro” genera una “frantumazione individualistica” dell’attività, tale per cui il soggetto, senza un contatto reale con le altre soggettività operanti, finirebbe per trovarsi sempre e solo a casa anche quando gli sarà concesso di riappropriarsi “fisicamente” del lavoro nelle sedi e nei tempi originari.

Allettanti schematismi viziano la visione di Fusaro e, d’altronde, non poteva essere altrimenti (è la trappola di ogni sogno, di ogni rischiosa, ancorché genuina, utopia egalitaria: sovrastimare la capacità di “ricostruire” il mondo a discapito del Destino) eppure le sue parole ci danno ulteriore conferma, se ve ne fosse bisogno ma crediamo di sì, di un clima sociale e culturale che declina o, peggio, ridicolizza ormai qualsiasi forma (e intensità) di rabbia o di agitazione, riducendole meccanicamente e acriticamente, a prescindere dalle cause, alla sfera bestiale quando non addirittura demoniaca in certi casi, esortando a provare spavento e vergogna di entrambe. Ostaggi di un insonne malanimo, oscillante fra zelo e ansia di perdere l’approvazione, non si è dunque più capaci di immaginare o comprendere (non accettare, si badi) che alcune decisioni critiche, individuali o collettive, nascono fatalmente dall’istinto, prima che dalla logica o da un’analisi della situazione di fatto, solidamente articolata e motivata: in breve, un singolo uomo o una collettività – brutalizzati, impossibilitati a scegliere coscientemente, feriti nel profondo – che si vedono costretti ad armare la propria mano possono benissimo essere presentati come un problema da ‘paralizzare’ punto per punto, evidenziandone a priori, con ogni mezzo, l’incoerenza e i connessi pericoli nel rispondere alle vessazioni con soprusi d’altro genere; ma al tempo stesso si è stranamente disposti a salutare come ‘civili’ delle rutilanti, cervellotiche illusioni fattesi città (si va dal cartone Zootropolis di Howard & Moore al documentario 2040 di Damon Gameau) dove uomini e donne, deboli e forti, prede e predatori, soccombenti e oppressori, capitani d’industria e famiglie ecologiche convivono pacifici sotto un unico cielo, sempre terso, punteggiato da bizzarri velivoli, senza dover mai chiedersi chi o cosa ha reso possibile tutto ciò ma soprattutto senza mai nutrire il dubbio che simili utopiche “tele” sgorghino da strumenti di monitoraggio delle tendenze di consumo e non dal “pennello” di innocenti sognatori.

«Sii pure ciò che desideri a patto che la scelta avvenga sul terreno di gioco allestito dal mondo a te preesistente»; «Disobbedisci pure ma non ribellarti: qualcuno l’ha già fatto ed è grazie al suo operato se oggi puoi valerti d’ogni diritto, anche di disobbedire; se ti ribellerai infangherai la sua memoria»; «I giorni ‘belli’ della lotta condivisa appartengono al ricordo e al passato: più della Rivoluzione possono oggigiorno la Festa, anche cruenta, e l’Immedesimazione»: la filmografia dell’ultimo quadriennio (comprese le due opere prima citate) ha allestito ampie, invitanti vetrine attorno a questi messaggi, mimetizzandoli ma non del tutto. Nei paragrafi a seguire vedremo insieme tre significative opere. Data l’affinità con i temi, avrei voluto includere e approfondire il noto Parasite di Bong Joon-ho, vincitore di quattro statuette alla notte degli Oscar 2020 (miglior film, regia, pellicola straniera e sceneggiatura originale), ma per ragioni di spazio mi limiterò solo a questo breve accenno.

Sopra Passeggiata Morin l’immobilità opalina viene, intanto, spezzata da irruenti accordi d’ambra; infiorescenze ora lilla, ora blu polvere, ora melagrana. Frutti di pino e scaglie di luna. Tendini, abbiocchi e piccoli ramarri: troppe beffe nella Casa del Mastro d’Ascia; più non scherzeremo, né mangeremo fra le sue mura. Nel suo cortile, dal sale e dalla sabbia non laveremo più i nostri corpi. Nessuno vi è più tornato. E mentre risuonano le note di un preludio di Debussy, detto Canope, la statua della dea Flora occhieggia dal “Boschetto” di Via Chiodo: in qualche modo, sapeva già tutto. Neppure un consiglio uscì dalla sua bocca. Ciò che segue e resta è un ferroso, demente muggito. Saprò chiedere perdono… ma il mio tempo è adesso e non ve ne sarà un altro per tentare di fare qualcosa.

La Spezia, 31 dicembre 2020

N.B.: Le riflessioni sul film Nuevo Orden e la rappresentazione della Rivolta nella storia della settima arte sono fedelmente riprese da un altro articolo, da me pubblicato un mese fa (cfr. «Moviestruckers.it», 13-11-2020).

