Immagine di copertina: Papiro della Bibbia in lingua greca, da Pixabay

Abstract

Questo mio contributo ha origine da una relazione, che ho tenuto nella mia città natale sotto il patrocinio del Comune di Piombino[1]. Si intende riflettere sul calo di iscrizioni negli indirizzi classici verificatosi soprattutto a partire dal Duemila e ancora in corso, evidenziando alcuni paradossi e luoghi comuni frequenti nelle argomentazioni a sostegno o a sfavore degli studi classici.

Senza avere la pretesa di essere esaustivo, l’articolo richiama a sostegno dell’apprendimento del latino e del greco ricerche neurolinguistiche e cognitive, mettendo tuttavia in guardia da semplificazioni didattiche e da pericolose e superficiali proposte di interdisciplinarità e cercando di mettere in evidenza oggettivamente i punti di forza e le finalità degli studi classici, non ascrivibili ad una società, a un’epoca o a una ideologia, ma assolute.

Libro antico in latino, da Pixabay

Introduzione

Nel titolo ho richiamato, volutamente e, almeno in parte, provocatoriamente, un successo editoriale di questi ultimi anni: La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco di Andrea Marcolongo[2]. Tale successo di vendite, in modo paradossale, si scontra con la diminuzione ancora in atto del numero degli studenti che si iscrivono al liceo classico, come se, di fronte a un’apprezzata ‘genialità’ del greco, i giovani preferissero scegliere ‘altro’, evidentemente per motivi che si discostano dal perseguire obiettivi di ‘eccellenza’ culturale o di sviluppo di capacità linguistiche, di ragionamento e di analisi: a meno che non si sottintenda che la lingua greca è geniale in sé e per sé, per le sue caratteristiche intrinseche, ma non lo è altrettanto il dedicarsi al suo apprendimento.

Dagli ultimi dati il numero delle iscrizioni al liceo classico è rimasto pressoché stabile[3], dopo una debacle avutasi soprattutto all’inizio del Nuovo Millennio, ma la questione è stata di nuovo portata all’attenzione della critica a causa della chiusura del Dipartimento di Studi Classici della Howard University, prestigiosa università americana, che ha deciso di abolire nel 2021 lo studio dei classici antichi[4].
E se i contenuti di quella mia conferenza ormai datata sono ancora attuali, se si continuano a pubblicare libri e articoli sull’argomento della crisi e, per converso, dell’importanza delle ‘lingue classiche’’ ma anche della loro inutilità pragmatica, occorre ammettere la poca efficacia delle politiche scolastiche degli ultimi decenni rivolte ai licei che prevedono un corso di latino e/o di greco, politiche che hanno mancato di promuovere momenti di riflessione metodologica e di interdisciplinarità non tout court, ma volti a evitare «una a-disciplinarità con le conseguenze fallimentari che ne possono derivare»[5], promuovendo collegamenti tra i linguaggi.

Infatti da molti anni la cultura scientifica offre molte più occasioni di lavoro, di realizzazione economica, e soprattutto per questo, per ciò che è definibile ‘il criterio del profitto’, essa viene considerata più utile e attuale di quella umanistica in generale e di quella antica in particolare, al di là di una retorica comune di superficie, e prevalentemente teorica, che sostiene l’uguale importanza di tutte le discipline[6].

Tuttavia l’idea della conquista di una nuova dimensione olistica dei Saperi, in accordo con una rinnovata concezione olistica dell’uomo, ha sempre suscitato un fascino particolare e credo che sia importante riflettere sulle modalità migliori per perseguire una formazione, che tenga conto del fatto che l’essere umano è sempre stato, e almeno per adesso continua a essere, un sinolo tra anima e corpo, tra razionalità ed emozioni: per questo anche i cosiddetti Saperi, sebbene disciplinarmente distinti, devono poi essere ricondotti, nella formazione della persona, a una unità interrelata, che può esistere in modo soddisfacente solo in un futuro a misura d’uomo e non a misura di “tecnologie”. Da questo, forse, nasce

«[…] l’attenzione pedagogica rivolta al passaggio dai saperi cristallizzati e standardizzati, di stampo comportamentista-cognitivista, a una nuova dimensione di matrice olistica, che li interpreta come fluidi e interrelati […]»[7]

Questa capacità di riflessione inizia necessariamente da un dialogo tra le discipline e alla base di ogni dialogo efficace si rende necessaria una capacità comunicativa e un linguaggio condiviso che sia scientifico, settoriale, ma anche chiaro, efficace e comprensibile a tutti.

Per questo la sensibilità ai linguaggi, la conoscenza adeguata della terminologia specifica di ogni “sapere”, la sua propria semantica, la consapevolezza di uno spessore diacronico della lingua, dell’etimologia delle parole sollevano anche un’esigenza di ‘competenza linguistica’, che dovrebbe essere maggiormente valorizzata, curata, esercitata sin dall’inizio del percorso di apprendimento scolastico, sensibilizzando gli studenti alla precisione nell’uso corretto dell’italiano disciplinare.

Le dicotomie e le semplicistiche contrapposizioni tra discipline risultano, quindi, sterili e insensate: le lingue classiche, in quanto portatrici di apprezzati elementi di ‘genialità’, tornando al libro di Andrea Marcolongo, amalgamano, riuniscono, sono formative senza distinzioni di settore, migliorano la capacità logica, ma anche la capacità linguistica, morfologica, sintattica e semantica, la competenza comunicativa nella lingua italiana, insegnano a parlare e a scrivere meglio grazie all’esercizio proprio del processo traduttivo.

Così il motivo per cui la parola “geniale” ha così colpito i lettori del libro di Andrea Marcolongo può essere legato anche al significato latino del termine genialis, derivato da genius, «genio».
Il vocabolo ha un’etimologia molto particolare, poiché si connette direttamente al nome proprio «Genio, un’antica divinità benefica […]» romana, e può essere inteso come qualcosa «che è conforme alla propria intelligenza e carattere»[8].

