L’articolo che state per leggere è già stato pubblicato su “Moviestruckers”, piattaforma digitale di cultura e spettacolo, ideata e curata da Stefano Terracina (19/11/’22). Benché si dia della pellicola di Paolino Ruffini, oggetto dell’analisi, un giudizio complessivamente negativo, l’elaborato viene qui riproposto, lievemente riadattato, per l’indubbio merito del cineasta livornese nell’affrontare un argomento, fra i tanti che punteggiano la vicenda inscenata, assai delicato: gli atti di discriminazione, bullismo e cyberbullismo compiuti a scuola ai danni di un’allieva o un allievo affetti da patologie. Come Sara Carnovali e Giovanni Merlo[1] hanno ben messo in luce, ancora oggi «si registra […] una scarsità di indagini e ricerche che esplorino il rapporto tra disabilità e bullismo». «Ad ogni modo», proseguono i due autori, «i risultati condotti da studi su piccola scala suggeriscono come la disabilità sia associata a un maggior rischio di essere vittima di bullismo, con riferimento sia a bambini che ad adolescenti. Qualsiasi condizione di disabilità, temporanea o permanente, presente in uno studente lo espone al maggior rischio di essere vittima del bullo, un individuo che sente la necessità di “proiettare” sull’altro le proprie fragilità. Disabilità e vittimizzazione presentano infatti, in tutti gli studi, notevoli correlazioni. I bambini con disturbi del linguaggio hanno un rischio tre volte maggiore di essere vittime di bullismo rispetto ai loro coetanei e gli episodi di bullismo sono in grado di aggravare le balbuzie, nonché ritardare l’efficacia della riabilitazione. I bambini con disturbi del linguaggio vittime di bullismo hanno spesso difficoltà e ritardi nell’apprendimento scolastico e manifestano sentimenti di impotenza, solitudine e difficoltà ad instaurare relazioni interpersonali di fiducia e amicizia con i propri compagni. Situazioni simili sono state altresì registrate nei bambini malati di cancro. I bambini con sindrome di Asperger vedono una vittimizzazione pari al 94%. In generale, poi, tutti i bambini con disabilità psichiche, nonché con disabilità intellettive, vedono percentuali di rischio molto più elevate dei loro coetanei senza disabilità. I bambini con malformazioni facciali, acondroplasia o altre caratteristiche fisiche che possono essere percepite dal gruppo di pari come “difettuali” e che presentano difficoltà nella costruzione di sé, disistima, difficoltà relazionali coi coetanei, vedono incrementare notevolmente il rischio di divenire vittime di bullismo. Inoltre, l’associazione tra disabilità e bullismo continua a sussistere anche laddove altre e ulteriori caratteristiche della persona (es. differente origine etnica) aumentino il rischio di vittimizzazione. La violenza contro i minori con disabilità è spesso sistemica e deriva dallo stigma, dal pregiudizio, dall’intolleranza verso l’“altro” e dall’ignoranza relativa alla condizione di disabilità. I minori con disabilità sono più a rischio vittimizzazione nelle scuole in quanto maggiormente soggetti a isolamento ed esclusione sociale, anche a causa di ostacoli e barriere di varia natura che possono ostacolare un reale inclusione. Questa condizione impedisce l’instaurarsi delle relazioni interpersonali, così ostacolando la conoscenza e comprensione delle disabilità e, al contrario, costituendo “terreno fertile” per l’instaurazione dei fenomeni di violenza o, più nel particolare, di bullismo». La fascia d’età esplorata da Carnovali e Merlo è compresa tra gli 11 e i 17 anni. Il protagonista della nostra storia frequenta, invece, l’ultimo anno di liceo ed è ormai maggiorenne, ciò nonostante dinamiche e peculiarità del problema, su descritte, si ripropongono esatte, con sgradevole, necessario realismo. Grande e inatteso il successo di pubblico[2]. Più che probabile l’utilizzo dell’opera in percorsi didattico-educativi.


