* Un grazie speciale a Elena Grossi e a Peter Ricci che con le loro abilità grafiche hanno reso meno oscuro il mio scritto, illustrando l‘oggetto principale che ha generato la riflessione.

Il saggio è apparso la prima volta nella rivista TECA 2016 numero 9-10 http://teca.unibo.it/ Patron Editore (info@patroneditore.com). La bibliografia scientifica di riferimento utilizzata e discussa nel testo é di quel periodo.


ABSTRACT
The survey highlights similarities, in terms of methodology and thought, between the work of the typographic jobs (printers, composers) and (after the spread of typography itself) the historically developed teaching devised to educate the deaf and dumb. The parallel regards similarities concerning the method of gestures and cognitive thought. In Italian elementary school of the XXth cent., they still used small portable printers to teach children reading and writing. Those similarities emerge from observation, a bit less cursory than usual, of two specific facts: 1) the printed literature published in the early modern whose theme is deafness 2) a local Genoese invention of the Nineteenth century designed for deaf people and completely and inexplicably fallen into oblivion.

L’indagine mira ad evidenziare le somiglianze, in termini di metodologia e di pensiero, tra il mondo dei lavori tipografici (stampanti, compositori) e (dopo la diffusione della tipografia stessa) l’insegnamento storicamente sviluppato ideato per educare i sordomuti. Il parallelismo riguarda le somiglianze relative alla gestualità e al pensiero cognitivo. Nella scuola elementare italiana del XX secolo, ancora si usavano piccole stampanti portatili per insegnare ai bambini a leggere e a scrivere. Tali somiglianze emergono dall’osservazione, un po’ meno cursoria del solito, di due fatti specifici: la letteratura a stampa nella prima età moderna il cui tema è la sordità, e un’invenzione locale genovese del XIX secolo progettata per le persone sorde e completamente e inspiegabilmente caduta nell’oblio.


Linguaggio e mani

L’utilità di una comunicazione non verbale, non fonetica o, talora solo in apparenza, non alfabetica, prima di trovare in Europa una relativamente precoce applicazione nell’ambito della disabilità, fu per secoli accreditata in campo nautico, militare, diplomatico, comunitario.
In epoche di prevalente oralità o comunicazione scritta marginale, oppure, come ancora oggi, nei casi di concreta impossibilità comunicativa verbale (in terra, mare, nello spazio, o in un luogo chiuso ma caotico e confuso come può essere oggi la sala di una borsa merci) si ricorse a gesti iconici, suoni, colori e segni alternativi di vario tipo. Vessilli, stendardi, bandiere, gonfaloni; emissioni sonore: musiche da campo, fanfare; segnali acustici: campane, fari, sirene; messaggi cifrati, segni crittografici; segnali visivi, luminosi, assunsero nelle vicende belliche, competitive, nella negoziazione politica e persino nell’ordinario giornaliero di collettività, preciso significato informativo di importanza cruciale, deterrente o propellente all’azione e alla conoscenza. Verso la fine dell’antico regime, persino il mondo economico-commerciale s’avvalse, per celerità, di comunicazioni fatte di segni convenzionali organizzati e diffusi in catene successive di trasmissioni (come pacchetti!) distinguibili e decrittabili: era stato inventato il telegrafo.[1]


Fig. 1. Studio del meccanismo di funzionamento interno del tachifenografo (Interpretazione d’artista di Peter Ricci)

In tempi di maggiore familiarità con lo scritto (e la lettura) nella prima età moderna, e fors’anche per la progressiva diffusione, suggestione, dello stampato tipografico, segni e segnali preconcertati trasducevano invece, nel diverso mezzo espressivo, proprio l’alfabeto medesimo e i suoi singoli grafemi con convenzioni rigidamente codificate. Un famoso e apprezzato militare di carriera dell’Italia cinque-secentesca teorizzava una sorta di sonoro abbiccì marziale, in cui uno sparo indicava la lettera a, due la b sino ad un massimo di tre spari, visivamente congiunti però a espedienti ottici per coprire tutto l’alfabeto[2]. Una generazione dopo di lui un ingegnoso gesuita non udente, testimoniava la coesistenza del doppio interesse politico-strategico e pedagogico maturatosi nella prima età moderna per lo studio di segni utili a innescare processi comunicativi non convenzionali[3].

In un crogiuolo disciplinare di prossemica, semiologia, antropologia, matematica egli inventò un sistema comunicativo per trasmissioni cifrate «in modo tale che il segreto nascosto sia del tutto impercettibile» ma anche, quasi naturale estensione delle proprie indagini linguistiche, uno per il dialogo coi ciechi e uno per i sordi[4].

I sistemi di comunicazione basati sull’elaborazione o camuffamento dell’alfabeto, magari mescolati alla gestualità controllata, erano dunque svariati e saltuariamente praticati già nell’antico regime. Attingevano alla sensorialità tattile; oppure visiva e vocale attraverso posture speciali; alla elaborazione numerica per la messaggistica crittografata; a grafemi inventati, come per il telegrafo di cui s’è detto.

In questa variegata casistica, diseguale eredità segnica, gestuale e comunicativa della storia, c’erano fors’anche tracce residuali di antiche esperienze relazionali alternative alla voce. La tradizione medievale accanto ai letterari ‘alfabeti spirituali’[5] conobbe anche l”alfabeto religioso’ fatto di gesti: uno, impropriamente attribuito a san Bonaventura, ebbe redazione a stampa pervenutaci solo in una delle forse tante versioni realizzate[6]. Questa letteratura cultuale di spiritualità religiosa aveva contribuito a tramandare il ricordo, e la prassi, di una mimica sacra significante che finì con l’influenzare o ispirare anche ambienti laici.

Negli ambienti non religiosi si ricorreva per esempio alle mani, soprattutto a fini espressivo-gestuali e di computo. Sinuose figure di lunghe magre mani flesse in vari modi a esemplificare l’azione del numerare compaiono elegantemente disegnate in manoscritti già altomedievali e ritornano nella manualistica a stampa in più rozze xilografie, per esempio nelle edizioni dell’aritmetica di Luca Pacioli[7]. Le mani inoltre si piegavano, in ambienti scolastico-educativi o monastici, ad un uso mnemonico, quasi superfici significanti di lettura tattile, per ancorare concetti e cose fra palme, dita e falangi[8]. Le mani davano vita a gesti interpersonali (transitori geroglifici, li definiva Bacone) e generavano una semiotica del corpo, espressa da strumenti di parola per un muto eloquio[9]. Si prestavano a incarnare, raffigurare un linguaggio che se ordinato avrebbe potuto esser impiegato al servizio di persone affette da sordità congenita, mutismo relativo o derivato.

La trattatistica patologica

I cambiamenti delle conoscenze iniziati nel Cinque-Seicento e l’innestarsi di un processo di revisione teorica del sapere che avvierà una, lenta, rivoluzione scientifica, unitamente alla diffusa volontà (d’ogni credo religioso) di catechizzazione dei (propri) precetti sacri contribuirono a porre il problema della profonda natura di certi stati morbosi e delle connesse implicazioni cognitive nel portatore[10]. La patologia di audiolesi e afasici fu tra le prime ad essere presa in considerazione[11].

L‘interesse verso l’affezione in quanto tale non era però esclusivamente di natura sanitaria o clinica, e maturava in occasione della descrizione anatomica degli organi dell‘udito, della fonazione, dell’articolazione del suono, e dunque rimaneva appannaggio della, circoscritta, trattatistica medica a stampa[12]. C’era un richiamo empirico nella società del tempo teso a cercare di risolvere nel concreto il problema di instaurare una interazione quotidiana puntuale e articolata con non udenti: tale esigenza sfociò in un diverso filone trattatistico a stampa, prodotto non necessariamente da esperti medici, ma anche da educatori, intellettuali, religiosi, pensatori a vario titolo. Questo perché la spinta motivazionale incrociava inevitabilmente tematiche di vario genere, terreno teorico di professionisti disparati: non era una pretesa solo medica ma si innestava su complesse esigenze sociali, politico-religiose, pedagogiche e sollecitava pure contemplative problematiche filosofiche.

Da un lato infatti l’incipiente Stato moderno doveva, prima o poi, parlare coi propri sudditi in molte occasioni pubbliche: amministrazione della giustizia, obblighi fiscali, di leva ecc. Dall’altro vincoli religiosi (ricezione dei sacramenti; adesione consapevole ad un credo; controllo dell’ortodossia) e necessità giuridico-legali esigevano più attenzione che in passato alle reali implicazioni intellettive derivanti dalla disabilità della persona: occorreva controllare cioè che l’individuo fosse in grado di comprensione cognitiva. Il riscontro di quest’ultima apriva il varco ad ampie speculazioni, a cominciare dalle stesse definizioni terminologiche soggiacenti.