Insomma la genialità, se si guarda all’etimologia, consiste soprattutto nell’essere ‘formato’ in modo tale da poter ottenere risultati insperati ed eccezionali sulla base delle proprie qualità di partenza: si può pertanto giungere a sostenere che le lingue classiche sono “geniali”, anche perché favoriscono lo sviluppo autonomo e al più alto grado della persona umana, del carattere, dell’intelligenza, della sensibilità, al fine di farle raggiungere la massima realizzazione delle sue potenzialità.

Se interpretato in questo modo, il termine “geniale” assume un senso leggermente diverso da quello cui allude, probabilmente, il titolo del libro: l’oggetto della genialità in questo mio articolo non è più la lingua classica in sé, che diventa solo un mezzo per imparare a comunicare meglio e per apprendere nuovi concetti, ma l’uomo che la studia e che ne scopre i meccanismi interni, i segreti semantici, le etimologie e la struttura morfologica e sintattica, la quale, essendo per lo più simile all’italiano, diventa uno strumento efficace di interpretazione più profonda della realtà e di interazione.

Le lingue classiche negate: cui prodest?[9]
Assistiamo ancor oggi a quello che Martha C. Nussbaum più di vent’anni fa[10] ha definito una «silenziosa crisi» degli studi umanistici[11], che testimonia una «perdita di ruolo»[12] a favore di studi più ‘scientifici’ e ‘tecnici’: è chiaro che si è mantenuta inalterata una sorta di logica distruttiva, che si basa su un modello cognitivo ridotto ai minimi termini, semplificato al punto tale, che spesso si riduce a una superficiale proporzione tra la scelta dei percorsi di studio e lo sviluppo economico di un Paese: come se il numero degli studenti che optano per percorsi ‘scientifici’ e ‘tecnologici’ potesse essere direttamente proporzionale alla possibilità di crescita del Prodotto Interno Lordo di una nazione.

Non è così[13]. La distinzione tra le discipline è, innanzitutto, un’invenzione moderna, sconosciuta nell’Antichità: tutti i saperi nascono unificati sotto una base cognitiva unica, che sottende comuni meccanismi di logica, di comprensione, di memorizzazione, di problem solving.

Per questo Amartya Sen, economista, incentiva a non privilegiare la scelta di discipline «strettamente funzionali alle innovazioni tecnologiche»:[14] l’istruzione non deve essere asservita al profitto, ma deve essere pensata per la costruzione di un cittadino caratterizzato da onestà intellettuale, lucidità di giudizio, capacità critiche, capace di sfruttare le sue potenzialità, sia logiche sia creative, al massimo grado, al fine di potersi adattare meglio ai ritmi di un’evoluzione dei sistemi economici, tecnologici e sociali sempre più vertiginosa:

« […] Cultura umanistica e cultura scientifica condividono pedagogicamente una intenzionalità formativa che si realizza […] nella possibilità, da parte dell’uomo, di comprendere […] in modo critico e riflessivo sé stesso e il mondo fuori di lui, per garantirgli in esso una partecipazione attiva e trasformativa. […] Ciò significa rintracciare e promuovere costantemente la dimensione umanistica della cultura scientifica e, parallelamente, la dimensione scientifica della cultura umanistica»[15].

Pertanto la datata distinzione tra le “due culture”, quella umanistica e quella scientifica, questione posta, a quel che mi risulta, per la prima volta nel 1959 da Charles P. Snow, cui si aggiunge sempre di più la cultura tecnologica, sta oggi alla base del problema della frantumazione del Sapere in una miriade di discipline e successive micro-articolazioni delle stesse, che stanno alla base, a loro volta, della creazione di micro- percorsi di studio e apprendimento: questi ultimi rischiano di essere dispersivi a causa della loro composizione eterogenea, che spezza la conoscenza in parti piccolissime, creando una sorta di ‘formazione centripeta’, foriera di competenze molto diversificate tra loro, specifiche, ma meno approfondite, che non agevolano i collegamenti, le connessioni tra i saperi, cosa che rende le competenze finali difficili da sfruttare nei percorsi sia universitario, sia lavorativo.
Occorre richiamare quello che, ancora una volta più di vent’anni fa, aveva osservato la cosiddetta Commissione dei saggi, che aveva cercato un minimo comune denominatore dei Saperi stessi, al fine di organizzare una formazione, che fosse ben incardinata sui principi dei Saperi di base, e volta a ricreare quell’unione, che si è rotta, all’incirca nel XIX secolo, con la divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica: è “innaturale” pensare a ‘emozioni e sinapsi’ in termini distinti, in quanto ambedue sono parte di uno stesso sistema[16], all’interno del quale un punto in particolare accomuna gli studi classici e quelli scientifici da sempre: l’uso specifico della lingua e delle strutture linguistiche e l’uso della logica presente al loro interno.

Lo stesso Albert Einstein, nella sua autobiografia, ricorda il legame assoluto tra parole, concetti, pensiero e interpretazione della realtà[17]: una riflessione, che chiarisce come la ricchezza della lingua crei la ricchezza del pensiero e, a sua volta, la ricchezza del pensiero offra maggiori potenzialità per la comprensione del mondo e dei suoi cambiamenti e la capacità di comunicare e interpretare i fenomeni che accadono intorno a noi in modo preciso ed esaustivo.

D’altro canto si insiste nel dire che l’epoca post-moderna, o ultra-moderna, come alcuni la definiscono, risulta per certi versi incompatibile con la cultura classica, in quanto è venuta meno la capacità di un ragionamento logico, che spesso necessita di lentezza, per essere corretto e completo e che si è perso il senso della Storia: lapsus pericoloso, che crea associazioni di pensiero spesso decontestualizzate e fuorvianti[18].

L’immagine di George W. Bush vestito da imperatore romano, icona presente in alcune vignette satiriche, è esemplificativa:[19] si richiama in questo caso un’associazione superficiale tra eventi storici, non supportata da una ricerca oggettiva. In un tale contesto di superficialità dilagante anche lo studio dei classici rischia di essere percepito come mero ornamento, come afferma ancora Martha Nussbaum[20].