Passano gli anni, venti son lunghi, però quel ragazzo (che sentenziava «C’è sempre qualcosa dietro», convinto che sul “Kinder Cereali” attaccassero i chicchi uno ad uno) ne ha fatta di strada. Caratterista per Paolo Virzì, i fratelli Vanzina, Denis Rabaglia. Ideatore, insieme a Enrico Battocchi ed Alessio Porquier, dell’associazione “Nido del Cuculo” («Ora ti rimando a Ghezzano da tu mà» urlò Jack Torrance alla moglie) dall’humus della quale è sorto il Joe D’Amato Horror Festival. Classe ’78, Paolino Ruffini non si è tolto di dosso la maschera pacioccona e “toscanamente” malandrina che conoscemmo meglio tra la fine del liceo e l’inizio dell’università (solo lui poteva dar voce a Lucignolo nel bel Pinocchio di D’Alò) eppure ha saputo sorprenderci, accettando che c’è un tempo per “demolire” con ironia e un tempo per “costruire”. Distribuito da Adler Ent., Ragazzaccio, ottava regia di Ruffini (recuperate, se non l’avete visto, il documentario PerdutaMente), è una piccola “fiaba” moderna ansiosa, per l’appunto, di costruire. Anzi, “ricostruire”. Ma cosa? Lo sguardo degli adolescenti sui mutamenti che li investono, restituendo loro la parola che quotidianamente, in una maniera o nell’altra, gli viene sottratta, minimizzata, confinata in soggetti e contesti sociali (es. La paranza dei bambini) non sempre o non necessariamente “universali”; rappresentativi, cioè, di quell’intensa, cangiante stagione della vita.

Di rado, nell’ultimo sessennio, il cinema italiano si è interrogato su cosa sognino e patiscano nell’intimo i giovanissimi (fra le eccezioni L’età imperfetta, Cuori puri), questioni acuitesi durante la prima ondata di contagi da Coronavirus (marzo-maggio 2020). Un fascicolo collettivo del “Progetto Itinerante Notturno” di Torino, forte di studi clinici e sondaggi nazionali, riporta la fascia d’età nella quale si sono verificati i disagi maggiori: tra gli 11 e i 23 anni. Una nuova percezione del tempo e dello spazio. Solitudine, senso di inutilità, improvvisa cognizione dei limiti della natura e dell’identità umane, afflizioni che sfociano in atti brutali verso gli altri, verso la famiglia e verso sé stessi. Scritto da Davide Dapporto, Ragazzaccio si muove proprio fra queste “macerie”, presentandocele attraverso gli occhi di un diciottenne (Alessandro Bisegna) e dei suoi genitori prostrati, come ognuno di noi, da una notte scesa di colpo, la cui fine, però, ancora si fatica a scorgere.

La pandemia è cominciata. Volano schiaffi, urla isteriche, congetture, luoghi comuni che consolano impedendo, tuttavia, di capire. Il padre (Massimo Ghini), infermiere di pronto soccorso, precipita subito in quell’inferno ospedaliero che, ora dopo ora, vedemmo passare in soffocanti squarci sulle emittenti di tutto il mondo. Non più nel fiore degli anni e tentata da molti rimpianti, la madre (Sabrina Impacciatore) gioca la carta dell’epidermide in un sito per adulti. Mattia, così si chiama il diciottenne, viene eletto “giullare” della classe: fa rutti, pernacchie, snocciola trivialità, approfitta degli inconvenienti tecnici della didattica a distanza (alias DaD); varca, poi, ogni limite creando una vignetta offensiva su un coetaneo poliomielitico in sedia a rotelle. “Faltan cabezas” (lett. “mancano le teste”) si lamentava secoli addietro il duca di Olivares. Stavolta è qualcos’altro a mancare: la capacità di esprimere l’amore, esprimersi in sé. Mattia è in un certo senso “condannato”, da un’infinità di fattori, a fare delle cose che non gli somigliano: un volenteroso professore di lettere (Beppe Fiorello) e Lucia (Jenny De Nucci), graziosa e matura compagna di scuola, lo hanno intuito. E non stanno al “gioco”. Imparerà, insomma, Mattia a guardarsi da Mattia?

