Dante, la Divina Commedia e Firenze (o La divina commedia illumina Firenze), è un dipinto su tela di Domenico di Michelino, basato in parte su un disegno di Alesso Baldovinetti. È collocato nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, sulla parete della navata sinistra vicino alla porta della Mandorla.

Questo dipinto è uno dei più famosi fra quelli che ritraggono il poeta, ed è storicamente importante, essendo stato commissionato dagli Operai di Santa Maria del Fiore il 30 gennaio del 1465 (e concluso sei mesi dopo) quasi certamente per celebrare il secondo centenario della nascita di Dante Alighieri, il 1265. Quest’anno si celebra il settecentesimo anniversario della morte del sommo poeta (1321), e per questo motivo sarà eccezionalmente possibile ammirarlo molto da vicino; l’Opera del Duomo ha infatti appositamente collocato dei ponteggi, aperti alle visite guidate.

Il dipinto ha molte particolarità che lo rendono interessante: l’immagine non è soltanto rivolta all’esaltazione di Dante, come molte altre pitture e sculture di varie epoche, ma anche della sua opera più celebre, la Divina Commedia, che appare in primo piano nel libro aperto e sorretto dalla sua mano sinistra e nelle immagini sullo sfondo. L’aspetto più interessante di questa composizione, però, è che l’immagine intera fu un pretesto per esaltare la città di Firenze, vista dal pittore come una nuova Gerusalemme: la città dove il poeta era nato, dipinta sul lato destro, contrapposta all’Inferno dantesco sul lato sinistro. È certamente particolare vedere il sommo poeta in quest’ottica “malinconica” nei confronti della propria città natale, dalla quale era stato esiliato, a cui egli guarda da fuori le mura, ma che irradia coi raggi di luce scaturenti dal suo capolavoro: è perciò un dipinto molto ingegnoso, e che divenne subito famoso anche per questo motivo.

Prima di descriverlo meglio, è utile qualche breve accenno storico sul pittore Domenico di Michelino, un fiorentino del XV secolo (1417-1491) il cui vero nome era Domenico di Francesco, ma che assunse lo pseudonimo dal nome del suo primo maestro, un artigiano che lavorava l’avorio chiamato Michelino di Benedetto.

Le notizie sul suo apprendistato nel campo pittorico non sono del tutto siano chiare: Vasari lo indica allievo di Beato Angelico, ma il suo stile riflette maggiormente, secondo gli studiosi, quello di Alesso Baldovinetti e di Francesco Pesellino, coi quali infatti entrò in contatto. Nel 1444 era iscritto all’Arte dei Medici e Speziali, ma fu iscritto anche ad altre importanti compagnie fiorentine, come la Compagnia di San Luca (un gruppo all’interno dell’Arte dei Medici e Speziali specializzato nella promozione di pittori, antesignano dell’Accademia delle Arti del Disegno), e la Compagnia dei Laudesi (o di Orsanmichele). Queste adesioni chiaramente gli furono utili per le commissioni dei suoi dipinti. Fra le opere attribuitegli, menziono lo stendardo processionale per l’Ospedale degli Innocenti (nel ‘500 assai rimaneggiato, ma una delle sue prime opere), la pittura di due angeli in terracotta di Luca della Robbia per il Duomo di Firenze, e gli affreschi per la cappella di San Leonardo nella Chiesa di Santa Maria a Peretola; inoltre, il Trittico con San Francesco, San Bernardino e Sant’Antonio da Padova al Museo di Cortona, e la Madonna col Bambino e i Santi Cosma, Damiano, Giovanni Evangelista e Tommaso nella Chiesa di San Domenico a San Miniato al Tedesco, due tavole all’Accademia di Firenze (una Trinità e Tre Arcangeli), una Madonna dell’Umiltà al Museo del Bigallo. Egli è sepolto nella Chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze.

La pittura commemorativa di Dante per il Duomo di Firenze è stata molto probabilmente la sua commissione più importante, ed infatti è oggi la sua opera più famosa.