L’accertamento delle effettive abilità del paziente senza parola né ascolto era, in definitiva, il nodo principale che le infermità maggiormente inibenti scambi relazionali ponevano alla società europea della prima età moderna. Come provare che sordi e sordomuti fossero a tutti gli effetti senzienti, coscienti, in grado di capire, essendo la comprensione ritenuta tra le principali e peculiari facoltà umane? Oppure, come nella lontana antichità, allorché non si stabiliva, per esempio, alcuna relazione fra mutismo e sordità, le persone mute non dovevano godere in sostanza di diritto alcuno? Ritenute malate di mente erano, secondo talune normative, addirittura soppresse o poste sotto l’istituto della curatela legale in quanto non autosufficienti.

Come categorizzare nella prima età moderna, all’interno del tessuto relazionale sociale urbano, chi non era in grado di comunicare in modo tradizionale, dal momento che il linguaggio (scritto e parlato e dunque anche letto) era considerato allora da molti unico mezzo per esprimere e manifestare intelligenza, cognizione, intelletto, per dar corpo alle idee, per dimostrare capacità di interpretazione del mondo?

Il problema era particolarmente delicato, in punta di diritto, perché la sordità, in modo particolare, poteva sopraggiungere (magari in tarda età) in qualunque individuo fruitore in precedenza di garanzie legali. Alcuni, come un liutaio inglese, furono indotti forse proprio dalla personale condizione congenita a riflettere su come si potesse far udire ai sordi, per esempio la musica[13]. La questione dunque slittava dal terreno meramente pratico a quello giuridico e da lì al filosofico e teologico, toccando fra l’altro anche temi di pastorale religiosa agli infermi[14].

Uno dei più noti medici e filosofi italiani del secondo Cinquecento, Gerolamo Cardano, riteneva che scrittura, parola e pensiero fossero reciprocamente interconnessi. Tuttavia i segni scritti e le idee erano fra loro collegabili, e dunque comprensibili, senza transitare obbligatoriamente per la fase sonora, cioè senza ricorrere alla voce. C’erano casi di sordomuti istruiti ed edotti di cui egli dà infatti conto[15].

Era dunque possibile sostituire al segnale vocale qualcosa di ugualmente logico, coerente, un segno strutturato grammaticalmente (cioè non un semplice occasionale gesto)? E che l’insieme di tali segnali fosse in un certo senso neutro, slegato dalla parola alfabetica e vocale? Un contemporaneo di Cardano, che questi non lesse perché pubblicato nel 1579, tre anni dopo la propria morte, in quei centoni che ambivano a categorizzare il mondo e tutte le sue manifestazioni, inseriva, senza imbarazzo pur senza riferimento ai sordi, fra i possibili alfabeti, quello che è, ritengo, il primo esempio italiano illustrato a stampa di un linguaggio di segni alfabetici realizzati con le dita assimilabile alla dattilologìa[16].

Lentamente, dalle dita per segnalare e contare[17] a quelle per dire, s’era dunque dischiusa la strada d’una ricerca linguistica di segni artificiali o istituzionali per esprimere il pensiero in cui le mani, e il loro uso, erano elementi centrali, veicolo residuale della lunga tradizione antica e sacra che le aveva viste protagoniste di espressione alternativa.

S’andava così elaborando e sperimentando nella prima età moderna una vera ‘arte dei segni’ che a fine Seicento sarebbe stata accolta dai trattatisti come legittima manifestazione e espressione di intendimento: «Interpretation then in its largest sense is an act of cognitive power, expressing the inward motion, by outwart and sensible sign» scriveva l’educatore scozzese George Delgarno, mentre pochi anni dopo il domenicano Alphonse Costadeau, seppur in diverso contesto concettuale, inglobava l’arte dei segni nella nuova disciplina di propria definizione la Somatologia riferita da Delgarno (che non cita il francese!) quale: «an art of impressing the conceits of the mind upon sensible and material objects»[18].

Il processo speculativo linguistico cinque-secentesco inquirente la natura del linguaggio, naturale o artificiale, che potrebbe trovare ascendenze nel platonico dialogo Cratilo, si inseriva tuttavia anche in una più vasta e complicata ricerca concettuale europea sulla comune lingua filosofica universale. Alla base l’utopico desiderio, sollecitato anche dalle scoperte delle popolazioni del nuovo mondo, c’era fra l’altro il tentativo di trovare forme comunicative unanimemente valide, segni globalmente sottostanti ad ogni espressione manifesta. Era indagine ambiziosa che proliferò in mille rivoli medici, speculativi, filosofici, sfiorando prospettive alchemiche o sacre, alla ricerca d’un linguaggio ‘naturale’[19]. Ne sarebbe anche scaturito, peraltro, un lungo percorso linguistico-teorico sul valore e la natura dei segni per comunicare dai molteplici esiti, fra i quali è persino possibile annoverare, alla fine dell’antico regime, la diffusione di tecniche stenografiche[20]. Talora la ricerca dell’universale e la empirica indagine sui segni manuali per comunicare il quotidiano con gli audiolesi si fondevano negli sforzi d’indagine e di studio d’un unico ricercatore. È il caso del citato pedagogista scozzese Delgarno che di entrambi gli aspetti linguistici si occupò in modo speculativo e pratico; a metà Seicento egli proponeva per i sordi una forma d’alfabeto manuale o dattilogìa che prevedeva la corresponsione fra lettere alfabetiche e parti della mano e delle dita[21]. Era più o meno quanto anche un precedente educatore iberico, Juan Pablo Bonet, aveva elaborato a scopi pastorali in Spagna[22].

Proposte didattiche alla fine dell’antico regime

Nel XVIII secolo, complici gli ideali educativi dell’Illuminismo e il pensiero pedagogico dei Philosophes che mirava, oltre che a istruire il discepolo, a insegnare presto al bambino i modi della socializzazione e della civilité, l’attenzione verso metodi di insegnamento e sistemi formativi per l’infanzia raggiunse livelli di elaborazione teorica e empirica mai verificatisi in precedenza. Tali investigazioni sui normodotati erano seguite da giornali eruditi e generalisti che recensivano opere sull’argomento: apprezzate dalle accademie scientifiche che ne accoglievano memorie descrittive e relativi autori. La riflessione sul fanciullo altro non era che esplorazione, verifica sistematica della centralità umana della facoltà di percezione. Un aspetto particolare fu quello della nascita di una manualistica operativa, di macchinari vari, di un’oggettistica didattica integrata nella formazione del sapere e, di conseguenza, nella trasmissione della conoscenza insieme ad alcuni congegni, entrati a far parte dell’insegnamento a vari livelli.[23]

Fra i vari espedienti e strumentari didattici teorizzati e escogitati per l’educazione precoce dei fanciulli normodotati, uno in particolare ricorreva all’immaginario delle officine tipografiche. La stamperia era realtà culturale e imprenditoriale dirompente nel Settecento europeo, grazie alle pubblicazioni periodiche prepotentemente entrate a far parte della vita quotidiana anche dei poco alfabetizzati; penetrava ora nella quotidianità di pedagoghi e scolari come ingegnosa riproduzione mimetica di ambiente di lavoro ‘alfabetico’. Il marchingegno escogitato sfruttava l’utensileria compositiva di lettere (segni grafici) e cassettini usata nelle tipografie riadattandola esplicitamente in versione infantile: non più piccole, sfuggenti lettere metalliche, ingombranti cassettiere lignee per riporre i segni grafici, ma graziose e grandi immagini di segni alfabetici, impresse su carte da gioco e scatole o armadietti con ripiani e caselle organizzate ove riporli[24].

L’idea di insegnare a parlare e a scrivere in questo modo, accelerando l’apprendimento dello scolaro (di 3 anni!) per creare magari piccoli geni (verso i quali l’attenzione già dal primo Rinascimento era rimasta costante), forse anche per la sua ristretta destinazione a ceti facoltosi e la componente un po’ mirabolante, fu limitatamente adottata.

È tuttavia attestata in svariate fonti coeve giornalistiche, enciclopediche, letterarie e trattatistiche con interessi di pedagogia e didattica scolastica. Può forse esser considerata quasi scaturigine di una posteriore ben più economica realizzazione di un attrezzo didattico ottocentesco: il modesto tabellone, l’alfabetiere che si fissava ai banchi o s’appendeva al muro.[25]

Sempre nel corso del XVIII secolo anche gli educandi disabili furono oggetto di riflessione. Come sempre soprattutto sordomuti e ciechi godettero di speciale sperimentazione didattica: altre disabilità, patologie fisiche che in qualche caso ledevano l’armonia del corpo, o psichiche, rimasero a lungo tralasciate, respinte dalla stessa repulsione che le avvolgeva nel quotidiano. Le problematiche della sordità invece trovavano accettazione presso le accademie scientifiche, a Londra come a Berlino; se ne occupavano pensatori della caratura di Diderot o Formey[26].

Studiare l’udito significava studiare la percezione del linguaggio (e soprattutto viceversa, cos’è e come si apprende il linguaggio).