Quando l’ambiente esterno solletica (e talvolta applaude, perfino) la parte peggiore, distruttiva di noi è sufficiente rispondere di “no”? Il nostro essere si limita al “ruolo” e alla “somma di competenze” che gli altri (amici, insegnanti, datori di lavoro ecc..) ci affibbiano? Se il bullismo non è prepotenza arbitraria bensì un primo, “informe” segno della logica del potere, avallata e legittimata a diversi livelli dagli adulti, è possibile arginarlo per tempo, eradicarlo attraverso la cultura, la bellezza, allargando così gli spazi del discernimento? Estendendo il discorso, quale domani per l’Italia? Il bisogno di riflettere, la vicinanza di Ruffini e Dapporto nei riguardi dei personaggi, dei molti temi trattati (adolescenza, bullismo e disabilità, rapporto fra amore e comunicazione, isolamento domestico e solitudine durante, appunto, la fase più critica della pandemia[3]) sono sincere e fuori discussione. L’esito finale, ahimè, se non è pessimo poco ci manca. La colpa non è loro e neppure degli affiatati interpreti, soprattutto Ghini che offre, dopo A casa tutti bene di Muccino, la migliore fra le sue recenti prove (toccante la sequenza della telefonata in terrazza). La colpa è… della realtà.

No, non è una boutade. Ragazzaccio costringe, infatti, a interrogarsi a fondo su cosa significhi oggi per un giovane regista raccontare, se è il suo scopo primario, ciò che sente e vede. In un certo senso, se valga ancora la pena raccontarlo dal momento che la realtà (quella urbana, perlomeno) pare aver cessato di essere “reale” del tutto e il contesto (reti sociali, tv, relativi linguaggi ed effetti psicologici) a tal punto la determina, la plasma, la qualifica che gli stessi individui, i loro stessi volti, corpi e voci (giovani o maturi) non sembrano avere più nulla di “misterioso”, di complesso, interessante. E, quindi, di “vero”. Sarebbe troppo comodo chiamare in causa l’influenza del teleschermo, delle fiction: il discorso è diverso, più sottile. Vuoi per ciò che dicono, per il modo di presentarsi, di ragionare, tutti, dentro e fuori dal set, escono ormai come “in serie”, viventi stereotipi: appaiono, sì, ma, per paura o addirittura impossibilità, non “sono” mai.

Neppure le ironiche, in parte affettuose parole di “rimprovero” (un verbale “schiaffo d’amore” canterebbe Marco Sentieri) del giovane poliomielitico verso l’immaturo Mattia acquistano, e spiace doverlo scrivere, un autentico sapore di liberazione. All’opposto, paiono mascherare una particolare, involontaria forma di giudizio che priva semplicemente l’altro, il “carnefice”, del “potere” che s’illudeva di avere ma, da ambedue le parti, nessuna ferita viene realmente sanata e le complessità del sentimento umano, il senso di rispetto, l’eventuale volontà del perdono si disfano in “pensierini” dove vaghi ricordi del catechismo si frammistano con i foglietti dei biscotti giapponesi della fortuna.

L’approccio, la tecnica, il “tatto” dei passati maestri (Comencini, Emmer, Zurlini, Giraldi ecc..) non sono dunque più di casa e in sala, a luci riaccese, scende il gelo sul quel pubblico che avrebbe ancora fame di vita vera, di vita piena. Senza volerlo, le immagini di Ruffini hanno colto il lascito più grave di questo biennio: la raggiunta uniformità tra il Mercato e quasi ogni forma di espressione umana. Qualcuno sogghignerà, altri sbufferanno, nondimeno per lo scrivente Ragazzaccio rappresenta il primo, autentico documento della “post-realtà” finora consegnatoci dalla filmografia nostrana del Duemila.