Originariamente il dipinto doveva essere un Ritratto di Dante, su un modello di Alesso Baldovinetti (1425-1499, pittore, mosaicista e disegnatore di tarsie e vetrate, autore di dipinti quali una Annunciazione agli Uffizi e restauratore dei mosaici della Cupola del Battistero di Firenze). Il pittore doveva sostituire «una figura dipinta la quale è in forma di Dante la quale vi fu posta più tempo fa per exaltare la fama di detto poeta», con la propria pittura «la quale si è a porre nel luogo dov’è quella di Santa Maria del Fiore» (cfr. C. Frosinini, Testimonianze pittoriche e di arredo tra Duecento e Quattrocento, in La Cattedrale di Santa Maria del Fiore a cura di C. Acidini Luchinat, V. II, Firenze 1995, pp. 193-232, speciatim p. 199). Domenico di Michelino valorizzò molto il modello di Baldovinetti con moltissime aggiunte di sua inventiva: infatti, quest’ultimo, che si fece suo garante per questo lavoro e che si occupò assieme a Neri di Bicci di stimare l’opera, lodò apertamente le molte aggiunte al suo modello da parte del suo assistito: «è agiunto fori di detto modello molte cose le quali nonne aveva a fare che sono di grande difichultà e fori di detto disegno, le quali à fatte per adornezza e belleza di detta fighura e dipintura» (Idem, pp. 199-200). Per questo motivo il dipinto alla fine fu addirittura pagato più del pattuito, un fatto certamente raro non solo a quei tempi, ma in ogni epoca.

Nell’immagine osserviamo il sommo poeta in primo piano con in mano il libro aperto della Divina Commedia, con l’incipit del suo poema: Nel mezo del chamino di nostra vita mi ritrovai per una selva scvra [ecc…]. Dietro di lui, si dispiega un paesaggio allegorico, una fantasia di colori e personaggi: a sinistra l’Inferno, caratterizzato da un’ampia porta conclusa in alto da una merlatura guelfa, dietro la quale avanza una processione di demoni e dannati. Al centro, dietro la figura di Dante, coronato d’alloro (simbolo di sapienza e di gloria), un paesaggio arido, dietro il quale scorre dell’acqua alla base della montagna del Purgatorio. Anch’essa ha un portone coronato da una merlatura, stavolta chiuso e dorato, davanti al quale siede un angelo con la spada, e procedono in preghiera le anime che attendono umilmente di poter iniziare il loro cammino. Sulla montagna salgono i penitenti col loro fardello. Essa è suddivisa in sette cornici, dove hanno luogo le varie penitenze per i vizi capitali, in ordine dal più pesante (superbi, sui quali gravano enormi massi) al più lieve (lussuriosi, che camminano sul fuoco, in questo caso è raffigurato il fuoco); sopra il muro di fuoco, si trova il Paradiso Terrestre, caratterizzato dalle figure di Adamo ed Eva.

Sopra alla montagna del Purgatorio sono dipinti otto dei nove cerchi del cielo danteschi: dal basso verso l’alto, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e le Stelle Fisse. Sopra a questi cerchi si troverebbe, secondo la visione dantesca (derivante da Tolomeo), il Primo Mobile, ovvero la più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico, cristallina e senza astri, quella che mette in moto i pianeti; a questa seguirebbe, in Dante, la descrizione dell’Empireo, immobile, centro dell’Universo e sede degli angeli, a sua volta suddiviso in nove cerchi, anch’esso non dipinto. Il Primo Mobile dantesco non è raffigurato molto probabilmente perché il pittore aveva poco spazio a disposizione (anche le Stelle Fisse sono infatti dipinte soltanto nell’angolo in alto a sinistra). Va detto che la raffigurazione con otto cerchi delle sfere celesti non è comunque “sbagliata”: riflette la concezione aristotelica del cosmo, antecedente a quella di Tolomeo, che si concludeva con le stelle fisse. Sulla destra, illuminata dalla Divina Commedia sorretta da Dante, è celebrata Firenze, chiusa dalle alte mura, dietro le quali appaiono le cime dei suoi principali edifici: da sinistra a destra, la torre del Bargello, il campanile della Badia Fiorentina, e la grande Cattedrale di Santa Maria del Fiore, sulla quale svetta la Cupola di Brunelleschi; più a destra, il Campanile di Giotto. Dietro la Cattedrale si intravede la Torre del Palazzo della Signoria, e un campanile di una chiesa non precisata (Francesco Gurrieri propone quello della distrutta Chiesa di San Pier Scheraggio, cfr. F. Gurrieri, Domenico di Michelino. Dante, la “Divina Commedia” e Firenze, Firenze 2017, p. 15). Sono da notare i raggi di luce che emana il libro aperto, che colpiscono la Cupola di Brunelleschi, all’epoca del dipinto da poco conclusa con la lanterna costruita da Antonio Manetti (nel 1461), ma ancora non del tutto, perché mancava la palla di Verrocchio e la soprastante croce dorata, issata il 27 maggio 1471, che il dipinto però già mostrava quasi perfettamente nelle sue forme attuali (eccetto la croce, oggi non trilobata).