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  • LA PROTESTA DI LEPORELLO, IL DOLCE SOLLIEVO DELLA RECITA: ‘NUEVO ORDEN’, ‘JOKER’, ‘LE INVISIBILI’

Premiato dai giovani giurati con il Leoncino d’Oro “Agiscuola” all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, Nuevo orden ridesta orrori di patrie e stagioni diverse. I tedeschi penseranno al “nuovo ordine dei rapporti etnografici” (Neuordnung) teorizzato da Hitler nel Mein Kampf e annunciato al Reichstag il 6 ottobre 1939 in termini di “pulizia etnica” (ethnischen Flurbereinigung). I portoghesi legheranno l’aggettivo “nuevo” al volto di Salazar e al suo regime, «Estado Novo» (’33-‘76). L’assonanza con «Ordine Nuovo» di Graziani, disciolto movimento della destra radicale (’70-’79), provocherà infine un attimo di gelo nel pubblico lombardo.

Si può divenir preda di un altro totalitarismo? Con il suo L’onda, Dennis Gansel rispose dodici anni fa in modo affermativo, legnoso ma chiaro. Oggi il regista Michel Franco, messicano, classe ’79, sottoscrive. Tuttavia, a dispetto dell’accoglienza al Lido, si fa strada il sospetto che sotto ci sia dell’altro e il titolo originariamente previsto per il film lo conferma: Lo que algunos soñaron (tr. “Ciò che alcuni sognarono”). Le tesi restano, comunque, distinguibili in controluce: (a) i sogni politici di alcuni furono un sanguinante tribolo per altri e lo sarebbero ancora; (b) la forma più alta di Giustizia cercata dall’Uomo, quando è il ‘thymos’ (un ardore totale) a sospingerlo, non esiste dacché la Giustizia è qualcosa di mutevolmente terreno, esercitabile quando si ha il potere, la forza. Prima di discutere ambedue, entriamo nella vicenda.

Sulla vaga scia di Del Valle-Inclán (il romanzo El tirano Banderas) e Colette Audry (l’opera teatrale Soledad), Nuevo orden narra una storia senza tempo, di ieri come di domani, collocata in un altrettanto indefinita terra ispano-latina. Rolando (Eligio Meléndez), anziano domestico, necessita di duecentomila pesos per far operare la moglie alla valvola aortica; bussa dunque alla porta di Rebeca Novello (Lisa Owen), da lui fedelmente servita per anni, ma la donna, sposata a un grosso appaltatore del governo (Roberto Medina), è tutta presa dalla festa nuziale della primogenita, Marian (Naian González Norvind); inoltre la turba un fiotto di vernice verde zampillato di colpo (sogno o realtà?) dal lavabo, la stessa vernice con cui un gruppo eversivo, fiancheggiato dal popolo, sta da giorni imbrattando le vie cittadine. Marian, affezionata a Rolando e consorte come e più di una nipote, fa una colletta con gli ospiti e l’avido fratello, Daniel (Diego Boneta), trovando, però, a stento metà del denaro. Da un istante all’altro, esplode la rivolta: i beni dei Novello, simboleggianti il Vecchio Mondo, fatuo e arrogante, vengono sottratti o fatti a pezzi. Incendi, catture, stupri, fucilazioni sommarie dominano lo scenario. C’è chi si dissocia – il giovane Cristian (Fernando Cuautle) e sua madre (Mónica Del Carmen) – chi, come Marian, cerca un’intesa, pagandola cara, con la marmaglia furente oppure vede nel “nuovo ordine”, appunto, l’irripetibile occasione per dimostrare al paese l’urgenza di una dittatura militare; cosa che lo scaltro generale Oribe (Gustavo Sánchez Parra) farà…

Lasciando da parte l’Era del Muto o il decennio ‘30 [2], e dichiarando subito al lettore certe semplificazioni, la visione di Nuevo orden ci sprona a ripercorrere ottant’anni di cinema, a indicare come le raffigurazioni della rivolta – del suo mutarsi in rivoluzione prima e in cruda devianza poi – dal “saliscendi” sembrino finite oggi in un nero burrone. Sul finire degli anni ’40, ad esempio, il Governo Rivoluzionario non era che una ben coesa banda di malfattori (The Black Book di Anthony Mann); gli anni ’50 mettevano in luce le discordie interne fra ribelli (Viva Zapata! di Kazan), ammonendo su possibili, orgiastici deliri (La nave delle donne maledette di Matarazzo), ma non negavano la volontà di riscatto (si guardino La tempesta di Lattuada o il finale “aperto” del cartone Animal farm di Halas e Batchelor) né il diritto a contrastare forze dispotiche (Versailles di Guitry); negli anni ’60 le opere di Marx erano buone giusto come ferma-finestre (La ciociara di De Sica) e il dissenso, attuabile unicamente dal singolo, in nome dell’Amore (Alphaville di Godard) o dell’Umana Verità (Il processo di Welles), contro l’omologazione tecnica; viceversa la decade successiva presenta la teoria rivoluzionaria come una forma di “sacralità atea”, con tanto di “gesti liturgici” (Salmo rosso di Jancsó, Le canzoni del fuoco di Koundouros, Novecento di Bertolucci): il richiamo al Mito (Ifigenia di Cacoyannis) e alla Fiaba (Il prato dei Taviani) nobilita o sublima i coevi moti di protesta e, una volta di più, “l’ideale sembra invocare l’alibi del reale per non dover mai compiersi” (Thévoz, ’89).