L’argomento sordità era conosciuto dal largo pubblico non solo per via di una discreta pubblicistica ma anche per episodi commerciali che rasentavano la cialtroneria e che, ciò nondimeno, cinicamente attestavano che c’era un mercato d’attenzione in tal senso[27]. L’ambiente culturale nel suo insieme contribuì dunque alla creazione d’una nuova sensibilità sociale che vedeva favorevolmente anche negli strati borghesi della popolazione, e non come in passato solo occasionalmente all’interno di contesti familiari elevati e facoltosi[28], l’idea della possibilità e auspicabilità di un’educazione dei sordomuti: era, in fondo, un altro aspetto della più vasta laicizzazione in atto dell’insegnamento e della cura agli infermi[29].

La riflessione teorica si orientò verso contenuti complessi, altamente specialistici anche se non necessariamente medicalizzati. Il problema centrale era pur sempre quello di affermare e dimostrare che idee e pensiero non fossero esclusivo prodotto e espressione delle sole parole o del linguaggio fonetico e che, pertanto, occorresse implementare espedienti pratico-educativi per comunicare con chi fosse affetto da patologie che impedivano l’emissione o la percezione di suoni, ma non la comprensione concettuale[30].

La ricerca s’apparentava ancora una volta da un lato con l’indagine affascinante quanto apparentemente illusoria di una lingua filosofica generale, basata sul tentativo di matematizzare il pensiero e la sua comunicazione (rendendoli numerici): «pour reduir l’art du rasonnement à une sorte de calcul»[31]; dall’altro con l’ambizione di un linguaggio planetario naturale che soddisfacesse pure esigenze pratiche, militari o latamente civili dell’Europe commerçante et littéraire[32].

Sorse un dibattito – destinato a durare a lungo, almeno, nel panorama italiano – fra i sostenitori di una comunicazione fra e ai sordi attraverso il ricorso ai segni ‘metodici’ delle mani, che dunque sfruttava tutta quella trattatistica sulla mimica e gestualità delle mani sviluppatasi nella primissima età moderna, e di chi invece privilegiava un metodo (se fisicamente possibile) orale, ovviamente considerato da molti philosophes illogico[33]. Una terza via era percorsa, anche nell’Ottocento, da quanti mescolavano i due sistemi, personalizzando l’insegnamento secondo le necessità del discente e introducendovi varianti occasionali. Si delineava una didattica per chi fosse nato sordo e di conseguenza muto diversa da quella invece per chi oltre a congeniti problemi uditivi aveva anche difficoltà di emissione del suono[34]. Non solo filosofi o aristocratici illuminati con orientamenti massonici, ma anche semplici opinionisti nei periodici si interessarono alla questione educativa dei sordi che coinvolse ancora una volta generici osservatori, culminando a fine secolo e soprattutto nell’Ottocento in alcuni paesi nell’istituzione di specifici percorsi pedagogici all’interno di istituti educativi loro espressamente dedicati.[35]

Fu così che all’interno di queste riflessioni, nel crogiuolo di queste spinte didattiche e teoriche anche a consistenti gruppi di studenti non udenti fu proposto tra Sette e Ottocento come metodo didattico quello strano marchingegno metà armadio metà gioco di carte usato per insegnare a leggere agli infanti da allevarsi come genietti[36]. L’idea di mutuare, in sostituzione della emissione vocale, le regole della gestualità alfabetica dalla mimica manuale di tipografia – riducendo i singoli segni alfabetici a elementi bi-tridimensionali da combinarsi col sussidio di contenitori – ebbe successo. L’idea di ricalcare la manualità delle stamperie, la cui frantumazione in segni elementari pareva logica facilitazione dell’apprendimento, ebbe una lunga vita sino all’Ottocento interessando anche il campo dell’ortografia, che in alcuni paesi si voleva semplificare[37]. Fu esportata anche in altri campi della disabilità: per esempio ai non vedenti, per i quali pure s’attinse all’immaginario del compositoio e della stamperia, rielaborandone alcune metodiche fondamentali[38].

L’invenzione genovese per la didattica ai sordomuti: il tachifenografo

All’inizio dell’Ottocento questo fermento educativo rivolto ai disabili uditivi, con il suo variegato bagaglio di proposte e correnti, fu percepito anche a Genova dove «dal 1801 nei pubblici fogli s’andavano più che mai raccontando mirabili cose sull’addestramento che davasi a sordomuti nella Francia e nella Germania»[39]. Nacque in città una scuola, frutto dell’impegno pedagogico e religioso di Ottavio Assarotti sacerdote giansenista, sostenitore d’un metodo d’insegnamento prevalentemente pratico ed empirico, non solo segnico e manuale, che si rifaceva tra l’altro alla dattilologìa del francese de L’Epée[40]. Con magre sovvenzioni economiche, prima urbane e miserande (qualche foglio di carta, temperini e matite), poi dal 1811 napoleoniche e più consistenti, l’attività didattica si svolse in un apposito edificio, già appartenuto ad una soppressa corporazione religiosa. La scuola riscosse una certa attenzione nella stampa locale; divenne un Istituto statale coi Francesi e tale rimase poi coi Savoia[41]. L’impegno formativo progredì per tutto l’Ottocento, affiancando anzi, com’era d‘uso nel XIX secolo in molte città italiane, un’officina tipografica aperta per dar lavoro a lavoranti disabili, convenzionata con il comune per forniture burocratiche. Oltrepassò le soglie del Novecento e in forme giuridiche mutate sussiste tuttora[42].

Fin dall’inizio la sperimentazione pedagogica voluta dal padre Assarotti era alquanto diversificata[43]. Sulla scorta di quanto faceva il Console d’Austria a Parma che insegnava il «germanico idioma ai sordomuti» a Genova l’Istituto dei Sordomuti, grazie al volontariato del figlio di uno dei primari negozianti britannici attivi in città, organizzò nel primo Ottocento un insegnamento d’inglese ai non udenti (non si sa se anche orale)[44]. Ciò permise ad alcuni allievi di corrispondere in quella lingua con colleghi irlandesi ed essere perciò ricordati da quelli nella loro trattatistica isolana [45]. In età napoleonica veniva insegnato anche il francese. Nella scuola si ricorreva a un miscuglio di metodologie didattiche, alternando l’uso della scrittura di lettere alfabetiche su tavole-lavagna, all’uso della voce, a un repertorio gestuale e segnico. Il livello di bravura o competenza raggiunto da alcuni scolari, fra i quali era anche il futuro inventore di cui si dirà, fece scalpore e fu reclamizzato con esaminazioni pubbliche e resoconti a stampa, raggiungendo anche la stampa internazionale franco-tedesca [46].

Veniva usata altresì all’interno della scuola una strana macchina comunicativa: il tachifenografo, un attrezzo inventato dallo scolaro Filippo Castelli sul quale null’altro è dato sapere [47]. Ufficialmente esibita di fronte ad autorità governative e visitatori urbani con una cerimonia dimostrativa nel 1808, la macchina era la versione ligure, il compimento genovese del processo di automazione didattica e informativa cui s’è accennato in precedenza, instauratasi nell’Europa dell’Illuminismo. Nelle intenzioni dell’inventore, o dei primi suoi sostenitori o suggeritori all’interno della scuola, avrebbe potuto soppiantare in molte occasioni la gestualità.

Si ispirava largamente a quel Bureau Typographique con cui si era tentato di insegnare agli infanti nel Settecento. Secondo gli osservatori italiani aveva la proprietà di «istituire sì da vicino che da lontano una corrispondenza di discorso presentando le lettere dell’alfabeto in maniera che rapidamente si succedano e appena ravvisate scompaiano» [48]. Un delegato straniero, testimone oculare, descrive il marchingegno negli anni trenta dell’Ottocento al redattore degli «Annals of the deaf and dumb» esattamente con le stesse parole, forse copiate dalla fonte italiana ma integrate però anche da altre personali notazioni e osservazioni[49].

Il macchinario era usato per esibizioni ufficiali e dialoghi con ospiti istituzionali o privati (entrambe possibili benefattori e finanziatori della scuola) ma serviva probabilmente anche per colloquiare fra sordi all’interno della scuola o dell’aula scolastica ma soprattutto ritengo, come suggerisce una fonte, per tradurre il parlato vocalmente emesso durante spettacolini di prosa recitati a scuola. Nell’istituto infatti venivano rappresentati, ad uso interno ludico e con finalità educativo-religiose, piccole scenette teatrali, pantomime e personificazioni teatrali come quella recitata dallo stesso inventore Castelli quando fu esaminato pubblicamente con gli altri scolari figurando con loro la morte di Abele[50].

In assenza di buona parte dell’archivio storico dell’Istituto, andato perso nei bombardamenti novecenteschi della seconda guerra mondiale, per comprendere il funzionamento di quell’ausilio didattico e comunicativo occorre seguirne le descrizioni nelle oscure fonti coeve, non solo locali, nessuna delle quali purtroppo fornisce un’immagine esplicativa.