Ma anche arroccarsi sulla sponda opposta del dibattito teorico e vedere nel ‘classicismo’ una sorta di egida, che si pone al di sopra di altre discipline e di altri studi è ugualmente pericoloso e fallimentare in un mondo globale in continuo mutamento, in cui l’essere umano deve saper usare non solo la capacità critica, l’empatia, la sensibilità, ma anche le conoscenze tecnologiche, scientifiche, matematiche, informatiche senza le quali oggi è difficile sentirsi cittadino non solo del mondo, ma anche del proprio Paese.

Ma proprio in quanto lo studio del classico, e delle lingue classiche, possiede la capacità di costruire basi di ragionamento più solide e più archetipiche nel nostro intelletto, sulle quali incardinare gli studi cosiddetti scientifici, potrebbe veramente essere visto in maniera non contrappositiva rispetto alla tecnologia e alle scienze, come implementazione e supporto delle stesse, per migliorare le performances derivanti da studi diversi e più “tecnici”, rivalutato come humus sul quale sviluppare più efficacemente anche competenze di tipo tecnologico e scientifico.

Siamo tutti d’accordo nel dire che la cultura classica e in special modo quella latina costituiscano le radici della civiltà occidentale e servano anche, di conseguenza, per agevolare la costruzione di una cultura europea

Neuroscienze e studio dei classici

A questo proposito già in un mio articolo del 2007, pubblicato sulla rivista Pragma edita da Il Mulino, motivavo, attraverso l’apporto di ricerche sperimentali sul funzionamento del cervello, la validità cognitiva dello studio del latino e del greco, non per «sostene[re] il primato […] sulle altre discipline che, come si è detto, è un anacronistico e assurdo errore di valutazione, un falso paradigma, ma per dimostrare scientificamente che lo studio delle lingue e dei testi cosiddetti “classici” è “diversamente necessario”» e incredibilmente utile, sebbene non direttamente[21].

Infatti, le reti neuronali coinvolte nella comprensione e nella produzione linguistica si sviluppano e si ampliano in modo veloce almeno fino all’età adolescenziale, proprio fino al periodo della frequenza delle scuole medie e di gran parte delle superiori.

Se è vero che un linguaggio serve soprattutto per comunicare e per mettersi in contatto reciproco e con il mondo, non dobbiamo dimenticare che oggi vi sono vari modi e mezzi di comunicazione: non esiste più solo il linguaggio verbale[22], ma molti altri tipi di linguaggio, come, e sono solo alcuni esempi, e-mail, chat, social network, piattaforme informatiche, che veicolano messaggi video e audio, fino ad arrivare alla cosiddetta realtà aumentata e ad altri sistemi di trasmissione delle informazioni, che trovano la loro applicazione in diversi settori lavorativi:

«[…] la comunicazione è cosa che non riguarda unicamente la parola e […] col termine linguaggio è da intendere la capacità espressiva umana in senso lato»[23].

Tutto questo comporta una capacità di utilizzo e di comprensione non solo delle nuove tecnologie, ma anche di linguaggi tecnici specialistici, che possano permettere una comunicazione efficace e una trasmissione del pensiero profonda, che si svolge non più solo secondo canoni tradizionali, ma attraverso molteplici canali: orientarsi a seconda del sistema utilizzato è essenziale per ottenere dei risultati comunicativi chiari, consapevoli, efficaci, durevoli e il più possibile privi di interferenze.

È infatti dimostrato che il periodo di massimo apprendimento verbale è collocato nei primi tre anni di vita, ma continua almeno fino alla maturità sessuale, mentre l’apprendimento del lessico prosegue per tutta la vita[24].
Quindi l’apprendimento corretto del lessico e delle strutture della propria lingua è particolarmente importante fino all’età adolescenziale, quando il cervello umano è capace di rimodellarsi più facilmente e svilupparsi, attraverso, come direbbe Piaget, un processo di assimilazione e di accomodamento: per mezzo della riflessione e dell’imitazione le strutture neuronali umane sono, in quegli anni, più pronte a reagire agli stimoli linguistici.

L’uomo che ‘possiede’ un maggior numero di parole e le sa utilizzare al meglio diviene, quindi e paradossalmente, più capace di gestire se stesso, di essere consapevole e padrone del suo mondo e del suo destino: la rappresentazione linguistica influisce sulla rappresentazione della realtà che ognuno elabora[25].

Si è appurato, inoltre, che la lingua parlata attiva soprattutto i neuroni dell’emisfero sinistro, mentre la ricerca semantica e del significato delle parole stimola maggiormente l’emisfero destro.
Si spiega, così, come durante l’attività di traduzione di qualsiasi lingua, sia classica sia moderna, si attivino ambedue gli emisferi contemporaneamente e che quelle che vengono chiamate lingue morte, il greco e il latino in questo caso, da un punto di vista cognitivo siano a tutti gli effetti come lingue vive.

Inoltre i contrasti fonologici durante lo studio di una lingua seconda attivano le stesse aree cerebrali di quando si produce o si legge la lingua madre e l’apprendimento delle lingue classiche innesca continuamente un transfert cognitivo, che aiuta il parlante a ridurre gli errori e ad ampliare le sue competenze lessicali nella lingua madre: secondo il Grande Dizionario dell’Italiano dell’Uso, curato da Tullio De Mauro, nel linguaggio quotidiano «si contano almeno trentacinquemila latinismi»[26].

Nell’apprendimento delle lingue moderne, invece, questa attività cerebrale è comprensibilmente meno intensa, in quanto lo scopo principale è quello della produzione orale e la ricostruzione e analisi morfologica e sintattica nelle lingue classiche è palesemente più complessa rispetto a quella nelle lingue moderne.