Un denso grigiore sovrasta le riflessioni del decennio ‘80: denaro (L’argent di Bresson) e viltà spirituale (Paradigma di Zanussi) infettano il mondo; chi ancora segue utopiche “voglie”, dando la vita, è degno di rispetto (Reds di Beatty, Danton di Wajda) ma la “festa”, come sentenzia un film di Murgia, è ormai perduta; con malcelato rimorso si guarda ai dotti dell’Antico Regime (La nuit de Varennes di Scola), il popolo insorge giusto nella fantascienza (Essi vivono di Carpenter) mentre all’orizzonte si stagliano miraggi di paradisi perduti (Emerald forest di Boorman, Mosquito Coast di Weir). Neppure questi, ahimè, rendono liberi (The beach di Boyle), sussurrano i cauti anni ’90; indipendentismi e secessionismi sono sempre più confinati alle remote, confortanti “spiagge” della Leggenda (Robin Hood – Principe dei ladri di Reynolds), del Passato (Jefferson in Paris di Ivory, Braveheart di Gibson), del “Non Ancora” (Solo di Norberto Barba), perfino del Regno Animale (il cartone A Bug’s Life di Lasseter) e le rare allegorie della Rivoluzione (Il buio nella mente di Chabrol, The last supper di Stacy Title) vanno dritte nel ‘Grand Guignol’, tra tartuferie e burleschi macelli.

La seconda decade del Duemila abbandona ogni eufemismo: il male è insito nell’Utopia da principio [3] e gli eventi a seguire non potranno avere che un esito. McLeod, il carismatico agitatore di John Steinbeck, viene perciò dipinto come una “leggera” (In dubious battle di James Franco); le comunità ideali si macchiano di sangue pur di progredire (Capri-Revolution di Martone [4], Partisan di Kleiman) e il “Regno del Terrore” (1793-’94) rivive, invece, nella fumettistica Gotham City (The Dark Knight Rises di Nolan). Nuevo orden si inserisce pienamente in tale solco: la prima delle due tesi intuite mostra così l’argilla dei suoi piedi. Le «disturbanti immagini di un futuro distopico» che tanto colpirono la giovane giuria veneziana sono in realtà un ammasso acritico che riduce riconoscibilissimi episodi passati e presenti ad un comodo “qui e ora, come dovunque e sempre”: la rivolta degli schiavi nella colonia francese di Santo Domingo (1791) si mescola, infatti, ai cileni Stadio di Ñuñoa e Villa Grimaldi, divenuti luoghi di prigionia e indicibili sevizie (settembre ‘73), ai disordini genovesi durante il G8 (luglio 2001) fino all’avanzata dell’ISIS nel nord dell’Iraq (agosto 2014) che costò la vita a 3.100 uomini, più 6.800 prigionieri, compresi donne e bambini, deportati in Siria.

La co-produzione d’Oltralpe (Les Films d’ici) sembra, per giunta, giocare un ruolo non solo finanziario: sui tumulti inscenati in Nuevo orden aleggia pure lo spettro dell’occupazione del Pantheon parigino da parte dei sans-papiers (luglio 2019) ma soprattutto fanno strumentalmente capolino le “maschere”, modernizzate, di tanti feuilletons anti-giacobini, fra i quali la nota trilogia (1867-’69) di Sainte-Hermine (I Bianchi e i Blu, I compagni di Jéhu, Il cavaliere di Sainte-Hermine) di Dumas padre e Il conte di Chanteleine (1874-‘79) di Jules Verne; tutti, fra l’altro, recentemente tradotti e ripubblicati in lingua italiana: anche nella pellicola di Franco troviamo un “nobile” che cerca di salvare almeno la figlia “dalla ghigliottina” (Novello padre e Marian), servi fedeli (Rolando e Cristian) contrapposti ai traditori etc…

La seconda tesi suaccennata regge e non è un merito: giustizia vien, sì, fatta ma in nome dell’unico ordine culturalmente legittimato e vantaggioso per la maggioranza; un «potere invisibile» che non esita a ricorrere al sotterfugio e a stratagemmi quali il false flag (ossia pianificare un delitto in modo da far ricadere la colpa su singoli o organizzazioni che si vogliono colpire). La sola domanda che in fondo avrebbe contato – “Come agire per cambiare davvero, e in meglio, lo stato delle cose presenti?” – conosce ancora un silenzio feroce. E dispiace [5].