Collazionando descrizioni non sempre chiare, quel macchinario lo si può supporre costituito come una specie di armadio-scatola, alto quasi un metro e largo circa 72 cm, con una profondità da 3 a circa 15 cm (fig. 2).

Sul davanti aveva, su due ordini sovrapposti: «4 aperture quasi piccole finestre che si aprono e chiudono al bisogno». La prima apertura, la più grande e posta in mezzo a altre due, destinate alla matematica, faceva apparire agli spettatori vedenti le lettere dell’alfabeto stampate su cartoncino, di circa 15 cm, secondo le esatte regole dell’ortografia: maiuscole, minuscole, doppie, accenti, apostrofi, punteggiatura, ecc. A destra si apriva un’altra piccola finestra per i numeri arabi e le operazioni aritmetiche. Un altro pertugio ospitava cartelli con i numeri romani, utilizzabile «anche per le operazioni dell’algebra». La quarta apertura, posta nell’ordine sottostante e al centro, era una fessura di servizio che serve a chi manipola lo strumento: «È di qua ch’egli vede i segni o le domande per iscritto che gli fa lo spettatore. …[applicando] ai lati del Tachifenografo un cannocchiale» in caso di grande distanza tra operatore e visitatore-interrogante.

Nel retro del marchingegno ligneo v’erano due linee orizzontali tripartite: «due più lunghe ed eguali fra loro sono ai lati del tachifenografo, una terza più corta si trova in mezzo all’armadio-macchina.

Sulle due linee laterali sono praticati due ordini di buchi per li quali passano altrettanti cordoncini destinati a far alzare le lettere o cifre di cui si ha bisogno. Al di sopra di ciascun buco è segnata una delle lettere dell’alfabeto»[51]. Le maiuscole a sinistra, le minuscole a destra con sotto rispettivamente i numeri arabi e romani. Lateralmente stavano poi i segni di punteggiatura e accentazione. Un solo foro non aveva indicazione di alcun segno alfabetico, e nessun segno pende dalla cordicella: se il manovratore la tirava, facilitato dalla presenza di carrucole, indicava a chi osservava che la parola che si stava componendo era finita. L’estremità di ciascuna fune cui era ancorato il segno alfabetico su cartoncino era fissata alla parte inferiore di un filo di ferro, posto perpendicolarmente, mediante il quale si facevano scendere e salire i segni di scrittura. Un accorgimento speciale di incastri impediva alle lettere di scompigliarsi. All’altro capo della cordicella che scorreva nei fori retrostanti dell’armadio-scatola c’erano dei bottoni che il manovratore impugnava per alzare e scendere la lettera. Delle misurazioni temporali che avevano cronometrato la manovrabilità della macchina avevano potuto stabilire che, in mani allenate, si poteva tradurre con questo sistema, una via di mezzo tra la tecnologia del teatro delle marionette, il lavoro al compositoio del tipografo e una versione cartacea della chiamata delle lettere dallo scranno della linotype, circa 80 lettere/segni grafici al minuto.

L’inventore medesimo assicurò che lo strumento poteva esser concepito e costruito: «in maniera da corrispondere simultaneamente con quattro spettatori situati ai quattro punti cardinali» e, opportunamente illuminato, avrebbe funzionato anche di notte[52]. Una successiva smentita sulla reale funzionalità del marchingegno e sul suo impossibile utilizzo in ambito commerciale e militare giunse invece all’Istituto, che per altro lavorava coi propri impianti tipografici per le autorità statali, dal parere stilato, dopo un ulteriore minuzioso esame governativo dell’attrezzo, dal meticoloso Prefetto napoleonico allora in carica a Genova[53].


Fig. 2. Il tachifenografo, visto dal lato dello spettatore (in alto)
e da quello del manovratore (in basso). Interpretazione d’artista di Elena Grossi.

Dell’invenzione, probabilmente poco ergonomica, forse dispendiosa, certo non facile da manovrare, spostare, utilizzare, in mancanza di un’applicazione concreta ad altri settori merceologici, se ne parlò poco nella pubblicistica urbana. Non risulta fosse applicata ad altre scuole o esportata in altri istituti educativi per sordi. L’eco stessa della sua realizzazione si spense presto, divenendo a posteriori forse poco più di una curiosità negli anni trenta, dopo la morte dell’Assarotti e poi un malcerto ricordo, quando dell’oggetto fisico se n’eran probabilmente perse le tracce materiali[54].

Altre fonti locali non ne serbano memoria, né ovviamente l’oggetto oggi pare rintracciabile. Un ultimo ellittico riferimento all’invenzione potrebbe intravedersi nel rammarico di chi lamentò che Assarotti non acconsentì mai a «faire connaître les procédés particuliers» adottati nella scuola, comunque limitati ad un insegnamento elementare, entro il quale forse il marchingegno ligneo di quel tipo nacque e avrebbe potuto servire[55]. In definitiva del curioso e ridondante tachifenografo si sa ben poco e sulla vicenda calò l’oblio del tempo. Rimane tuttavia interessante il tentativo, pluridirezionale come s’è visto, di ispirarsi alla gestualità tipografica, e alla tridimensionalità di molti suoi oggetti, per risolvere problemi didattici e di comunicazione a testimonianza della fecondità inventiva di un sistema di rappresentazione della parola che ha dominato le forme della comunicazione occidentale per cinque secoli. Vale ricordare che in ambito didattico ancora nella scuola elementare italiana, sulla scorta delle esperienze francesi di Célestin Freinet, era in uso negli anni Sessanta e Settanta del Novecento attrezzatura che mimava l’uso d’una piccola tipografia portatile per insegnare agli alunni a leggere e scrivere, componendo (nel doppio senso di elaborare in scrittura ma anche nel senso proprio di formare le parole con la giustapposizione dei singoli grafemi) e redigendo in fine i cosiddetti giornalini scolastici[56].

A dimostrazione forse che servirsi d’una tradizione non sia conservarne le spoglie ma salvaguardarne l’idea.


Fig. 3, 4, 5. Tipografia Scolastica: testimonianze visive dell’uso di torchi portatili nella scuola italiana del secondo Novecento, tratte da La scuola di Mario Lodi, Drizzona, Casa delle Arti e del Gioco – Mario Lodi, 2016, catalogo della omonima mostra a cura di Barbara Bertoletti, Cosetta Lodi, Enrico Platè, Francesco Tonucci, rispettivamente, nell’ordine dall’alto, a p. 40-1, p. 32-3. Per informazioni sulla mostra http://www.casadelleartiedelgioco.it/wmview.php?ArtID=276

[1]    Giovanni Bonifacio, L’arte de’ cenni, in Vicenza, appresso Francesco Grossi, 1616, 4°, p. 593-605; Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano, Saggiatore, 1994; Johann Herczog, Marte armonioso, Galatina, Congedo, 2005. La Convenzione Nazionale era persuasa «della grandissima utilità» del telegrafo parigino installato sul Louvre e intenzionata a moltiplicarne gli esemplari «col massimo ardore». Cfr. Descrizione del telegrafo con rami, Roma, si vende presso Agapito Franzetti a Tor Sanguigna, 1795, p. 6; Descrizione del telegrafo con rami, preceduta da una introduzione istorica sui segnali militari, accompagnata […] dalla spiegazione in caratteri ordinarj di una tavola ideale scritta in caratteri telegrafici, Torino, a spese di Carlo Maria Toscanelli, librajo arcivescovile, 1806.

[2]    Gabriello Busca, Della espugnatione et difesa delle fortezze, in Turino, Nicolò Bevilacqua, 1585, 4°, cap. XVI, p. 245.

[3]    A livello europeo fra i precursori di un’attenzione ai sordi fu Salomon Alberti, Oratio de surditate et mutitate: quæstio an, & quid grandini in sue cum schorbuto in homine sit commercii Salomonis Alberti med. pronunciatæ in æde arcis, insignia doctoris accipiente m. Ernesto Hettenbachio Mergethumensi, Noribergæ, in officina typographica Katharinæ Gerlachiæ, 1591, su cui cfr. Jean-Paul Broonen et al., Salomon Alberti et l‟Oratio de surditate et mutitate (1591): un précurseur idéologique de la rééducation des sourds et des muets à la Renaissance, «L’Orthophoniste», 2015, 350, p. 29-31. L’autore non era certo noto in Italia in quanto censurato e all’indice fra gli autori di prima classe (opera edita auctorum damnatae memoriae) cfr. Index librorum prohibitorum Alexandri VII Pontificis Maximi iussu editus, Romae, Ex Typ. Rev. Cam. Apost. 1667, p. 883.

[4]    Francesco Lana Terzi, Prodromo ouero saggio di alcune inuentioni nuoue premesso all‟arte maestra, in Brescia, per li Rizzardi, 1670, p. 19, 37, 51. Fu tradotto in francese nel XVIII secolo, cfr. Manière d’apprendre à parler aus muets tirée des ouvrage du per Lana «L’Avantcoureur feuille hebdomadaire, où sont annoncés les objets particuliers des sciences & des arts, le cours & les nouveautés des spectacles, & les livres nouveaux en tout genre» (Paris, M. Lambert; Ch., J. Panckoucke), 1770, 46, 12 novembre, p. 726-30.