La conoscenza del latino e del greco, infatti, si fonda soprattutto su procedure di problem solving e va al di là dell’uso per scopi immediati e pratici, tipico delle lingue parlate[27].
Andando oltre, in una dimensione più teoretica, la traduzione dei classici, e lo sforzo di comprensione che si attua in essa, è anche un grande atto di libertà spirituale, svincolato da qualsiasi interesse pratico e utilitaristico: esso è un puro atto di cultura, tanto che tale attività

«[…] evoca un lascito non solo storico, cultuale e linguistico ma anche simbolico: si scrive «latino», ma si legge «italiano, storia, filosofia, sapere scientifico e umanistico, tradizione e ricchezza culturale». […] è il tramite che – oltre Roma – ci collega a Gerusalemme e ad Atene, l’eredità che ci possiamo spartire, la memoria che ci allunga la vita. È un’antenna che ci aiuta a captare tre dimensioni ed esperienze fondamentali: il primato della parola, la centralità del tempo, la nobiltà della politica.»[28]

L’habitus critico complesso che si forma può essere utile in qualsiasi contesto, anche non scolastico, per risolvere situazioni problematiche, che la vita ci presenta continuamente, in special modo in un sistema sempre più globale, ma anche extra-globale, virtuale.

Inoltre tale valenza, che senza alcun dubbio è propria anche di altre discipline, si carica per noi europei di un valore storico, linguistico, filosofico[29], che aiuta a formare una personalità completa e non sradicata da un passato, che è necessario ancor più oggi, in un mondo destabilizzante e con pochi punti di riferimento certi.

Infine il tradurre le lingue classiche sviluppa una maggiore capacità di concentrazione, che risulta più difficoltosa nelle nuove generazioni, a causa soprattutto della scansione veloce e automatizzata degli input tecnologici e della assuefazione ai linguaggi visivi, che prevalgono sull’esercizio di astrazione, di elaborazione e memorizzazione dei contenuti

L’uso delle nuove tecnologie, svincolato da una mirata attività di riflessione e di lettura, tende, quindi, a instaurare abitudini mentali rigide, legate a procedimenti imitativi, a meccanismi di “stimolo-risposta”, che risultano svincolati da processi più complessi di problem solving: ancora oggi il computer non riesce a tradurre correttamente una proposizione latina e tanto meno greca[30].

Le Cariatidi, da Pixabay

Il continuo feed-back tra lingua prima e lingua seconda è utile anche per abituare lo studente a riconoscere gli errori procedurali e diventare autonomo[31].
Così i classici salvano indirettamente anche dal pericolo di un pensiero acritico, superficiale, illogico e pericoloso, “unico”, poiché oggi, come riflette ancora Ivano Dionigi, viviamo quotidianamente

«da una parte il massimo di comunicazione, dall’altra il minimo d’intesa e di comprensione. Viviamo in un’epoca nella quale abbiamo perso il significato vero delle parole, anzi spesso ci accontentiamo delle parole […] e ci dimentichiamo del bisogno di parlare bene […]»[32]

e di avere una grande possibilità: quella di vivere sapendo leggere la nostra realtà nel modo più profondo e oggettivo possibile.

Per un nuovo classicismo

Proseguendo la nostra riflessione, occorre anche tenere presente che non esiste un concetto assoluto di “classico”.
Ogni epoca ha la sua idea di classicismo[33], necessariamente diversa dalla nostra età di trasformazioni tecnologiche veloci, di comunicazioni virtuali e di complessa ‘globalizzazione’ nelle sue varie forme[34].

Anche per questo un classicismo e un apprendimento delle discipline classiche, se proposto secondo vecchi modelli, difficilmente può funzionare come una volta, anche a livello cognitivo-semantico, oltre che motivazionale[35].

Occorre adeguare almeno in parte i metodi di insegnamento, di trasmissione dei saperi classici, rendendoli più fruibili e utilizzabili in questa nostra società post-moderna e alter-moderna[36].
Quindi, pur considerando l’opportunità di rivalutare, per i motivi suddetti, lo studio della lingua e della cultura sia latina sia greca, al fine di formare cittadini più consapevoli delle loro potenzialità, più resilienti cognitivamente, più preparati linguisticamente e a livello comunicativo e più capaci, quindi, di analizzare e interpretare in maniera corretta una realtà in continuo movimento, occorre anche, a livello scolastico e universitario, cercare un metodo di trasmissione di tali saperi, che sia diverso dal passato, che si adegui maggiormente agli stili cognitivi di oggi, che sia adeguato al mondo attuale e non percepito come appartenente a un mondo diverso e ormai lontano: è necessario un nuovo paradigma, al fine di non compiere un grave errore di misura, proponendo una didattica non più funzionale al mondo che stiamo vivendo, alle nuove generazioni, che causa da una parte una grave perdita di potenzialità intellettive ed ‘umane’, dall’altra un indebolimento di questo percorso di studio, che si pone in primis come una scelta autonoma del discente e delle famiglie.

Se riusciremo a superare, anche nei contenuti dei programmi ministeriali e nella metodologia, una impasse oramai pluri-decennale, che si concentra sullo studio della grammatica più che sui concetti, sulla costruzione linguistica, più che sul senso profondo del pensiero di un autore, allora probabilmente, e quasi naturalmente, il classico tornerà a essere non solo in Italia, ma anche in Europa, indistintamente, alla base di insegnamenti umanistici e scientifici, proprio in quanto, senza alcune competenze linguistiche, si rischia di perdere quel collante cognitivo e storico, che, solo, può riunire tutte le discipline e rendere accessibili i vari saperi.

Questo non significa trascurare la grammatica greca e latina o la loro traduzione, che sono basilari, ma cercare di integrarli in un sistema di riflessione linguistica e culturale ampio, che fa capo alla lingua madre. Occorre realizzare un «processo di straniamento»[37], una distinzione ragionata tra la nostra realtà e quella del passato, senza dimenticare, tuttavia, che il nostro passato, la nostra storia culturale e linguistica[38], sono ancora alla base di concetti filosofici, giuridici, artistici, letterari, di cui è impossibile fare a meno, in quanto ancora archetipicamente condivisi e non rimpiazzabili da saperi solo tecnologici[39].