Per chiarire meglio cosa intendessi all’inizio per svilimento del concetto di “rivoluzione” in favore di quelli di festa e immedesimazione passerò ad esaminare i pregevoli Joker di Todd Phillips e Le invisibili di Louis-Julien Petit, non prima però di appoggiarmi un attimo alle riflessioni dell’antropologo Daniele Vásquez e del filosofo Costanzo Preve. Il primo pone l’enfasi sul lato ferino, ingestibile della “festa”, sostenendo – sulla scorta di Angelo Brelich, al quale tuttavia non aderisce pienamente, e di Byung-chul Han – che l’identità fra quest’ultima e il “rito”, sovente rimarcata da una longeva tradizione filosofica e critico-letteraria, l’abbia in realtà decurtata della sua vera essenza [6]:

“[…] La festa è stata spesso trasformata in un dispositivo per integrare una «comunità», per rigenerare l’ordine del suo mondo, per tramandarne le tradizioni, per tecnicizzare psico-politicamente la momentanea uguaglianza che vi si crea. […] Per gli storici delle religioni e i demologi essa non si presenterebbe mai come l’evento stesso della rivoluzione, mentre per gli antropologi più radicali coinciderebbe con quella particolare trasgressione che costituisce il nietzschiano salto nel nulla, interpretando la festa unicamente come sacro di infrazione, come momento di una trasvalutazione di tutti i valori. Tuttavia la festa può divenire rivoluzione con tanta facilità che si può dire che festa e rivoluzione siano due aspetti diversi dello stesso divenire e sentire. Può accadere ed è accaduto spesso che la festa arrivi a un punto di rottura: la festa diviene tumulto o moto prerivoluzionario senza per questo smettere di essere una festa così come la rivoluzione diviene una festa senza per questo smettere di essere una rivoluzione”.

L’analisi di Vásquez è chiara, filologicamente agguerrita, culminante in un decimo, conclusivo capitolo dove l’antica “ridda di feste”, scrutata e approvata dal Potere, viene contrapposta ad una «storia di corpi ostili» parallela, sotterranea. “Fuori controllo”, appunto, a detta dell’autore. Storia destinata a venire presto, fragorosamente alla luce. Con intelligenza, Vásquez situa la metamorfosi della festa in rivoluzione nella dimensione dell’eventualità. Ma il dubbio rimane: e se questa rovente atmosfera di “sfascio”, irriverenza e ferocia, non fosse un “bozzetto preparatorio” alla rivolta bensì la più raffinata espressione del dominio “travestito”; forma ultima, sanguinosamente puerile della Disobbedienza? Christoph Türcke lo sussurra tra le righe di un denso studio [7] mentre il marxiano Costanzo Preve lo dice a voce alta, carezzandosi la pancia e sghignazzando, in un articolo pubblicato sulla rivista “Praxis” e inserito poi in una miscellanea [8]:

“[…] La Disobbedienza non è affatto una variante depotenziata di Rivoluzione, ma è il suo contrario. Il terreno della Rivoluzione è quello di una organizzazione alternativa della produzione sociale, e si porta dietro ovviamente anche proposte radicalmente alternative di tipo politico e culturale. Il terreno della Disobbedienza è un povero e subalterno terreno mediatico, già perfettamente descritto in modo profetico negli anni Sessanta dai Situazionisti, ed è un terreno su cui si consuma una sorta di gestualità virtuale ininterrotta, del tutto funzionale (anche se stavolta fastidiosa per i commercianti) all’integrazione nel sistema di ‘ghetti’ autogestiti di stravolti che ascoltano musica a pieno volume.”

Aggiunge Preve:

“[…] Il rivoluzionario fa qualcosa di reale, che tocca sia la produzione che la distribuzione sociale. Il disobbediente si muove in un mondo virtuale, e soprattutto contempla narcisisticamente sé stesso mentre disobbedisce. Per questo il disobbediente ha l’ossessione dei media e della copertura mediatica. Se i media non mostrassero la sua disobbedienza, essa finirebbe con il non esistere più. Fra reale e virtuale non c’è infatti nessuna differenza”.

L’irrealtà della sottocultura dei mass media (fumetti, cinema, televisione, videogiochi), come intuì anche Pasolini, ha dunque sostituito l’esperienza corporea e mentale, inclusa l’esperienza stessa della rivolta, con una rete di simulazioni. Su ciò si fonda la disobbedienza e non v’è disobbedienza più contagiosa della Festa: essa “dà rifugio a tutto ciò che è censurato dall’ordine della ragione” [9] ma, per intensa o totalizzante che appaia, non tocca mai davvero la Storia, non muta la società; non è un sovvertimento del potere ma “un’inversione momentanea di ruoli che, per quanto volta al riconoscimento dell’umanità di chi è sottomesso, non fa altro che confermare la gerarchia iniziale” (cit. V. Raciti). Semplicemente, “chi prende gli schiaffi” diviene Re per un giorno e i Re per nascita, quando non inciampano comicamente, affogano nel loro sangue. Possono, ad esempio, i “cattivi” di un dozzinale film d’azione americano, cosparso di mosse di aikido e polvere da sparo, dar conto dell’idea comune di rivolta, declassata a chiassosa, sadica quanto futile disobbedienza? Certo che sì, si tratta di Bill Strannyx (Tommy Lee Jones), ex sicario della CIA, e del comandante in seconda Krill (Gary Busey), menti dell’attentato alla corazzata “Missouri” attorno a cui ruota la trama di Trappola in alto mare (‘92). Al telefono vivavoce nella sala riunioni del Pentagono, il primo farnetica così:

«Voi ed io sappiamo bene che calamità e tumulti consumano il mondo intero. I raggi UV sono solo l’inizio. La vita umana è ormai scandita su un ritmo meno che ‘circadiano’. Malattie sessualmente trasmesse, impoverimento del pool genetico: anch’essi annunciano l’oblio. I governi cadranno e regneranno le anarchie. Un mondo tutto nuovo. Convenite che qualsiasi cosa faccia, tutto ciò è inevitabile? Guardate la mia vita: la vita che cercaste di bruciare. Prima ci fu Annapolis, poi il Vietnam… Ho perso gli anni ‘60 e credo che se avessi fatto la mia parte, tutto sarebbe stato diverso. Certo, il Movimento è morto ma non è forse per questo che si chiama così? Si sposta di una certa distanza, poi si ferma. Viceversa, la Rivoluzione prende il nome dal fatto che ti torna sempre indietro, in faccia, senza pietà. Non siete riusciti ad uccidermi? Benvenuti, allora, alla Rivoluzione!»

Cupe profezie e baci d’addio a sogni contro-culturali sono, prevedibilmente, una facciata che nasconde la solita brama di denaro: vendere, cioè, i missili nucleari della “Missouri” sul mercato nero. Nondimeno, per dimostrare di avere il pieno controllo della nave e della sua potenza di fuoco, Strannyx abbatte un elicottero Havoc. Le immagini dei resti roventi del mezzo, cadenti in mare, e del brindisi dei furfanti “viaggiano” sulle note di Voodoo Child di Jimi Hendrix, senza contare che poco prima della dinamitarda “esibizione”, il bieco comandante in seconda, con una parrucca bionda in testa, grosse zinne di gommapiuma e il rossetto sulla bocca, aveva freddato l’anziano ammiraglio, “cinguettando” per ben tre volte «La festa è appena cominciata. Benvenuti alla Rivoluzione». Questo, signore e signori, significa la rivolta per lo spettatore medio d’Oltreoceano (e non solo), né più né meno: l’incubo di una Fiera di Woodstock senza fine, un Saturnale ad alta tecnologia – con whisky al posto del vino e proiettili esplosi a bruciapelo che rimpiazzano le più innocue ciabattate – rimbombante di melodie “destabilizzanti, ctonie e anti-contemplative, puntualmente accompagnate da mantra ideologici di inclinazione caotica, spontaneista, sovversiva, antigerarchica e neo-ereticale” (E. M. Jones, ’94). Checché se ne dica, la cruenta tetralogia di The Purge (2013/2018) ideata da James De Monaco – e imperniata su un’ipotetica notte di dodici ore in cui il Governo, una volta all’anno, concede al popolo di “sfogarsi”, mascherato, rubando, stuprando e uccidendo senza conseguenze penali – stigmatizza ed esorcizza proprio tale “spettro”, fingendo di alludere polemicamente al fondamentalismo evangelico americano e al suo secolare rapporto con la violenza [10].

Lo stesso Joker di Todd Phillips, ispirato all’omonima creatura a fumetti di Bob Kane nonché vincitore del Leone d’oro alla 76a Mostra di Venezia, aldilà dell’indubbio vigore espressivo o del trasporto con cui descrive le radici del male umano di vivere, pare non sottrarsi alla percezione culturale suindicata. Un ottimo Joaquin Phoenix incarna Arthur Fleck, moderno, piagato Arlecchino; un reietto che sbarca il lunario come clown animatore per feste di compleanno, reparti di pediatria nonché mascotte per negozi. Fin da piccolo Arthur ammira Murray Franklin (Robert De Niro), gigione conduttore di uno show televisivo: non solo il nostro si illude di poter duettare una sera con lui ma vede addirittura in Murray quanto di più simile ad un padre possa mai aver avuto. Da un giorno all’altro, Arthur scopre che quel pochissimo di buono che c’era nella sua vita, quello in cui credeva, quello che fa di lui la buona persona che è (anche se fragile e disturbata) è una menzogna. Come reagirà? La figura di Arlecchino apre un ventaglio pressoché infinito di suggestioni, anche sinistre. Questo aspetto già emerge dal Canto XXI dell’Inferno, dove Malacoda mobilita il sulfureo Alichino («Tra’ ti avante, Alichino, e Calcabrina»), ciò nonostante la celebre maschera bergamasca porta con sé un retaggio ben più antico, di tradizioni rurali, violente e ineffabili, ormai scomparse, a motivo delle quali despoti e riccastri venivano rovesciati dai loro troni, fra sangue, appalusi e grasse risate. Risalire alle fonti mitiche non è affatto ozioso ma ci consente di capire cosa resta ancora del lato oscuro, arcaico di Arlecchino sotto moderni saltimbanchi e pagliacci folli che abitano certi testi teatrali, opere liriche e alcune visionarie pellicole.