[5]    Erano centoni di massime esortative dove ogni paragrafo introducendo un brano scritturale incominciava con una data lettera dell’alfabeto: famosi quello dello pseudo Bonaventura e di Tommaso da Kempis; cfr. in una miscellanea di testi ascetici e mistici l’Alphabetum parvum monachi in schola Christi di Tommaso Da Kempis e lo spurio Alphabetum religiosorum incipientium di S. Bonaventura (Biblioteca Apostolica Vaticana, mss. Vat. Lat. 7563).

[6]    Cfr. Comienza el ABC, ò alphabeto del seraphico doctor s. Bonaventura in Melchor Sánchez De Yebra, Libro llamado refugium infirmorum, muy vtil y prouechoso para todo genero de genero de gente, en el qual se contienen muchos auisos espirituales para socorro de los afligidos enfermos, y para ayudar à bien morir a los que estan en lo vltimo de su vida; con vn alfabeto de s. Buenauentura para hablar por la mano, en Madrid, por Luys Sanchez, 1593 p. 147-80. Alessandro Gaddi, L’Opuscolo Bonaventuriano, o attribuito a S. Bonaventura, Alphabetum religiosorum incipientium rivendicato, nella storia della pedagogia emendatrice, alle origini letterarie del metodo mimico per la istruzione dei minorati dell‟udito e della loquela, «Doctor Seraphicus», 15, 1968, p. 71-6.

[7]    Si vedano per esempio dita e mani a figurare la numerazione nel codice Beda del IX secolo, immagine posta alla fine del Liber de tempora et horas et momentis, c. 118v (Biblioteca Apostolica Vaticana, Mss. Palatino latino 1449, visibile all’indirizzo http://digi.vatlib.it/view/bav_pal_lat_1449/0248, ultima cons.: 9.3.2017); oppure altre mani nel De numeris di Rabano Mauro, c. 251v-252r, nel codice miscellaneo Glossarium latinum (Bibliotheca nacional de Portugal, Manuscritos reservados alc-426, visibile al sito http://purl.pt/23860, ultima cons.: 9.3.2017). Nell’edizione princeps di Luca Pacioli del 1494 come nelle versioni cinquecentesche una tavola illustra come contare su una sola mano.

[8]    Si veda la doppia coppia di mani, la prima con rinvii numerici per ricordare i capitoli del libro, la seconda con 30 piccoli ritratti di santi posizionati sulle falangi in apertura e chiusura di Stephan Fridolin, Schatzbehalter der wahren Reichtümer des Heils, Nürnberg, Anton Koberger, 8. Nov. 1491, c. E6v-Fv; V3v-V4r.

[9]    Cfr. Index of the following alphabet of action or table or rethoricall indigitations in John Bulwer, Chirologia or the Naturall Language of the Hand. Composed of the speaking motions, and discoursing gestures thereof. Whereunto is added, Chironomia or, the Art of manuall rhetoricke, London, printed by Tho. Harper, sold by Henry Twyford, 1644, p. 91, 934-95; p. 39, 97-8. Su di lui e sulle sue fonti italiane cfr. Jeffrey Wollock, John Bulwer and his Italian sources in Italia ed Europa nella linguistica del Rinascimento, Atti del convegno internazionale, 20–24 March 1991, a cura di Mirko Tavoni, Ferrara Istituto di studi rinascimentali, 1996, II, p. 417-33. Per l’Italia cfr. Vicente Requeno y Vives, Scoperta della chironomia ossia Dell’arte di gestire con le mani, Parma, per li fratelli Gozzi, 1797, 8°.

[10]    Il problema sorgeva, per esempio, nei casi della confessione orale richiesta dalla confessione cattolica che fin da subito venne equiparata ad una confessione gestuale: cfr. Manuel Rodríguez, Explicación de la Bulla de la Cruzada y del Motu propio de su Santidad, Alcalà, Iñiguez de Lequerica, 1589, 4°, p. 22.

[11]    Gian Maria Varanini, Deformità fisica e identità della persona tra medioevo ed età moderna, atti del XIV convegno di studi organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo, San Miniato 21-23 settembre 2012, Firenze, University press, 2015, p. 51-5; Cosima Rusciano, Evoluzione storica dell’educazione dei sordi, «Studi di Glottodidattica», IV, 2010, 1, p. 230-47.

[12]    Vedi nota 3. Uno dei primi trattati medici italiani interamente dedicati agli organi dell’udito che indaghi le cause della sordità è di Giulio Casseri, De vocis auditusque organis historia anatomica, Ferrariae, Patauii, excudebat Victorius Baldinus, sumptibus Vnitorum, 1600, 2°.

[13]    L’autore Thomas Mace, inventore di un liuto di 50 corde, si dichiara sordo a p. 203 della propria opera Musick’s monument or a remembrancer of the best practical musick, London, T. Ratcliffe and N. Thompson, for the Author, 1676, discutendo poi della possibilità di far ascoltare la musica ai sordi. Di lui parlò Isaac Newton, H. W. Turnbull editor, The correspondence of Isaac Newton, I, 1661-1675, Cambridge, University Press, 1959, p. 359, lettera del 30 novembre 1675.

[14]    Il cosiddetto alfabeto de S. Bonaventura «para hablar por la mano» era stato pensato per i confessori dei sordomuti. Vedi nota 6. Nella prima età moderna, nuove sensibilità pedagogiche e preoccupazioni teologiche erano sovente interconnesse anche nella trattatistica dedicata ai normodotati o pensata solo per essi. Folgorante esempio, anche per come è stato interpretato dalla critica e per l’influenza che il suo Orbis pictus ebbe sull’insegnamento per immagini, è quello di Amos Comenius su cui cfr. Étienne Krotky, Former l’homme. L’éducation selon Comenius (1592-1670), Paris, Sorbonne, 1996, per la prospettiva didattico-formativa e Olivier Cauly, Comenius, Paris, Félin, 1995, per la opposta lettura teologica.

[15]    Girolamo Cardano, Opera omnia, Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci Antonii Ravaud, 1663, 10 vol., fol., in part. il Paralipomenon liber tertius, cap. VIII: De surdo et mutos literas edocto, p. 462: «possumus efficere ut mutus legendo audiat et scribendo loquatur». Giovanni Battista Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo decimosesto, Torino, Paravia, 1897, p. 249; Antonino Pennisi, Ingenium et patologie del linguaggio. Su alcune fonti della linguistica vichiana, in La linguistique entre mythe et histoire, actes des journées d’étude organisées les 4 et 5 1991 à la Sorbonne en l’honneur de Hans Aarsleff, Daniel Droixhe, Chantal Grell (éds.), Münster, Nodus, 1993, p. 111-43.

[16]    Cosimo Rosselli, Thesaurus artificiosae memoriae. Concionatoribus, philosophis, medicis, iuristis, Venetiis, apud Antonium Paduanium, 1579, 4°, p. 101, «Alphabetum à varia digitorum dispositione desumptum». Alcune figure lì illustrate sembrano aver avuto lunga vita nella tradizione linguistica dei non udenti.

[17]    Vedi nota 7, il caso di Luca Pacioli.

[18]    George Dalgarno, Didascalocophus or the Deaf and dumb man’s tutor, Oxford, Printed at the Theatre, 1680, p. 8-9; Alphonse Costadeau, Traité historique et critique des principaux signes dont nous nous servons pour manifester nos pensées, Lyon, Veuve J. Bapt. Guillemin & Theodore l‘Abbé, 1717, 8 vol.

[19]    Francis Mercurius Helmont, figlio di un noto medico fiammingo, fu un filosofo imprigionato dall’Inquisizione romana perché ebraizzante; in prigione concepì l’opera, autopubblicata, Alphabeti verè naturalis Hebraici breuissima delineatio. Quae simul methodum suppeditat, juxta quam qui surdi nati sunt sic informari possunt, ut non alios saltem loquentes intelligant, sed ipsi ad sermonis usum perveniant, Sulzbaci, Abrahami Lichtenthaleri, 1657, 12°, con cui asseriva di poter insegnare ai sordi (perché i suoni di quella lingua sarebbero innati nell’uomo) come un linguaggio naturale. Le illustrazioni che corredano il testo propongono corrispondenze (fantasiose) fra la forma delle lettere ebraiche e gli organi della fonazione, suggerendo anche l’atteggiamento e l’impostazione delle labbra nell’emissione del suono. Forse anche per questa curiosità il testo, talora oscuro, venne recentemente riproposto proprio ad un pubblico di non udenti nella ristampa e traduzione italiana Scuola tipografica dei sordomuti, Siena, 1960, all’interno della collana «Biblioteca» del periodico «L’educazione dei sordomuti».

