Sono passati poco più di tre mesi da quando l’aggressione militare della Federazione russa contro l’Ucraina ha fatto ritornare lo spettro e l’incubo della guerra sull’intero continente europeo, con tutto il suo drammatico carico di morte, distruzione, dolore. In effetti, lo shock per l’opinione pubblica ha di fatto riproposto come esercizio quotidiano le immagini di conflitti che si ritenevano confinati solo in continenti e territori lontani dalla nostra dimensione, anche perché per decenni siamo stati cullati dalla narrazione di un’Europa che, proprio in virtù del suo pur difficoltoso e non sempre coerente processo unitario, dal secondo dopoguerra si riteneva al riparo da eventi catastrofici, ormai consegnati ai libri di storia. Chi non ricorda la ricorrente sottolineatura degli oltre “sette decenni di pace” assicurati all’Europa dall’unione politica del continente, dopo i lunghi secoli di sanguinose lotte fratricide? Una mezza verità, anzi per dirla tutta, una illusoria e consolante “non verità”, pensando agli anni ’90 del secolo scorso, all’assedio di Sarajevo, al massacro di Srebrenica con i Caschi bianchi olandesi dell’UNPROFOR colpevoli e passivi spettatori dell’orrendo genocidio operato dalle truppe del generale serbo Mladic… Troppo spesso le società e le istituzioni democratiche hanno chiuso gli occhi, in omaggio ad una improbabile real politik mentre si accumulavano le crescenti contraddizioni derivanti da scelte che non avevano il coraggio di mettere in discussione i meccanismi che sono all’origine delle contraddizioni e dei conflitti. Certo, l’Ucraina è il caso più eclatante perché si svolge alla porte di casa nostra, sul continente europeo, ma come possiamo dimenticare gli oltre 60 conflitti che OGGI si svolgono nel mondo, a cominciare dai numerosi focolai del devastato medio oriente, teatro del confronto israelo/palestinese, del martirio della Siria, della perdurante presenza dell’Isis nel teatro iracheno, dello storico dramma dei curdi, un popolo senza patria, da sempre disperso e combattuto da Turchia, Irak e Iran? Per non parlare del continente africano, dalla Libia in preda alla totale anarchia, con i giacimenti petroliferi oggetto del confronto tra diversi Stati, dalla Russia all’Egitto, dalla Turchia alla Francia e perché non dirlo, anche dal nostro Paese, per continuare con la guerra fratricida tra l’Etiopia e la regione del Tigrè, la guerra civile nel Congo, in Somalia, la Jihadd nel Niger e nel Mali… e infine, per non farci mancare nulla, i bagliori di guerra annunciati sul teatro indo-pacifico nel confronto Cina – Usa… Il tutto – e tra le due cose c’è un rapporto strettissimo – mentre la salute della Terra ha ormai raggiunto il punto di non ritorno e nulla ci fa intravvedere segnali di una inversione di tendenza rispetto a quello che si configura come un vero e proprio suicidio del genere umano. Di fronte a questo scenario, lo scoramento è più che giustificato ma proprio in virtù della gravità, vorrei dire della definitività di questa situazione, appare evidente che ci troviamo, tutte e tutti, nella condizione di mettere in campo un impegno per contrastare quello che pare configurarsi come un esito, un destino ineluttabile. E sono più che mai convinto che un ruolo primario in questa direzione possa e debba essere svolto da quanti operano nel vastissimo oceano della CULTURA, di quella dimensione che ha consentito al genere umano di sviluppare la propria egemone presenza sulla Terra e i cui comportamenti individuali e collettivi – paradosso estremo – hanno una primaria responsabilità rispetto alla drammatica condizione del tempo nostro al punto da metterne in discussione la stessa sopravvivenza sul pianeta. Una sfida, questa, che chiama in causa anche una istituzione, uno spazio di libertà e di cultura come la nostra Accademia che, ne sono convinto, saprà essere pari all’impresa.

Parole sulla guerra – di Enrico Paissan

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