Il “Joker” di Phoenix è, come detto, la metafora (fin troppo) esplicita di un’umanità schernita e prostrata che, nonostante il progresso, non ha mai cessato di ricevere sferzate dagli indegni, di cadere sotto i loro calci. Il ghigno sardonico della maschera e il furore delle sue gesta dovrebbero risarcire gli oppressi, i maltrattati, in nome non solo dell’antico retaggio di Arlecchino ma anche, ad esempio, del partenopeo Pulcinella. Alla fine, però, quella che riecheggia nella sala di proiezione è, per l’ennesima volta, una nera risata, nell’accezione di Georges Bataille,che “profana”, va dritta nella sfera spirituale, “mostra il pugno” a un Dio silente ma, ahimè, non conduce ad alcuna liberazione terrena. Paradossalmente, la rivolta di Joker si avvicina, più di quanto non si creda, a quella inscenata da Claude Chabrol nel già menzionato Il buio nella mente (’95): il film narrava di come una domestica, analfabeta e teledipendente, a servizio presso una lussuosa dimora di campagna, venisse poco a poco plagiata da un’impiegata delle poste, bigotta e pettegola, e infine aizzata dalla stessa contro i proprietari… Mediante le due protagoniste, disturbate e complementari, il cineasta francese suggeriva come nel mondo odierno un atto rivoltoso, anziché da un profondo senso di giustizia, non potrà essere guidato che dalla rabbia verso tutto ciò che non si ha mai posseduto e mai si potrà possedere; l’esito è uno sfogo tanto truculento quanto astratto, un vago accanimento contro tutto e tutti che non matura in un’autentica rivoluzione ma resta, esattamente come nel Joker (benché le sue ragioni fossero di ben altra gravità e fondatezza), una “festa dei folli”, un fosco Carnevale [11] che varrà soltanto per una notte. Ricorrendo ad una boutade, dinanzi ai nostri occhi si consumano, tanto in Chabrol quanto in Phillips, due variazioni della “protesta” di Leporello (la cavatina del primo atto di Don Giovanni non a caso fa capolino da Il buio nella mente) il quale, dapprima borbotta «Voglio far il gentiluomo, e non voglio più servir» ma conclude infine «Ed io vado all’osteria a trovar padron miglior». La televisione, nel frattempo, lampeggia sullo sfondo di entrambe le pellicole, continuando a ‘caricare’ prima e ‘immiserire’ poi tutto ciò che avviene nel mondo.

Concluderò questa ricognizione, forse un po’ lunga ma spero non tediosa, con il lieve Le invisibili di Louis-Julien Petit, campione d’incassi in Francia (oltre 10 milioni di euro al botteghino) e che si è difeso onorevolmente pure sul mercato italiano. Non si parla più di “festa”, stavolta, bensì di “immedesimazione” quale principale motore del cambiamento sociale. Influenzata dal libro-inchiesta di Claire Lajeunie (Sur la route des invisibles), la pellicola ci prende per mano, trasportandoci in quel vortice di sogni, dolorosi ricordi, piccole gioie e inventive battaglie, che è il pane quotidiano di un gruppo di operatrici socio-sanitarie e così delle ospiti del centro di assistenza al quale è assegnato. I percorsi di avviamento professionale, promossi dal gruppo e chiamati in inglese “battle plans”, dovrebbero portare – almeno sulla carta – ad una graduale, spontanea emancipazione dal centro, tuttavia molte ospiti – vuoi per orgoglio malcelato, vuoi perché respinte all’ennesimo colloquio e quindi sempre più inibite ad affrontare il mondo esterno – finiscono sempre per farvi ritorno e pernottarvi neanche fosse un ostello. Come sopperire alla situazione, ingestibile ma soprattutto illegale secondo lo statuto? Nel corso della visione, scoprirete in che modo Audrey (Audrey Lamy) e Manu (Corinne Masiero), le assistenti più volenterose, si ingegneranno affinché le ospiti, prima ancora che imparare a fare una buona prima impressione nella ricerca del lavoro, possano tornare a credere in sé stesse, a valorizzarsi come persone, a ritrovare una certa segreta felicità a dispetto del loro domani e di ciò che accadrà…