[20]    Nel Settecento un aggiornamento delle tecniche tachigrafiche e d’abbreviazione ereditate dal mondo romano e medievale unitamente all’esigenza di registrare dialoghi velocemente portò non solo al diffondersi di metodi stenografici ma alla nascita di periodici specializzati: cfr. «Journal logotachigraphique de la Société des amis de la constitution, séant aux Jacobins, d’après les procédés inventés par F. E. Guiraut, de Bordeaux», menzionato in Sophia Rosenfeld, A Revolution in Language. The Problem of Signs in Late Eighteenth-Century France, Stanford, California University Press, 2004, p. 200.

[21]    Dalgarno, piratato in patria, non ebbe particolare diffusione, pur essendo noto a Leibnitz. La stretta connessione concettuale fra ricerca di una lingua dei segni per non udenti e identificazione d’un linguaggio universale è emblematicamente simboleggiata anche da uno dei suoi posteriori editori (non specificato né al frontespizio né al colophon). Questi nel 1834 fece uscire a Edimburgo per il Maitland Club in un volume unitario la ristampa sia del Didascalophus che della precedente Ars Signorum, vulgo charater universalis et lingua philosophica, qua potuerunt homines diversissimorum idiomatum spatio duarum septemanarum omnia animi sui sensa, in rebus familiaribus non minus intelligibiliter, sive scribendo, sive loquendo mutuo communicare quam linguis propriis vernaculis, London, J. Hayes, sumptibus Authoris, 1661.

[22]    Juan Pablo Bonet, Redvction de las letras y artes Para enseiñar a ablar los mvdos, Madrid, Francisco Abarca de Angulo, 1620, 4°, propugnava un alfabeto di segni alfabetici resi manualmente, esplicitato soprattutto al libro II e nelle tavole illustrative inserite nella sua opera e intitolate Abbecedario demonstrativo. Egli tuttavia riferisce di precedenti tentativi di fine Cinquecento operati da padre Pedro Ponce de Leon di una istruzione attraverso il metodo invece orale. In generale per il mondo iberico cfr. Susan Plann, A silent minority, deaf education in Spain, 1550-1835, Berkeley et al., University of California press, 1997.

[23]    Barbara Maria Stafford, Artful science. Enenlightenment entertainment and the eclipse of visual education, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1994.

[24]    Dictionnaire de l’Académie françoise. Nouvelle édition, I, Paris, Gaude, 1777, p. 640, «On appelle Bureau typographique, une invention moderne, au moyen de laquelle on apprend à lire, en faisant à peu-près les mêmes opérations qu’un Compositeur d’Imprimerie». Louis Moréri, Le grand dictionnaire Historique ou le mélange curieux de l’Histoire sacrée et profane, III, Paris, Libraires Associés, 1759, fol., p. 123-4, «Dès le berceau on lui apprit à connoître les lettres par le systême du bureau typographique». Louis Dumas, La Bibliothèque des enfants ou les prémiers éléments des lettres, Contenant le Sisteme du bureau tipographique. Le nouvel ABC latin. Le nouvel ABC françois. L’essai d’un rudiment pratique de la langue latine. L’introduction générale à la langue françoise. Diferentes pieces de lecture sur les premieres notions des arts et des sciences, Paris, Chez Pierre Simon, 1733, in particolare per la descrizione dell’alfabetiere in stoffa e poi a forma di cassa art. I-II, p. 1- 40; su di lui, e la sua economicamente fallimentare invenzione, affrontabile solo dall’aristocrazia, cfr. Marcel Grandière, Louis Dumas et le système typographique, 1728- 1744, «Histoire de l’éducation», LXXXI, 1999, p. 35-62, ove è presente una illustrazione raffigurante l’ingombrante cassone con cui insegnare la lettura. Il sistema venne, senza menzionarne esplicitamente l’inventore, criticato da Rousseau nel secondo libro dell’Émile, cfr. Jean-Yves Serandin, Une autre façon d‟enseigner la lecture au XVIII sieècle. La méthode des mots entiers, «Les actes de Lecture», XCVII, 2007, p. 22-35, a p. 28; Michèle Sacquin, Le printemps des génies: les enfants prodigies, édité et présenté par Michèle Sacquin, avec la collaboration de Emmanuel Le Roy Ladurie (avant-propos), Marc Fumaroli (conclusion), et al., Paris, Bibliothèque nationale, 1993.

[25]    Si vedano i telegrafi con la loro asta fissi al banco, telegrafi di calligrafia numerica fissi davanti al banco, telegrafi di calligrafia assortita in cartoni mobili con cassetta inventariati in Guida per le scuole di reciproco insegnamento, Firenze, Gregorio Chiari, 1830, p. 5, 59-61.

[26]    John Willis corrispondeva col presidente Hans Sloane e più tardi si discuteva di scuole per sordociechi: London, Royal Society, Past Fellows 117, Early Letters, EL.W2-80, 30 settembre 1698; MM-3-83, pamphlet (XVIII sec.) di Jean Joseph Beylot, un esule della rivoluzione francese a Bath, su Education and Board for Children Born Deaf and Dumb; (1735). A Berlino si esaminavano i resoconti delle opere di de L’Epée, e lo stesso presidente dell’accademia pubblicava sull’argomento: Jean-Henri-Samuel Formey, Sur la meilleure manière d’instruire les sourds et les muets, «Nouveaux Mémoires de l’Académie Royale des Sciences et Belles Lettres» [Koniglich Preussische Akademie der Wissenschaften zu Berlin], Berlin, Chrétien Fréderic Voss, 1785, p. 47-52; Berlin, Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, Akademiebibliothek, Protokols, 23 giugno 1785, p. 397. In entrambi gli enti sono frequenti le tematiche della sordità discusse a più riprese e in più anni.

[27]    Si veda la singolare esperienza di un sordomuto scozzese, autore anche di rimedi miracolosi, in The History of the Life and Adventures of Mr. Duncan Campbell, un testo ripubblicato più volte nel corso del Settecento inglese.

[28]    Sono noti casi di maschi non udenti esercitare la professione di decoratore, miniature, poeta e pittore, come il Pinturicchio, sul finire del Medioevo; Giovanna, la figlia di Giacomo I re di Scozia, è forse la prima donna accreditata sorda e comunicante con un certo linguaggio fatto di segni cfr. Peter Jackson and Raymond Lee, Deaf Lives. Deaf People in History, Middlesex, British Deaf History Society, 2001, p. 153; Emanuele Filiberto Savoia di Carignano ebbe l’opportunità di una educazione specializzata impartita dal religioso Manuel Ramirez de Carrion e poté assolvere funzioni militari, al soldo del re di Francia, e di governo: vedi Leila Picco, Il Savoia sordomuto. Emanuele Filiberto di Savoia Carignano 1628-1709, Torino, Giappichelli, 2010.

[29]    Julien Offray de La Mettrie, Oeuvres philosophiques, I, Amsterdam, s.t., 1753, p. 172-91. «L’Avantcoureur. Feuille hebdomadaire, où sont annoncés les objets particuliers des sciences & des arts, le cours & les nouveautés des spectacles, & les livres nouveaux en tout genre», Paris, M. Lambert; Ch. J. Panckoucke (Paris), 12.11.1770, 46, p. 726-9.

[30]    Le Maitre [sic! Johann Heinrich Meister?], Relation d’un peitre sourd et muet de naissance, «Bibliothèque germanique ou histoire litteraire de l’Allemagne de la Suisse et du pays du nord, Année MDCCXXXII, tome vingt-troisieme», Amsterdam, Humbert, 1732, p. 119-39: «nos idées ne dependent point de nos paroles mais il y a des principes par les quells nous pouvons distinguer le vraix d’avec le faux et le juste d’avec l’injuste soit que nous sachions exprimer dans une langue connue soit que nous ne sachions pas». Per l’autore cfr. Johann Jacob Moser, Lexicon der jeztlebenden Lutherisch- und Reformirten Theologen, II, Züllichau [Sulechów], Waisenhaus, B. G. Frommannen, 1741, p. 474.

[31]    Joseph-Marie de Gérando, Des signes et de l’art de penser considérés dans leurs rapports mutuels, Paris, Goujon fils, Fuchs, Henrichs, VIII, 1799-1800, 8°, p. 416, (rist. it. e trad. a cura di Marina Sanlorenzo; presentazione di Carlo Sini, Milano, Spirali/Vel, 1991). Sui sotterranei legami tra segni, numeri e educazione dei non udenti va almeno ricordato il fatto che uno dei primi teorici inglesi ad occuparsene fu il professore oxoniense di matematica e geometria John Wallis, cfr. la sua Letter to Mr. to Mr. Thoma’s Beverly Concerning His Method for Instructing Persons Deaf and Dumb, «Philosophical Transactions», XX, 1698, 1 gennaio, p. 353-60; un altro suo analogo intervento Ibid., LXXV, 1670, 1 gennaio, p. 1087-99.