Come sottolinea Ivano Dionigi, la cultura classica costituisce anche un modo, forse l’unico, di interrogare in modo più profondo e preciso l’importante patrimonio archeologico, che fu un tempo dell’impero di Roma caput mundi[40], ma anche di interrogare la nostra stessa lingua. Inoltre i linguaggi stereotipati e il cosiddetto analfabetismo di ritorno, come lo chiamava De Mauro, il fatto stesso che i massmedia in generale ormai siano veicolo di una lingua priva spesso di colore, varietà, consapevolezza linguistica, carenti di un lessico ricco, che la lingua italiana può e deve mantenere, fanno sì che il latino, ma anche il greco, possano essere banalmente strumenti per imparare meglio l’italiano, per comprenderne nel profondo i vocaboli, per applicare correttamente le costruzioni morfologiche e sintattiche, sia alla lingua scritta sia a quella parlata, che serve anche ad apprendere più velocemente e correttamente le lingue straniere.

Sfrondare la grammatica normativa, tradurre gli autori maggiori e far leggere le loro opere anche in italiano, con il supporto del testo originale a fronte[41], potrebbe essere una scelta necessaria, in cui, però, la quantità delle letture originali e la qualità delle traduzioni devono andare di pari passo.

Gli autori latini e greci allora, come diceva Seneca[42], potranno diventare veramente degli amici con cui dialogare anche per gli studenti di oggi.
Tullio De Mauro, autore dell’introduzione al saggio della Nussbaum citato, mette in evidenza quanto poco gli italiani abbiano saputo conservare e apprezzare questo patrimonio culturale e linguistico, che ci è giunto attraverso i testi classici latini e greci: ci ricorda che, ad esempio, in Cina, Giappone, India, Paesi Arabi e Israele la conoscenza delle specifiche lingue antiche, cinese e giapponese classici, sanscrito, arabo ed ebraico, è considerata importantissima e praticata nelle scuole come base di tutta la cultura di quei popoli.
Da questi paesi provengono anche moltissime scoperte scientifiche, tecnologiche, informatiche, della fisica e di altre discipline, che sono di altissimo livello.

Conclusioni: chi ha paura del Classico?

È noto e verificabile: i più grandi scienziati e fisici, matematici e inventori del passato, ma anche molti studiosi, poeti, scrittori e personalità famose ancora in vita, hanno appreso il latino e il greco e hanno avuto una formazione classica.

Oggi, come abbiamo scritto all’inizio di questo contributo, i giovani tendono a scegliere indirizzi di studio, in cui non sono richieste ore e ore di traduzione col vocabolario e un impegno non prevalente della memoria, ma di differenti tipologie di energie cognitive, spesso sovrapposte e unite in quel complesso processo traduttivo, che porta ad una comprensione corretta e completa di un testo classico.

Non molti anni fa, anche nella mia cittadina di provincia, chi tra i figli di operai che, come me, avevano innato l’amore per la lettura e la propensione per la grammatica e per la lingua italiana, sceglieva, anche con sacrifici economici notevoli a causa del maggiore costo dei libri di testo e degli sbocchi non immediati nel mondo del lavoro, di frequentare il liceo classico, lo faceva con dedizione e passione, con la convinzione che questo tipo di percorso caratterizzato da assiduità, impegno costante, difficoltà oggettiva nell’apprendere le due lingue di indirizzo, avrebbe dato loro una formazione solida e “a tutto tondo”, avrebbe favorito qualunque sbocco a livello culturale e lavorativo.

Il liceo classico richiede, ancor oggi, per le caratteristiche intrinseche delle materie di indirizzo, un allenamento costante di memoria, ragionamento, attenzione, impegno, forza di volontà e amor proprio, che è, però, ben impiegato, poiché permette di terminare il percorso accademico futuro, qualsiasi ambito essi scelgano, con una percentuale di successi quasi totale[43].

Medici, ingegneri, notai, avvocati, insegnanti, anche universitari, e altri preparati professionisti hanno studiato sui banchi del liceo classico, provocando una spiccata e democratica movimentazione sociale, in cui le famiglie meno abbienti sostenevano sacrifici economici[44], convinti che quella iniziale fatica sarebbe stata un elemento fondamentale, per costruire un progetto di vita economicamente e socialmente migliore rispetto a quello delle loro famiglie di origine[45].

Ma, come si è accennato, è fuorviante cavalcare delle ideologie: «Tradurre Shakespeare è formativo come tradurre Virgilio», afferma in un suo recente articolo Massimo Fusillo; e, per certi versi, è vero, se ci si riferisce alla formazione tout court[46].

Tuttavia il bagaglio cognitivo e linguistico, che si sviluppa praticando correttamente la traduzione dal greco e dal latino risulta maggiore[47]: riassumendo quanto argomentato, la mente apprende quasi involontariamente attraverso la pratica traduttiva dalle lingue classiche un modus operandi sistematico e scientifico, che aumenta le conoscenze della lingua madre a livello semantico e, infine, lo studio delle strutture linguistiche influenza, perfezionandole, l’applicazione delle strutture corrette dell’italiano[48].

Ma l’orgoglio di impegnarsi in uno studio che abitua all’impegno e alla metodicità, al ragionamento, utili per affrontare ogni percorso universitario e professionale, non è più avvertito o ambito, anche per la mancanza di valorizzazione politica ed economica di questo tipo di indirizzo sia a livello universitario, sia lavorativo, con un conseguente minor riconoscimento a livello sociale.

Basti pensare che il diploma di liceo classico (ma anche quello di liceo scientifico) non dà accesso a nessun insegnamento in nessun grado di istruzione, a differenza, tutt’oggi, di alcuni diplomi di tipo professionale e tecnico che, senza alcuna abilitazione o ulteriori titoli di studio professionalizzanti, permettono l’iscrizione dei neo-diplomati diciannovenni in graduatorie di Istituto per gli incarichi di docenza e per le supplenze su alcune classi di concorso[49].

Hanno quindi ragione coloro che sostengono la necessità di un rinnovamento a livello di metodologie didattiche e interdisciplinarità, ad esempio cercando di mostrare «agli studenti come i miti antichi si siano irradiati in tutte le arti e in tutte le epoche»[50], ma è anche giunto il momento di cambiare, di pretendere un maggiore ‘peso sociale’ ed economico per questo tipo di studi dopo il diploma e di ricordare che studiare i classici greci e latini valorizza, al di là di ideologie negative strumentalizzanti il nostro back-ground culturale, il nostro “essere italiani”.