«Ci rivedremo da grandi quando saremo stanchi, sì ci rivedremo» canta Arianna Del Giaccio (alias Ariete) sui titoli di testa. Aspettiamo quel giorno, nella speranza di ritrovarci, oltre che stanchi, un po’ più assennati. All’attivo: le musiche di Claudia Campolongo, i contributi di Paolo Sansoni (Security) alle scene, di Tani Canevari (Ghost Son) e Gianluca Braccieri alla fotografia. Si consigliano, per un confronto, Le voci sole di Brusa e Scotuzzi e il duro Un monde – Il patto del silenzio di Laura Wandel.


Note

[1]   Carnovali S., Merlo G., Disabilità e bullismo: incroci pericolosi, fasc., Impresa sociale “Con i Bambini”: progetto “Inclusi. Dalla scuola alla vita”, RM 06/’21, pgg. 5, 6. Ultima consultazione: 07/12/’22. Per un approfondimento, si leggano pure l’introduzione e i saggi brevi di Matteo Schianchi, Paolo Addis in Bernardini M-G., Carnovali S., (a cura di), Diritti umani in emergenza. Dialoghi sulla disabilità ai tempi del Covid-19, IF Press, RM 2021 (https://www.academia.edu/75261223/Diritti_umani_in_emergenza_Dialoghi_sulla_disabilit%C3%A0_ai_tempi_del_covid_19). Ultima consultazione: 12/12/’22.

[2]   “[…] E i giovani spettatori dell’anteprima romana al Brancaccio, erano anni che non vedevo una sala di 1500 posti totalmente piena, hanno seguito il film con una partecipazione e una sincera disponibilità assolutamente rara rispetto non solo al tema trattato ma a un cinema, quello italiano, che sembra ormai così lontano dai loro gusti, tutto preso da vita di Dante, Pirandello, Caravaggio, Totti e altri eroi nazionali”. Cfr. Giusti M., Con “Ragazzaccio” Paolo Ruffini ci fa rivivere non solo i tempi della pandemia…, art., “Dagospia.com”, 03/11/’22; per info: rda@dagospia.com. Ultima consultazione: 07/12/’22.

[3]   A tal proposito, il salto dalla peste dei Promessi Sposi – romanzo che Mattia e la sua classe, nel film, affrontano in DaD – all’odierna tragedia medica lascia stupefatti per le similitudini, emerse in alcune intelligenti comparazioni, su tutte quella svolta da Andrea Rossi, studentessa della classe 2C dell’Istituto professionale Versari Macrelli di Cesena. Nelle riflessioni di Germana Girelli si racchiude, poi, la ragione più importante dello spazio che il capolavoro del Manzoni si ritaglia nel copione: “[…] I giovani di oggi, spesso accusati di essere poco combattivi, in preda a frustrazioni, incertezze e paure, di essere i padroni indiscussi della vita e di non saper affrontare le difficoltà, vivono in una società consumistica e basata sul culto dell’immagine e potrebbero trovare, nella lettura dei Promessi Sposi, una via d’uscita al loro malessere. Comprendere come una frase così poetica e romantica che descrive Lucia con “gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante”, sia la rappresentazione del dolore, insegna come leggere e rievocare questo grande romanzo, in questo momento caratterizzato dalla pandemia, può restituire la certezza che l’amore esiste e che non ha bisogno di grandi clamori, manifestazioni o prove particolari perché la sua essenza supera i confini del tempo, è in grado di superare la peste, la guerra e le difficoltà, proprio come l’amore di Dio per l’umanità, proprio come Renzo e Lucia”. Se questo messaggio fosse stato rivestito con maggior perizia, Ragazzaccio ne avrebbe certo guadagnato. Cfr. Girelli G., Renzo e Lucia, l’amore che supera la pandemia, art., “MetisMagazine.com”, MT 05/02/’21; inoltre AA.VV., Il Coronavirus come la peste: la studentessa trova le analogie fra i “Promessi Sposi” e l’attualità, art., “CesenaToday.it”, FC 23/04/’20. Ultime consultazioni: 07/12/’22.

“Ragazzaccio”. La prima testimonianza di “post-realtà” nel cinema italiano? – di Giordano Giannini

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