Firenze è qui celebrata come patria del poeta, una vera e propria glorificazione della città; una città che nel 1465 era nel periodo del suo maggiore splendore, economico e politico, ed anche artistico, alle origini del Rinascimento. Con questo dipinto Domenico di Michelino la esalta agli occhi di tutti, tramite uno dei propri cittadini più illustri, in un luogo, il Duomo di Firenze, che in quel periodo si stava connotando sempre più come luogo di celebrazione di cittadini illustri, con la sepoltura di Filippo Brunelleschi in Duomo nel 1446 e il busto dedicato alla sua memoria nell’anno seguente, di Andrea di Lazzaro Cavalcanti detto il Buggiano (figlio adottivo di Brunelleschi). Basate sugli stessi motivi sono le solenni celebrazioni alla memoria di Giotto che vennero fatte pochi decenni dopo, nel 1490, con il medaglione celebrativo di Benedetto da Maiano.

Quello di Domenico di Michelino è dunque un dipinto molto interessante, oltre che pregevole; ma Dante lo avrebbe apprezzato? La risposta non è semplice: probabilmente, considerare Firenze come il luogo di fede cristiana per eccellenza contrapposto all’Inferno, Dante non sarebbe d’accordo. Tuttavia, pur apostrofandone la decadenza, alla sua epoca Dante rivolse sempre la sua attenzione e il suo amore a Firenze, fra nostalgia e polemica. La rimproverò infatti aspramente nel canto ventiseiesimo dell’Inferno, ma elogiò grandemente la Firenze antica nel canto quindicesimo e sedicesimo del Paradiso, tramite le parole del trisavolo crociato Cacciaguida degli Elisei (1091 circa- 1148 circa). Quella Firenze, come afferma Cacciaguida, era in pace, moderata nei bisogni e onesta nei comportamenti, giusta e onorevole, senza opulenze esagerate, con poca delinquenza, senza discordia, nella quale i valori etici e di condotta morale della nobiltà non erano ancora stati offuscati dall’eccessivo materialismo della borghesia mercantile. Una Firenze più locale e priva di quella grande fama che aveva già al tempo di Dante, una fama in parte decadente contro cui Dante inveiva, scrivendo nel canto ventiseiesimo dell’Inferno che la fama della città era tale che si stava espandendo anche all’Inferno. È impossibile dire con certezza se Dante avrebbe apprezzato completamente la città del primo Rinascimento fiorentino dove viveva Domenico di Michelino (in parte certamente si, in parte no, soltanto Dante potrebbe dirlo), ma sono convinto che il dipinto di questo pittore fosse un invito ai fiorentini al ricordo di quella Firenze a cui guardava Dante, ovvero al ricordo delle sue parole riguardo alla vecchia città di Firenze, in quel periodo in cui la stessa stava continuando la sua ascesa nell’Olimpo della fama e dell’opulenza europea. Un monito a tener presenti i vecchi valori per rendere veramente “grande” Firenze. In tal modo apparirebbe una raffigurazione molto opportuna nei confronti del grande poeta fiorentino, precisa e profonda, una vera e propria esaltazione del pensiero dantesco ed un monito ai fiorentini. Non a caso, nell’immagine proposta dell’artista, la Divina Commedia sorretta da Dante Alighieri illumina la città, ed in particolare proprio la Cupola di maestro Brunelleschi, un vero capolavoro di “virtù e conoscenza” ma anche un edificio cristiano: Dante riteneva infatti l’ingegno un dono di Dio che doveva essere però guidato dalla virtù cristiana e non dalla ricerca delle cose vane. Era quella città che Domenico di Michelino e Dante volevano indicare ai fiorentini, ed è a quella città che Dante guarda nel dipinto: una città del “Rinascimento”, ma non perché grande e bella, ricca e famosa; il loro era un auspicio ad un rinascimento cittadino non di facciata, ma con gli “antichi” valori dell’onore, della giustizia e della concordia, che sviluppasse quelle virtù e conoscenze tanto care a Dante. È un messaggio che in questo settecentenario dalla morte del grande poeta fiorentino appare sempre attuale.

Domenico di Michelino e la sua celebrazione di Dante e di Firenze – di Fabrizio Bianchi

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