Infatti non si deve dimenticare che il liceo classico di per sé, come istituzione scolastica, è una realtà che rende l’Italia unica nel panorama scolastico europeo e forse mondiale: occorre evitare di collegare a esso metafore come quella delle “radici” e, invece, incentivare un «movimento retrogrado»[51], come acutamente Maurizio Bettini definisce questa tendenza a esaltare le caratteristiche, la storia e le differenze tra il nostro passato culturale e quello di non meglio definiti ‘altri’: gli ‘altri’, le altre culture, hanno tutto il diritto di essere conosciuti, studiati e apprezzati, magari anche en pendant proprio con i nostri classici antichi con cui hanno in comune alcuni archetipi letterari[52].

Molti autori di formazione classica hanno tratto idee e spunti interessanti a livello letterario, che solamente chi conosce la lingua greca e quella latina può cogliere appieno, fino a giungere ai più moderni riferimenti tratti da opere classiche antiche[53], che fanno capo alla scrittura di testi di canzoni[54] o a sceneggiature e dialoghi di films[55]. Sicuramente conoscere le lingue classiche e la cultura classica aiuta, per esempio, a comprendere più profondamente il “mistero” che si cela nella trama di certe creazioni letterarie e filmiche recenti, oppure a cogliere meglio alcuni passi, espressioni e associazioni iconiche oppure le caratteristiche di alcuni personaggi: perfino nella saga di Harry Potter l’autrice, J.K. Rowling[56] gioca con molte parole simil-latine, inventando formule di incantesimi e alcuni nomi propri, che solo chi conosce il latino può interpretare in modo immediato, carpendo significati altrimenti non comprensibili del carattere dei personaggi[57]. Infine è dimostrato che:

«La traduzione in genere è ancora un’arte molto difficile. Con tutta la ricerca sull’intelligenza artificiale che si fa nel mondo dell’informatica, il problema della traduzione in calcolatore è ancora lungi dall’essere risolto soddisfacentemente. Posso dire che, fra tutte le mie esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’ attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto»[58].

Come ha sottolineato la rettrice della Sapienza di Roma, Antonella Polimeni, nel discorso inaugurale dell’anno accademico 2022-2023:[59] «la competenza cognitiva che consiste nel conoscere e comprendere le nostre lingue del sapere fino ai vari codici» è fondamentale per poter costruire una società non solo della conoscenza ma per la conoscenza.

Le lingue classiche possono permettere ad ogni studente di rientrare in possesso di quelle chiavi semantiche che, sole, consentono l’accesso consapevole ai linguaggi di qualsiasi disciplina, sia scientifica, che umanistica, superando le false contrapposizioni per meglio comprendere i saperi, non monadici, ma plurali, non isolati, ma interrelati e dialoganti nella ricerca di nuovi paradigmi, per superare le criticità incombenti, sempre più legate alla nostra stessa sopravvivenza e al concetto di progresso sostenibile.

Il valore del linguaggio come strumento di conoscenze, competenze e trasmissione di valori passa, quindi, necessariamente anche attraverso la riscoperta delle matrici linguistiche greche e latine, di una comunicazione efficace e ben articolata dal punto di vista logico e contenutistico.

Mi piace chiudere questo contributo con una frase di Monsignor Gabriele Ravasi, quando, nel riflettere sulla comunicazione oggi, afferma:

« […] Si osserva che la comunicazione dei classici, in quanto standardizzata e collocata nel tempo, è una misura aurea dell’oggettività del pensiero e quindi un punto di riferimento sicuro in una società liquida. La riscoperta di una mente che segue modalità di ragionamento classico è la riscoperta dell’autenticità della comunicazione, dopo aver posto dubbi e risoluzioni […]»[60].

Lo studio dei classici può, quindi, agevolare anche la costruzione di un paradigma di comunicazione veridica, che sia «in grado di promuovere e affinare la capacità di ragionamento, […]» non una «virtù per una ristretta élite di pensatori, bensì una necessità per tutti coloro che non vogliono rinunciare a esercitare un controllo critico sulle decisioni importanti che li riguardano»[61] e, aggiungerei, anche sulle decisioni che riguardano il futuro prossimo dell’intera umanità.

Luca Boesini, “Riscoprire l’antico”, dipinto a olio (particolare)


Note

[1]    La conferenza si è tenuta a Piombino, in provincia di Livorno, presso il Palazzo Appiani, nell’anno 2012, e ha trattato il tema della cultura letteraria in relazione al territorio.

[2]    Andrea Marcolongo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il Greco, Bari, Laterza 2016; ristampa distribuita insieme al quotidiano La Repubblica nel 2018. Per una critica e per gli errori presenti nel libro si veda Pietro Giannini, A proposito della ‘lingua geniale’, in «Rudiae. Ricerche sul mondo classico» n.s. 4 (s.c. 27), 2018, pp. 109-116; DOI: 10.1285/i11245344v2018n4p107. In questo mio contributo si sottolinea solamente il successo di vendite del libro. Cfr. https://www.repubblica.it/cultura/2018/09/27/news/marcolongo_lingua_geniale-301064375/

[3]    Per i dati statistici si veda https://www.miur.gov.it/-/iscrizioni-

[4]    Cfr. Cinzia Dal Maso, Chiusura del Department of Classics della Howard: cosa significa?, 29.04.2021, in «Archeostorie Magazine», rivista online, https://www.archeostorie.it/classics-howard-chiusura/ (consultato in data 10.11.2022).

[5]    Per questa citazione si veda Ugo Cardinale, Luciano Canfora (a cura di), Insegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, Il Mulino, 2012, in https://www.letture.org/ (consultato in data 10.11.2022).

[6]    Per una panoramica delle riflessioni si veda Andrea Poli, Le “due” culture e il latino. Fra linguistica, letteratura, filosofia, psicologia cognitiva e epistemologia, Youcanprint, Tricase, 2015, pp. 10-16.