[32]    Joseph de Maimieux, Pasigraphie, … ou …, premiers elemens du nouvel art-science d’ecrire et d’imprimer en une langue de maniere a etre lu et entendu dans toute autre langue sans traduction; inventes et rediges par J.*** de M***, ancien major d’infanterie allemande…, Paris, Au Bureau de la pasigraphie, 1797, 4°, p. 3. L’inventore di tale lingua planetaria, un sistema convenzionali di segni comprensibili da chicchessia, era, si badi, un militare. La lettera prefatoria d’apertura, cortese ma senza apprezzamenti specifici, è dell’abate Ambroise Sicard della scuola parigina dei sordomuti. Da essa emerge una programmata collaborazione lavorativa e compositiva fra i due venuta a mancare per gli oberanti impegni di Sicard.

[33]    Il «Journal des sçavans» per esempio segnalò (marzo 1776 e 1777) sia l’opera del sacerdote Charles Michel de L’Epée, La veritable maniere d’instruire les sourds et muets, confirmee par une longue experience, che ampiamente (p. 1595-603) l’uscita del Cours élémenataire d‟education des Sourds et Muets dell’istitutore Claude François Deschamps (agosto 1779) espressione di due correnti pedagogiche diverse. In Italia fu il gesuita esule Juan Andrés a sistematizzare la materia per la prima volta nella sua lettera Dell’origine e delle vicende dell’arte d’insegnar a parlare ai sordi muti, s. n. t., [dopo il 1793], 12°. Per la situazione della penisola in età pre e post preunitaria vedi Roberto Sani, Educazione dei sordomuti in Italia prima e dopo l’Unità in L’educazione dei sordomuti nell’Italia dell’800. Istituzioni, metodi, proposte formative, a cura di Roberto Sani, Torino, Società Editrice Internazionale, 2008, p. 3-37.

[34]    J. H. S. Formey, Sur la meilleure manière d’instruire les sourds et muets, cit., vedi nota 23.

[35]    Notice sur l’institution nationale des sourds-muets de Paris depuis son origine à nos jours (1760-1896), Paris, typographie de l’Institution Nationale, 1896. La scuola possedeva un museo dedicato ai sordi forse il primo europeo, che disponeva a fine XIX d’una cospicua biblioteca, cfr. Gervais A.F.A. Debax, Adolphe Belanger, Catalogue de la bibliothèque de l’Institution Nationale des sourds-muets de Paris, Paris, Atelier de typographie de l’Institution Nationale des jeunes Sourds, 1897.

[36]    Pierre-Thomas-Nicolas Hurtaut, Magny, Dictionnaire historique de la ville de Paris, II, C-E, Paris, Moutard, 1779, 8°, p. 718.

[37]    Charles Barbier, Typographie Privée, de Poche et D‟ambulance, approuvée par l‟Académie royale des sciences pour sa simplicité et la grande facilité de sa mise en pratique, Paris, Bachelier, 1832, p. 27, nota*.

[38]    Va ricordato che la diffusione della stessa macchina per scrivere, prima di trovare consenso nel mondo commerciale e letterario, era destinata per l’insegnamento dei non vedenti. Alcuni prototipi e esperimenti iniziali di discreta diffusione erano varianti espressamente pensate per i ciechi. A Vienna Johann W. Klein inventò un marchingegno portatile con caratteri in piombo; a Manchester nel 1850 circa nasceva il Typograph, in legno e ottone che rammenta in qualche misura il funzionamento di un novecentesco normografo; il francese Pierre Foucault inventò una tastiera tipografica, clavier typographique, con analoghi intendimenti. Alcune macchine sono visibili alla mostra virtuale Touching the Book. Embossed Literature for Blind People in the Nineteenth Century http://blogs.bbk.ac.uk/touchingthebook, ultima cons.: 17.3.2017, e http://www.historyrevealed.com/gallery/touching-book, ultima cons.: 17.3.2017, ma si veda anche How We Read: A Sensory History of Books for Blind People http://www.howweread.co.uk, ultima cons.: 17.3.2017, e Wershler-Henry Sean Darren, The Iron Whim. A Fragmented History of Typewriting, London, Cornell University Press, 2007, p. 47; Ivan Raykoff, Piano, Telegraph, Typewriter, listening to the Language of Touch, in Colette Colligan, Margaret Linley, Media, technology, and literature in the nineteenth century, image, sound, touch, London-New York, Routledge, 2011, p. 159-88, a p. 169.

[39]    Federico Alizeri, Guida artistica per la città di Genova, II, Genova, Gio. Grondona editore librajo; Giorgio Franz in Monaco, p. 1008.

[40]    Antonella Dolci, Assarotti Ottavio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 4, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1962, p. 433-4. Un ritratto del religioso, non datato non attribuito, alquanto singolare e esplicativo lo ritrae in posa classica seduto al tavolo da lavoro intento nella lettura di due volumi rilegati con alle spalle un quadro appeso alla parete ove si distinguono le raffigurazioni dei segni manuali e dei gesti corporei da lui escogitati per indicare e sostituire le lettere dell’alfabeto nel linguaggio dei segni (parzialmente visibile al sito http://www.fondazioneassarotti.it/la-fondazione/storia, ultima cons.: 9.3.2017; l’Istituto educativo, interpellato per un possibile approfondimento non ha ritenuto utile rispondere).

[41]    Luigi Boselli, Sui sordo-muti: sulla loro istruzione e il loro numero, Genova, Tip. Y. Gravier, 1834. Il periodico locale «Magazzino pittorico Universale» (1834-1837) dedica spazio alla scuola e alla celebrazione del fondatore, cfr. per esempio 1834, 49, p. 143; 50, p. 201. Il «Museo scientifico, artistico e letterario», pubblica una Biografia del P. Ottavio Assarotti, XLIII, 1839, p. 337-41.

[42]    La tipolitografia e cromolitografia di quello che poi coi Savoia diverrà Regio istituto Sordomuti, aveva sede in via Serra. Stampava libri e periodici («Michelangelo»; «Rivista Ligure»). Una collegata libreria era in piazza delle Fontane Marose e riforniva di materiale didattico le scuole (pallottolieri, alfabetieri, carte geografiche, globi, quadri di nomenclature, atlanti, cancelleria). Cfr. «Il sentimentale. Giornale letterario», [Genova, Sordomuti], I, 1900, 1, 15 ottobre. A fine Ottocento le scuole italiane per sordomuti, tutte dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione, erano 19, ciascuna con regolamenti e orientamenti didattici propri e differenti; molte avevano contatti con tipografie collegate o ne gestivano di proprie interne come a Siena; a Pavia insieme ai fanciulli emarginati i sordi erano avviati al lavoro in una officina indipendente Artigianelli, cfr. Giulio Nazari, Manuale della pubblica istruzione secondo le leggi, i decreti e le circolari vigenti nel Regno d’Italia, Belluno, tip. A. Tissi, 1870, p. 176; Pier Vittorio Chierico, L’Istituto pavoniano Artigianelli di Pavia, 1892-1967 storie di ragazzi e di mestieri, Pavia, Pime, 2013.

[43]    Su alcuni aspetti della didattica impartita cfr. Mario Gecchele, Origini e primi sviluppi dell’Istituto Nazionale per i Sordomuti di Milano in L’educazione dei sordomuti nell’Italia dell’800, a cura di R. Sani, cit. p. 111-70, a p. 136, note 36 e 37.

[44]    Insegnante tale Guglielmo Lavers che la fonte accredita poi in India. Sarebbe interessante capire se l’attività filantropica condotta da questo suddito britannico fosse motivata anche da esperienze di sordità sperimentate nel proprio ambiente. Una prima ricerca per una possibile identificazione del soggetto ritorna la ditta Anderson & Lavers che nel 1819 subastava spezie nel magazzino sito a S. Lorenzo («Gazzetta di Genova», stamp. Dell’Istituto e della Gazzetta Nazionale, 1819, 10, 3 febbraio, p. 37 e 61, 31 luglio, p. 269). I Lavers, di passaggio a Milano per Ginevra nel 1825 («Gazzetta di Milano», 1825, 271, 28 settembre, p. 1074) se ne partono da Genova per Venezia («Gazzetta privilegiata di Milano» 1832, 249, 5 settembre, p. 1002) e son attestati a Trieste («Il diavoletto giornale diabolico politico umoristico comico critico e se occorre pittorico», Trieste, tipografia del Loyd austriaco, IV, 1851, 29, 30 gennaio, p. 116) a Shanghai (Lawers & Clark agenti assicurativi «The Directory & Chronicle for China, Japan, Corea, Indo-China», Hongkong, Hongkong Daily Press Office, 1909, p. 858). Le fonti inglesi restituiscono un William Lavers socio di un commerciante di vino fallito nel 1831 (Monthly list of Bankrups, dividendns and certificates, in «The Law journal, comprising […] Bankruptcy Cases. Common Law Cases 1836-1858», X, 1832, p. 8; fallimento confermato anche da altre fonti). Altri omonimi risultano commercianti di legnami cfr. Trade Directories Kelly’s Directories from 1845 consultabile al sito http://www.hertfordshire-genealogy.co.uk/data/directories/directories-kelly.htm, ultima cons.: 9.3.2017.