Comprendere le ragioni del grande successo ottenuto in patria dal film è meno facile di quanto crediate. Proverò in questa sede a ridurre a due le possibili vie interpretative. Allo spettatore impegnato nel sociale sarà difficile non storcere il naso di fronte a certe soluzioni narrative de Le invisibili, pur riconoscendo che si tratta, alla fin fine, di un film [12]. Ma ciò significa ben poco. In tempo di crisi, operazioni del genere imbastiscono, purtroppo, potenziali trappole emotive e, senza per questo dubitare della buona fede e dello spirito etico di chi le concepisce o vi partecipa, insinuano, mediante toni raffinatissimi, più o meno gli stessi principi – e in ciò consiste una prima chiave di lettura – che reggevano le commedie di Frank Capra [13]. Si valorizzano, quindi, i sentimenti, la pietas, l’ingegno dei bonari “invisibili”, appunto; la regia sa cogliere perfettamente dettagli espressivi (nel caso in esame ne vedrete diversi, come il motivo ricorrente dei personaggi colti dalla cinepresa dietro le sbarre, come detenuti), nondimeno a ottant’anni di distanza si ribadisce – implicitamente, sia chiaro – che qualunque disoccupato, consumata la sua piccola ribellione (creativa o professionale, comunque individuale), riuscirà sempre ad aprirsi un varco verso la felicità; anche il più ingenuo, disadattato, ferito dalla vita potrà trionfare, fosse anche per un giorno soltanto, su burocrati e reclutatori saccenti, se questi hanno torto. Abbiamo davvero bisogno di un simile ottimismo in un’epoca tragica come quella che stiamo vivendo?

Personalmente, mi auguro di no. A meno che lo scopo di Louis-Julien Petit fosse un altro, il che mi porta alla seconda lettura: e se il film non volesse parlare delle mille difficoltà del mondo del volontariato? Se fossimo tutti noi gli invisibili del titolo e non soltanto gli abbandonati, gli emarginati? Questo offre ben altri spunti di riflessione. Noterete che il copione, pur tratteggiandole con simpatia, non risparmia frecciate velenose verso le operatrici socio-sanitarie. In che modo? Riflettete, da bambini riceviamo in dono dei giocattoli, perlopiù riproduzioni rimpicciolite di strumenti e spazi del mondo reale: sotto l’apparente innocenza del dono, scrive il francesista Scaraffia [14], è il mondo, in simbolica miniatura, che ci viene offerto, quasi fosse un sacrificio propiziatorio al futuro e al tempo stesso la tacita conservazione dello stato di cose esistente. Non è un caso che molti genitori, una volta scartati, sottraggano i regali ai figli con la fatidica spiegazione «E’ troppo bello per la tua età; lo userai quando sarai grande». Le nostre protagoniste fanno qualcosa di non dissimile: credono sinceramente di aiutare le ospiti, lasciandole “sfogare”, riunendole in piccoli gruppi di lavoro manuale, facendo loro allestire banchetti aperti al pubblico dove mettono in pratica le competenze acquisite, il tutto nella speranza di allenarle all’impatto con la società, quando vi rientreranno. In realtà, così facendo, finiscono per trasformare il centro di assistenza in una sorta di miniatura del mondo esterno, appunto. Miniatura, da un certo punto di vista, più reale della realtà stessa e per questo, forse, più appagante. Le protagoniste allestiscono di fatto un “set cinematografico”: non per caso i nomi fittizi che le ospiti (autentiche senza tetto, non attrici professioniste) si sono scelte, per privacy, sono Catherine Deneuve, Brigitte Bardot, Vanessa Paradis… Da un lato questo è suggestivo, dall’altro è totalmente problematico e sottilmente inquietante poiché significa che in età contemporanea, nel bene come nel male, tutto è sostanzialmente rappresentazione, finzione scenica: basta scegliersi il proprio ruolo e viverlo fino in fondo. Il curriculum vitae attesterà la nostra capacità tecnica al pari delle credenziali di un attore navigato. Audry confessa, infatti, sottovoce a Manu: «Quel che conta sarà solo ciò che si convinceranno di essere». Immedesimarsi al meglio: non c’è altro modo di sopravvivere. E quella “sfilata” finale delle signore non può non far pensare ad una rilettura grottesca, “proletaria” del celeberrimo epilogo di Viale del tramonto (‘50) di Billy Wilder, con un’attonita squadra del reparto mobile parigino al posto dei faretti e delle cineprese dei giornalisti: malgrado tutto, al pari di Norma Desmond (Gloria Swanson), queste “naufraghe” della vita stanno girando il loro film. Il destino a volte è stranamente generoso e ha avuto compassione di loro: ecco, il sogno al quale si erano con tanta disperazione aggrappate ora le culla dolcemente. Un’opera sfaccettata, riuscita solo in parte eppure onesta e recitata con garbo.

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NOTE:

[1] Fusaro D., L’inganno dello Smart Working (01-03-2020), radio interv., “Filosofico.net” (IASSP) in collab. con “Radio Radio”, MI-RM 29-02-2020. URL.: https://www.youtube.com/watch?v=em1WG_Cc62E. Ultima visualizzazione: 31-12-2020.