[7]    Cfr. Domenico Milito, La comprensione del testo: approcci e strategie per l’inclusione, in Emilio Lastrucci, Domenico Milito, Emilia Surmonte (a cura di), Analfabetismo funzionale e strategie di contrasto. Approcci, sperimentazioni, esperienze europee, Basilicata University Press, p. 110.

[8]    Tratto liberamente da Treccani online, s.v. «geniale».

[9]    Espressione latina che significa letteralmente “a chi giova?”.

[10]    Per notizie sul contenuto del libro cf. Antonio Sotgiu, Martha. C. Nussbaum, Non per profitto, «Enthymema», IV 2011, p. 384 (recensione a Martha. C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino, 2011, edizione originale: Not for Profit: Why Democracy Needs the Humanities, Princeton University Press, Princeton, 2010.

[11]    Elisabetta Degl’Innocenti, Humanitas & Umanities. Motivazioni dello studio della cultura classica, in Cultura Umanistica e Scuola. Riflessioni e analisi, Milano, Pearson, 2011, p. 49.

[12]    Ivi, p. 50.

[13]    Daniela Palma, Elogio del pensiero critico; per una reale cultura della conoscenza, «ROARS», 31 gennaio 2014: «[…] la tesi che la crescita economica è portatrice di benessere ed equità è immediatamente smentita dai fatti – sottolinea la Nussbaum. Non vi sono che scarse correlazioni tra le conquiste del welfare e la crescita economica […] A questo modello la Nussbaum contrappone quello dello “sviluppo umano”, in base al quale «ciò che è davvero importante sono le opportunità, o “capacità”, che ogni persona ha in ambiti chiave che vanno dalla vita , salute e integrità corporea alla libertà politica, partecipazione politica e istruzione».

[14]    Degl’Innocenti, op. cit., p. 50.

[15]    Berta Martini, Formare ai saperi, per una pedagogia della conoscenza, FrancoAngeli, 2005, p. 41.

[16]    cf. Bruno Arpaia, Non due, ma mille culture, in “Il sole 24 Ore Domenica”, 10 luglio 2011, cfr. Degl’Innocenti, op. cit., p. 51.

[17]    Degl’Innocenti, op. cit., p. 52.

[18]    Salvatore Settis, Futuro del “classico”, 2004, cfr. Degl’Innocenti, op. cit., p. 52.

[19]    Si veda Sergio Roda, Commander in chief. Presidenti USA e imperatori romani. Uno stereotipo della cultura popolare americana, Atti della Accademia Peloritana dei Pericolanti, Classe di Lettere, Filosofia e Belle arti, XCVI 2020, pp. 89-155, per Bush specialmente pp. 133-134; DOI: 10.13129/2723-9578/APLF.2.2020.109-155.

[20]    Ivi, p. 52.

[21]    Gloria Larini, Valore pedagogico delle lingue classiche nella prospettiva biolinguistica e cognitivista, «Pragma», Il Mulino, 2007.

[22]    E non posso addentrarmi qui nel vasto ambito del linguaggio non verbale, ugualmente importante, ma non per questa mia argomentazione.

[23]   Enrico Galavotti, Linguaggi e comunicazione, Homolaicus.com, 2014, p. 7; cfr. https://www.homolaicus.com/linguaggi/comunicasegni.htm

[24]    Larini, op. cit., 2007.

[25]    Larini, op. cit., 2007.

[26]    Cfr. Stefano Marchetti, L’amico del tempo, in http://messaggerosantantonio.it/content/lamico-del-tempo-0 (consultato in data 08.10.2022).

[27]    Non ritengo opportuno qui fare riferimento a metodologie, innovative a livello didattico, che pongono l’attenzione a metodi di apprendimento del latino e del greco come se fossero “lingue vive”. Per la mia argomentazione la traduzione continua ad avere una potenzialità maggiore di favorire lo sviluppo cognitivo del linguaggio e il miglioramento nell’uso, sia orale che scrittorio, della lingua madre, almeno per quanto concerne le lingue romanze.

[28]    La citazione di Ivano Dionigi è tratta da Mariano Campo, L’attualità del latino secondo Ivano Dionigi, anno 2017, https://www.bollettino.unict.it/articoli/lattualit%C3%A0-del-latino-secondo-ivano-dionigi (consultato in data 09.10.2022).

[29]    Cfr. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna, 1982, p. 209.

[30]    Sulle riflessioni nate alla metà del Novecento sull’utilizzo dei traduttori automatici si vedano i saggi di Y. Bar Hiddel, in particolare The present State of Research on Mechanical Translation, «The American Documentation», II (1953), pp. 229-237 e Id., Can Translation Be Mechanized?, «The American Scientist», XLII (1954), pp. 248-260.

[31]    I concetti qui espressi in modo sintetico sono liberamente tratti dal mio articolo pubblicato sulla rivista Pragma: Larini, op. cit., 2007.

[32]    Cfr. Stefano Marchetti, L’amico del tempo, in http://messaggerosantantonio.it/content/lamico-del-tempo-0 (consultato in data 08.10.2022).

[33]    Cfr. Salvatore Settis, Il futuro del classico, Einaudi, 2004, frontespizio, Degl’Innocenti, op. cit., p. 53.

[34]    Per approfondire il concetto si veda https://www.treccani.it/enciclopedia/globalizzazione (consultato in data 20.11.2022).

[35]    Marcello La Matina, Il problema del significante. Testi greci tra semiotica e filosofia del linguaggio, Carocci, 2001, p. 53.

[36]    Cfr. Apostolos Apostolou, Addio postmoderno, benvenuti nell’età dell’altermoderno, «Cultura Oltre», 21 aprile 2018, in https://culturaoltre14.wordpress.com/ (consultato in data 20.11.2022).

[37]    La frase è tratta da Maurizio Bettini, Noi e i Romani. Un problema di giusta distanza. Nuove chiavi per insegnare il classico, 2008.

[38]    Cfr. Poli, cit., pp. 17-26.

[39]    Cambiano, Perché leggere i classici, 2010.

