Sono stata disabile, per circa 5 anni. Ho provato sulla mia pelle il disagio degli sguardi curiosi, la fatica del camminare con le stampelle, la difficoltà di fare qualsiasi cosa con le mani impegnate. Ho sofferto perché tutti, anche i miei cari, dopo un po’ di tempo si sono abituati alla mia disabilità… Davano per scontato che potessi fare solo qualcosa, non tutto. Per qualche tempo, è venuta ad abitare con noi mia suocera. È stata preziosa, mi ha aiutato e sostituito, ha curato con infinita tenerezza i miei bambini, ma dopo un po’, per altri problemi familiari, è andata via. Allora, quando non sono potuta più rimanere da sola con marito e due bambini, sono tornata a casa di mio padre, a 1000 chilometri di distanza; i bambini hanno cambiato uno la scuola, l’altro l’asilo, mio marito si è messo in aspettativa per un breve periodo, in attesa di capire quanto sarebbe durata la mia convalescenza.

I primi giorni sono venuti a trovarmi parenti, amici, compagne di liceo e colleghe di università. Poi, basta. Compiuto il dovere, ognuno ha ripreso il suo ritmo abituale.

Purtroppo, per me la permanenza a casa di mio padre non è stata una convalescenza, ma una pausa tra un intervento chirurgico e un altro. Quando mi sembrava che le cose andassero bene, un intoppo, una caduta, un dolore – non solo fisico – mi sconvolgevano la vita, o almeno i progetti.

Una volta, a fine agosto, per non far preoccupare mio padre, ho finto di aver preso solo una storta, sono rimasta seduta per tre giorni, sapendo bene che l’osso si era rotto di nuovo, perché volevo tornare nel “mio” ospedale, dove ero diventata amica di medici, fisioterapisti e infermiere, e avevamo ancora tre giorni di vacanza! andare a letto era una tragedia perché mio marito doveva prendere la mia gamba e appoggiarla sul letto, come un pezzo di legno; salire al piano superiore per andare in camera da letto era ogni volta sforzo e scommessa.

Infine, tornai nel “mio” ospedale per il terzo intervento, dopo un viaggio in auto di dodici ore e qualche sosta complicata in autogrill. A partire dal secondo ricovero, sempre i medici facevano aleggiare sulla mia testa l’ipotesi dell’amputazione!

Insomma, anni difficili, a casa sgusciavo piselli o rammendavo calzini per rendermi utile. Avevo per fortuna tanto tempo per leggere! E dopo tanti sdegnosi rifiuti di fronte a “Via col vento” che pensavo fosse uno stupido romanzo rosa, ho preso in mano i quattro volumetti di mio padre e…mi sono ricreduta. Il romanzo mi è piaciuto, Rossella mi ha fatto compagnia, avrei voluto anche io strappare qualche tenda e farmi un abito stile ‘800, Rett era affascinante, Melania antipatica perché troppo perfetta, Ashley insopportabile… naturalmente era la prima edizione in italiano e la traduzione mi sembrava poco curata, mentre la lingua era ormai obsoleta, con tanti <<oh… ahhhh… ohhh>>. Perciò, appena ho potuto, ho comprato e riletto una traduzione contemporanea, che rende la lettura più scorrevole. E ho avuto modo di riflettere sull’importanza della traduzione: se non leggi un’opera in lingua originale, leggi qualcosa di diverso, perché penso che ogni traduttore, anche bravissimo, lasci una traccia: insomma, se traduce senza tradire, comunque trans ducet.

Devo ammettere che per guarire ce l’ho messa tutta, sono stata fortunata perché il mio male non era maligno, quindi ho sopportato osteosintesi e viti infissi nella mia gamba, ma alla fine tutto è andato bene, con l’aiuto di magnetoterapia e ginnastica a gogò. Ho la mia gamba intera e sana, senza chiodi e placca, ho ripreso ad andare in bicicletta e a sciare, cammino veloce come un bersagliere… ma capisco cosa prova chi ha bisogno di aiuto per chiamare l’ascensore o portare un pacchetto, chi deve essere sostenuto per affrontare un gradino che gli sembra una montagna, chi in carrozzella deve aggirare automobili biciclette motociclette e monopattini che occupano gli scivoli (quando ci sono), soprattutto chi vede su di sé sguardi di commiserazione o chi si sente escluso dal gruppo di amici che organizza una gita.

Che dire? Ci sono tante disabilità, ciascuna toglie qualcosa a chi ne è affetto, può dare in cambio attenzione e solidarietà, ma la vita è comunque complicata e richiede rinunzie a chi non è “perfetto” secondo i canoni del nostro tempo. Vivevano molto peggio però i disabili dei secoli scorsi, quando erano confinati in casa e talvolta quasi nascosti agli sguardi degli estranei. Oggi, per fortuna, molti disabili conducono una vita quasi normale, alcuni lavorano in bar e ristoranti, altri sono addetti ai centralini telefonici, chi studia ha la possibilità di svolgere le attività per cui si è preparato, di dedicarsi a ricerche, eccetera.

Sono andata una volta a vedere uno spettacolo teatrale al buio, così ho provato cosa sente e cosa comprende chi non vede: è stata un’esperienza straordinaria! Solo quando sono state accese le luci, ho capito dove ero seduta, dove era il palcoscenico, come si muovevano gli attori. E forse proprio perché non vedevo, ho seguito lo spettacolo senza un attimo di distrazione!

Non ci sono conclusioni da proporre, ho raccontato a mia esperienza e ho condiviso le mie riflessioni.

Da Luciana a Cenerentola – di Luciana Grillo

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