[45]    Charles Edward H. Orpen, The contrast between atheism, paganism and Christianity, Dublin, Thomas Collins the first pupil of the deaf and dumb institution M. Goodwin, 1827, p. 131; la notizia fu poi ripresa da William White, Notes and queries, amedium of intercommunication for Litery men, general Readers, II, 1880, 10 gennaio, p. 38, dando spazio a una richiesta di William E. A. Axon.

[46]    Esperimento delli sordi-muti liguri Antonio Daneri, Filippo Castelli, Luigi Oliva, Domenico Megliorino, Biagio Viano, Luigi Scotto sulla loro istruzione dei primi tre anni…, Genova, stamperia Delle Piane, 1804, fol.: gli esaminatori interrogavano gli alunni sulla base di domande prestampate e sorteggiate su qualunque argomento letterario storico aritmetico. AD, Kleine Schriften, «Jenaische Allgemeine Literaturzeitung», VII, 1810, 56, 8 marzo, col. 448. «Georgia oder der Mensch im Leben und im Staate», I, 1806, 13 aprile, col. 369-70. Antoine Claude Pasquin Valery, Voyages historiques et littéraires en Italie pendant les années 1826, 1827 et 1828, Bruxelles, L. Hauman et C. libraires, 1835, p. 508.

[47]    Sulla etimologia del termine, assente da qualunque dizionario, ho ricevuto conferma e precisazioni dal collega Federico Condello che ringrazio insieme a Paolo Tinti. La tripartita composizione del neologismo combina prefissoidi e suffissoidi in uso ma che rinviano ai tre gesti/movimenti che erano proprio alla base del funzionamento della macchina: essa scriveva [grapho] mostrando [phaino] rapidamente [tachy].

[48]    Cfr. F. Alizeri, Guida, cit. p. 1015: la sua descrizione, non potendo per ragioni anagrafiche esserne stato testimone, è in effetti letteralmente copiata da Matteo Marcacci, Elogio funebre del padre Ottavio G. Batt. Assarotti delle scuole pie fondatore del regio istituto dei sordo-muti di Genova, Livorno, Giulio Sardi, 1831, p. 133-314.

[49]    Charles Edward Herbert Orpen, Annals of the deaf and dumb, London, Tims, 1836, p. 276, 282, 319-321. Il redattore s’avvale anche delle Osservazioni all’opuscolo «Cenni storici sulle Instituzioni de Sordi-muti e de’ Ciechi. Torino 1823» in forma di lettera da P.G.E. Lobesio genovese indirizzate all’autore Giovanni Battista Scagliotti Institutore dei Sordomuti e Ciechi in Torino, Nizza dalla Stamperia della Società Tipografica, 1825, che sembrano irreperibili. Un G.G.F. Lobesio è comunque ricordato, esattamente con lo stesso titolo, sia da Alfred Legoyt, Compte rendu de la deuxième session du Congrès internationale de statistique, Paris, Imprimerie de madame Veuve Bouchard-Huzard, 1856, p. 468, che da Charles Guyot, Rembt Tobias Guyot, Liste littéraire philocophe, ou catalogue d’étude de ce qui a été publié jusqu’a nos jours sur les Sourds-muets, Groningue, J. Oomkrens, 1842, p. 34. Lobesio fu studente a Genova con alto grado di istruzione e conoscenza linguistica, cfr. Michele Ponza, Annotatore piemontese, ossia giornale della lingua italiana, Torino, tip. Cassone, Marzorati, Vercellotti, 1832, p. 89: Esempio di mirabile maneggio della lingua.

[50]    Vedi nota 45.

[51]    Raffaele Drago, Cenni sul R. Istituto de’ sordo-muti in Genova, Genova, coi tipi del R.I. de’ sordo-muti, 1867: Descrizione estratta dal Monitore della 28° Divisione militare dell’impero francese n. 62, 3 agosto 1808, p. 110-2. Giovanni Battista Rampoldi, Cronologia universale, Milano, Fontana, 1828, p. 615.

[52]    R. Drago, Cenni sul R. Istituto de’ sordo-muti, cit., p. 79; Silvio Monaci, Storia del R. Istituto Nazionale pei sordomuti in Genova, Seconda edizione accresciuta con note, illustrazioni e documenti, Genova, Tip. dell’Istituto Sordomuti, 1901. Il giornale governativo che ne diede notizia era l’erede d’un foglio locale che aveva cambiato il nome della testata con l’arrivo dei francesi cfr. Marina Milan, Giornali e periodici a Genova tra Ottocento e Novecento in Storia della cultura ligure, a cura di Dino Puncuh, III, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 2004, p. 477-544; Maria Elisabetta Tonizzi, Genova e Napoleone 1805-1814, «Società e Storia», CXL, 2013, p. 343-71.

[53]    Si tratta di Marie Just Antoine de La Rivoire de La Tourrette, definito da Napoleone «homme de carrière ferme», cfr. Napoléon Bonaparte, Correspondance générale presentation du baron Gourgaud; introduction generale de Jacques-Olivier Boudon, IX, Wagram Mars 1809 – février 1810, Préface de Michel Kerautret; volume placé sous la direction de Patrice Gueniffey en collaboration avec Michel Inglebert; assisté de François Houdeck et al., Paris, Fayard, Fondation Napoléon, 2013, lettera dell’11 febbraio 1809, n. 20001.

[54]    «Gazzetta di Genova», 1808, 2 novembre, p. 357; Lorenzo Isnardi, Storia della università di Genova, II, Genova, coi tipi del R. I. de’ sordo-muti, 1861-1867, p. 241.

[55]    De Gérando, Joseph Marie, De l’éducation des sourds-muets de naissance, II, Paris, Méquignon ainé père éditeur, 1827, p. 235.

[56]    Célestin Freinet (1896-1966) famoso pedagogista innovatore, promosse sperimentazioni tipografiche in aula, cfr. Victor Acker, Célestin Freinet (1896-1966) l’histoire d’un jeune intellectuel, Paris, L’Harmattan, 2006; Angela Maltoni, Sperimentazione e Didattica, Spunti pedagogici Célestin Freinet a Bar-sur-Loup e “L’imprimerie à l’Ecole”, in http://www.angelamaltoni.com/celestin-freinet-a-bar-sur-loup-e-limprimerie-a-lecole/, ultima cons.: 9.3.2017. A lui si deve l’uscita di un periodico (prima bollettino dattiloscritto, poi a stampa) dal titolo L’Imprimerie à l’école che dal numero di ottobre 1927 (anno 2 numero 7) esibisce sotto il titolo fra le altre immagini lo schizzo di una platina e di una vite di pressione d’una macchina da stampa. L’immagine è consultabile al sito dell’Institut cooperatif de l’école moderne https://www.icem-pedagogie-freinet.org/archives/ie, ultima cons.: 9.3.2017. Egli diede vita a un movimento di rivalutazione del gesto tipografico in quanto movimento, fisicità della scrittura e del pensiero, che si configurava come pedagogia attiva in cui la produzione di scrittura generava lettura (“pratiquer la lecture globale avec l’imprimerie“, cfr. Lucienne Balesse, La lecture par l’imprimerie à l’école, Cannes, École Moderne Française, 1961). Si vedano alcune presse à volet in alluminio e del materiale vario per la stampa proveniente da alcune scuole che adottarono i principi della sua didattica in Les tems des instituteurs. Célestin Freinet et l’école moderne consultabile al sito http:\\www.le-temps-des-instituteurs.fr/ped-freinet.html, ultima cons.: 9.3.2017. La sua pedagogia ebbe seguito in Francia, Belgio: cfr. N. Bouté, A l’école de Gutenberg. L’imprimerie scolaire dans le canton d’Ath. Introduction de Léon Jeunehomme, Liége, Desoer, 1938 (dove l’immagine della tipografia è in copertina); Marc Depaepe, Maurice De Vroede, Frank Simon, L’implantation des innovations pédagogiques, le cas du Plan d’études de 1936, in René Poupart, François Bovesse et l’éducation, Mons, Editions universitaires de Mons, 1992, p. 40-1, ma trovò seguaci anche in Italia, cfr. Mario Lodi maestro, con pagine scelte da C’è speranza se questo accade al Vho, a cura di Carla Ida Salviati, Firenze-Milano, Giunti, 2015. Altre fonti in MUNAÉ Le Musée national de l’Éducation, https://www.reseau-canope.fr/musee/collections/fr/museum/mne?typeDeDocument%5B0%5D=livre&auteurs%5B0%5D=Lucienne+Balesse&auteurs%5B1 %5D=C%C3%A9lestin+Freinet, ultima cons.: 9.3.2017.

Linguaggio dei segni, macchine per comunicare. Il Tachifenografo (1808) fra tipografia e manualistica sulla sordità d’antico regime (XVI-XVIII)* – di Anna Giulia Cavagna

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