[40]    Degl’Innocenti, op. cit., p. 54.

[41]    Sottolineo che questo non significa mettere da parte la competenza traduttiva, che è basilare, ma affiancare in maniera più estesa (anche nei licei classici) la lettura di ampi testi d’autore greci e latini che presentano sia il testo in lingua originale sia in traduzione italiana il più possibile letterale, cosa che agevola anche la comprensione del processo traduttivo.

[42]    Seneca fu precettore di Nerone, filosofo stoico che ci ha lasciato opere dal contenuto ‘modernissimo’ in lingua latina.

[43]    Per questa affermazione si consulti ad esempio l’articolo di Rosa Rita Bellia, Almalaurea-gli studenti più bravi provengono dal liceo classico, 2 novembre 2016 in https://catania.liveuniversity.it/2016/11/02/almalaurea-gli-studenti-piu-bravi-provengono-dal-liceo-classico/

[44]    Si tratta di sacrifici economici in quanto frequentare un liceo significava procrastinare molto spesso l’ingresso dei figli nel mondo del lavoro, che sarebbe avvenuto dopo l’università.

[45]    Per alcuni dati statistici e riflessioni si veda ad esempio l’articolo di Antonella De Gregorio, Più bravi e regolari negli studi: la rivincita del liceo Classico, Il Corriere online, in https://www.corriere.it/scuola/secondaria/16_ottobre_27/rivincita-liceo-classico-94971554-9c45-11e6-aac3-b67f2733f2fe.shtml (consultato in 04.09.2022). Ivi anche vari collegamenti ad altri articoli sullo stesso argomento.

[46]    Si veda l’articolo di Massimo Fusillo, Perché non difendo il liceo classico (così com’è), «Le parole e le cose», 18.04.2017: https://www.leparoleelecose.it/?p=24565 (consultato in data 04.09.2022).

[47]    Mi riferisco in modo particolare ai licei con indirizzo classico e scientifico tradizionale, che hanno mantenuto un impianto particolarmente selettivo e curricola impegnativi, poiché basati su competenze logico-matematiche, che impegnano maggiormente il pensiero astratto complesso.

[48]    Il processo di transfert, è chiaro, è più facile e si amplifica per quelle lingue che hanno somiglianze con le lingue classiche a livello strutturale, sintattico e semantico. Credo tuttavia che il ragionamento che conduce ad una traduzione corretta dal greco e dal latino in una qualsiasi altra lingua possa far esercitare meccanismi logico-cognitivi profondi, comuni a tutti gli uomini indipendentemente dalla loro lingua madre. Ritengo che la tesi potrebbe dare adito a un nuovo campo di ricerca.

[49]    Cfr. https://www.classidiconcorso.it/titoli-di-studio.html (consultato in data 04.09.2022).

[50]    Così ribatte Massimo Fusillo nell’articolo già citato. Si veda supra, n. 21.

[51]    Cfr. Maurizio Bettini, Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, 2012, introduzione.

[52]    Interessanti sono, ad esempio, le riflessioni che sorgono alla lettura dei recenti volumi su Tolkien e il suo rapporto con i classici latini e greci, che mettono in evidenza quanti riferimenti, sia linguistici che concettuali, l’autore inglese abbia usato nell’inventare le storie della Terra di Mezzo. Si vedano Arduini et a. (a cura di), Tolkien e i classici, vol. I, Eterea, 2019 e Id. (a cura di), Tolkien e i classici, vol. II, Eterea, 2019; Id. (edd.), Tolkien and the classics, WalkingTreePublisher, 2019.

[53]    Ultimamente la critica che fa capo alle Letterature comparate ha sondato in modo convincente i rapporti stretti tra la cultura classica antica e molti testi di autori moderni, dato che la conoscenza dei testi greci e latini ha comunque permeato molte delle creazioni letterarie successive non solo europee e molti autori si sono formati proprio sui classici.

[54]    Cfr. Francesca Michielin, https://www.corriere.it/scuola/speciali/2013/scegliere-il-liceo/notizie/liceo-classico-francesca-michielin-x-factor-6c1837fc-5ea4-11e3-aee7-1683485977a2.shtml intervista sul Corriere della Sera online, 7.12.2013. (consultato in data 04.09.2022).

[55]    Mi riferisco a produzioni cinematografiche recenti, che usano frasi latine o greche come elementi scatenanti il mistero, come accade nei films di Indiana Jones oppure in quelli tratti dai romanzi di Dan Brown come Il codice Da Vinci, omettendo di ricordare opere oramai cult come Il nome della rosa di Umberto Eco.

[56]    Non tutti sanno infatti che l’autrice della saga di Harry Potter ha studiato francese, ma, anche se probabilmente da autodidatta, latino classico per suo interesse personale. Si veda per la storia dei suoi studi https://www.hogwartsprofessor.com/what-did-jo-rowling-study-at-university-french-classics-both/ (consultato in data 04.09.2022).

[57]    Si veda ad esempio quanto scrive Antonio Brugognone, Harry Potter: pieni voti in … latino, Zai.Time, 02.03.2021, in https://www.zai.net/articoli/libri/18930284/Harry-Potter-pieni-voti-in—-latino (consultato in data 04.09.2022).

[58]    Luca Cavalli Sforza, Studiando, studiando, in Repubblica.it del 27.11.1993 (consultato in data 10.11.2022).

[59]    Si veda https://www.uniroma1.it/it/notizia/inaugurazione-dellanno-accademico-2022-2023 (consultato in data 11.10.2022).

[60]    Tale affermazione è stata ripresa liberamente dal recente corso Treccani online, Ms Gianfranco Ravasi, Scuola, educazione e comunicazione, Club dei docenti, 10.10 2022.

[61]    Si veda per questa citazione, anche per una essenziale bibliografia sulle tematiche qui affrontate, l’intervista sul libro: Ugo Cardinale, Luciano Canfora (a cura di), Insegnare il futuro con intelligenza antica. L’insegnamento del latino e del greco antico in Italia e nel mondo, op. cit.

Il greco e il latino: lingue “geniali” – di Gloria Larini

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