[2] Essi meritano, per complessità e varietà delle forme, da una cinematografia nazionale all’altra, uno studio a parte. Gli esempi non si contano (mi scuserà il lettore se tralascio opere importanti come quelle di Feyder, Renoir, Chaplin), tuttavia non si possono non ricordare L’incrociatore Potëmkin di Ėjzenštejn o Arsenale di Dovženko. Le due orfanelle (1921) di Griffith ci presenta la Rivoluzione Francese come necessaria eppure “sviata da Robespierre verso una nuova e peggiore dittatura, mentre Danton il tollerante, viene esaltato alla stessa stregua di Lincoln il conciliatore” (Bourget, ’85). Viceversa, il tedesco La figlia della notte (‘Der Tanz auf dem Vulkan’, 1920) di Eichberg osserva la Prima Rivoluzione russa (1905) da un’insolita prospettiva: quella del trio di protagonisti Ivan, André e Marie, nazionalisti di ampie vedute che, per la patria, mettono a repentaglio quanto gli è di più caro, saliti all’alta società ma non dimentichi delle radici contadine, invisi tanto ai Monarchici – molli, corrotti e autoindulgenti – quanto ai feroci Bolscevichi. Infine, nel capolavoro La via senza gioia (‘Die freudlose Gasse’, 1925) di Pabst, agghiacciante ritratto della Repubblica di Weimar, la sequenza dell’assalto della folla, stanca dei quotidiani orrori e prepotenze, al lussuoso bordello di Greifer non ha ancora trovato eguali per vigore e tensione.

[3] A sostegno di tale tesi troviamo, fra le pubblicazioni più recenti, Gnerre C., Le radici dell’utopia. L’incompatibilità tra utopia e giudizio cristiano, Solfanelli, Chieti 2015.

[4] Cfr. Giannini G., Segni sul grande schermo:Tentazione dell’utopia’ in AA.VV., «SPECIALinguaggi», riv. on-line (semestr.), N. 3: “Il segno”, Accademia Aliprandi-Rodriguez, Firenze 01/2019.

[5] Si consiglia, per un confronto con Nuevo orden, la visione di Nocturama (2016) di Bertrand Bonello.

[6] Vázquez D., Feste fuori controllo, DeriveApprodi, Roma 2018, III, VIII, X.

[7] Ebbrezza e storia in Türcke C., La società eccitata, Bollati Boringhieri, Torino 2012, V, pgg. 256-260.

[8] Preve C., Appendice ‘D’: Dalla Rivoluzione alla Disobbedienza in Id., Un secolo di marxismo. Idee e ideologie, Petite Plaisance, Pistoia 2003.

[9] Bernardi C., Carnevale, Quaresima, Pasqua. Rito e dramma nell’età moderna (1500-1900), Euresis, Milano 1995, pgg. 13-16.

[10] Per un approfondimento sul tema, si legga Pahl J., Empire of Sacrifice. The religious origins of american violence, NYU Press, NY-LDN 2010.

[11] Su come il carnevale cittadino abbia mutato in periodica contestazione dell’ordine politico e sociale la funzione rituale del carnevale agrario, la lettura di Bachtin (L’opera di Rabelais e la cultura popolare) resta imprescindibile. Per un approfondimento, mi permetto di consigliare la seguente bibliografia: Chiavarelli E., Pellini L., Arlecchino: Dio, Demone e Re (Aseq, 2016); Bernardi C., Teatro e teatralità nel Medioevo in Bernardi C., Susa C., (a cura di), Storia essenziale del teatro (Vita & Pensiero, 2005); Caillois R., Il sacro di trasgressione: teoria della festa in Id., L’uomo e il sacro (Bollati Boringhieri, 2001); Castelli F., Grimaldi P., (a cura di), Maschere e corpi. Tempi e luoghi del Carnevale (Meltemi, 1997); Balandier G., Il disordine si traduce in ordine in Id., Il disordine. Elogio del movimento (Dedalo, 1996); Malafronte U., Car-Naval. Le radici metastoriche di una festa di popolo (Soc. Ed. Barbarossa, 1990); Dini V., (a cura di), Cultura del carnevale e della festa (Il Lavoro Editoriale, 1987); Seppilli T., Trasgressioni rituali e controllo sociale e Cosulich C., Il Carnevale e altre feste rituali nel cinema di finzione in De Martino A. et alii, (a cura di), Il mondo alla rovescia ovvero la trasgressione controllata (Museo del Costume di Nuoro & ‘A.I.C.S.’ di Roma; Maggio-Giugno 1984); Clemente P. et alii., Il linguaggio, il corpo, la festa. Per un ripensamento della tematica di Michail Bachtin (FrancoAngeli, 1983).

[12] Sul mondo del volontariato e del Terzo Settore oggi (tema delicatissimo, e tutto sommato ancora poco esplorato), segnalo Montagna E., Comunità come denaro comanda. Utilità sociale, comunicazione e astrazione del lavoro nel non-profit in Cillario L., Finelli R., (a cura di), Capitalismo e conoscenza, Manifestolibri, Roma 1998, Parte II.

[13] Cfr. Frank Capra, piccolo re della commedia leggera in Ghirardini L.L., Storia generale del cinema. Vol. 2, Orsa Maggiore ed., Milano 1987, pgg. 726-730.

[14] Cfr. Giocattoli in Scaraffia G., Infanzia, Sellerio, Palermo 2013, pgg. 72, 73.

“Fuochi” – L’ultima stagione “reale”? (2019-‘20) – Parte seconda – di Giordano Giannini

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