*Il presente documento è un abstract di tesi. Università degli Studi di Padova Corso di Alta Formazione Dipartimento di Filosofia, pedagogia e psicologia applicata (FISPPA) “La passione per la verità. Come informare promuovendo una società inclusiva”.
Anno accademico 2020/21 in collaborazione con la Federazione Nazionale della Stampa, Sindacato Giornalisti del Veneto,Trentino Alto Adige, Associazione Articolo 21.




Varcare l’ingresso di un carcere per assistere ad uno spettacolo teatrale è un’azione che comporta un’assunzione di responsabilità che si riflette sullo spettatore in relazione ai detenuti – attori. Non si tratta solo di esercitare la semplice responsabilità da spettatore ma anche e, soprattutto, come cittadino che si deve confrontare con persone in regime di detenzione superando ogni forma di pregiudizio e /o stereotipo. «(…) Un tipo di teatro fondato sull’ascolto dei luoghi in cui opera, sulle biografie delle persone coinvolte, sulla reinvenzione continua dei linguaggi della scena, secondo i limiti delle strutture e dalle condizioni eccezionali di questa particolare forma di lavoro teatrale. Spesso i limiti sono diventati armi vincenti (…)»[1].

L’articolo 47 della Costituzione italiana prevede che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Un obiettivo fondamentale nel percorso trattamentale dove «il teatro in carcere è apprendimento e coinvolgimento non solo di docenti, educatori, ma anche del personale di vigilanza carceraria. La relazione che si viene ad instaurare tra il regista e i detenuti è significativa sul piano della fiducia reciproca, del legame che si crea in un percorso condiviso. Altrettanto importante è instaurare un rapporto di fiducia con l’amministrazione carceraria.

Il teatro non è solo attività di svago, ma svolge un importante valore terapeutico, agisce nel profondo e implica un percorso di consapevolezza che è individuale e collettivo allo stesso tempo. In questo senso deve essere considerato il valore dell’esperienza teatrale, come mezzo per imparare la dimensione sociale e collettiva, quando questa sia stata compromessa o ferita dall’azione collettiva»[2]. Una pratica sempre più consolidata in molti istituti carcerari, differenziata a seconda della tipologia: Case Circondariali dove i detenuti scontano pene brevi, Case di Reclusione, REMS (residenze per le misure di sicurezza per soggetti in cui è necessaria una custodia per motivi psichiatrici oltre che giudiziari), in cui l’attività laboratoriale del teatro incide profondamente su chi lo pratica. Il tema affrontato si sofferma sull’importanza dell’attività teatrale condotta in molti istituti di pena come metodo che favorisca l’inclusione sociale, tra l’istituzione carceraria e la società civile, con particolare attenzione al risultato, riscontrato nella diminuzione della recidiva da parte dei detenuti che si dedicano al teatro, dove si attesta al 6%, rispetto al 65% di chi non ha mai partecipato, e una volta uscito, ritorna a commettere reati. È dimostrato che l’attività teatrale in carcere favorisce la creazione di progetti collettivi di gruppo, stimolando sul piano motivazionale della conoscenza e della cultura a vantaggio di una prospettiva di vita futura. Il suo valore è liberatorio per chi vive in una condizione di reclusione nell’agire in uno spazio/tempo particolare. Un tramite tra un “dentro” e un “fuori” degli istituti di pena. L’obiettivo primario della pena detentiva è quello di modificare e trasformare il comportamento del detenuto, agendo sulla riclassificazione e trasmissione di reclusione nell’agire in uno spazio/tempo particolare. Un tramite tra un “dentro” e un “fuori” degli istituti di pena. Altro obiettivo primario della pena detentiva è quello di modificare e trasformare il comportamento del detenuto, agendo sulla riclassificazione e trasmissione di nuovi valori, la cui importanza esercita sulla persona una possibilità di riscatto. Nel 2011 è stato costituito il Coordinamento nazionale teatro in carcere presieduto da Vito Minoia, esperto di Teatro educativo inclusivo all’Università degli Studi di Urbino, e composto da oltre cinquanta realtà teatrali presenti in 15 regioni italiane. Sono attivi sul territorio nazionale anche due coordinamenti di Teatro in Carcere in Toscana e in Emilia Romagna, il primo fondato nel 1999, e il secondo nel 2011. Entrambi operano sui rispettivi territori con le diverse realtà artistico–professionalizzanti, presenti negli istituti penali, il cui mandato è di trasformare il carcere, da luogo esclusivamente esecutivo della pena ad un luogo rieducativo. In una società civile che si rispetti è fondamentale favorire processi di trasformazione e valorizzazione anche nell’ambito carcerario. Il Teatro Carcere si rivela dunque un’attività in grado di colmare il senso di impotenza e di disistima in cui il detenuto si ritrova a causa dell’assenza di stimoli, del tempo trascorso, del senso di inutilità e di perdita della propria identità. La legge n. 354 del 1975 dell’Ordinamento Penitenziario ha ripristinato l’obbligo di chiamare i detenuti con il loro nome, abolendo il metodo precedente, in cui si utilizzava il numero di matricola per identificare la persona: una questione di civiltà. L’argomento intende fornire una visione opposta a quella che i mass media diffondono abitualmente, nel riportare solo fatti di cronaca negativi riferibili alla realtà carceraria, contribuendo a formare una visione distorta e stereotipata nell’opinione pubblica in merito alla figura del detenuto, ritenuto troppo spesso come soggetto irrecuperabile.

L’Italia è la nazione in Europa con il numero più alto di detenuti. Un sovraffollamento che rende difficile la possibilità di attuare le attività trattamentali e anche il rispetto dei diritti dei detenuti, come è accaduto di recente nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove sono stati commessi atti di violenza inaudita perpetrati dagli agenti di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti, classificati come “comportamenti degradanti ed inumani”.

I problemi nelle carceri italiani sono molteplici: il numero eccessivo di detenuti con 206 istituti di pena e una disponibilità di 47.040 posti, la presenza nelle celle di tre o quattro persone, la carenza di personale di sorveglianza, la mancanza di fondi strutturali per garantire l’attuazione di attività di rieducazione e non esclusivamente l’espletamento dell’esecuzione della pena. La detenzione di molti stranieri, le difficoltà linguistiche, le fasce deboli e povere provenienti da immigrazione clandestina.

La giovane età e l’incidenza di reati minori come lo spaccio di sostanze stupefacenti. L’emergenza Covid-19 ha amplificato le tante problematiche sanitarie già presenti nelle carceri, il disagio psichico diffuso e l’alto numero di suicidi completano il quadro di un sistema carcerario in grave difficoltà. Tra l’opinione comune è presente spesso la convinzione che il carcere non impedisca di delinquere nuovamente, una volta liberati i detenuti. L’associazione Antigone lancia un appello in nome dei diritti dei detenuti a fronte di una decisione che appare come un dietro front rispetto alla funzione educativa della pena: «La Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha nominato una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, affidandone la presidenza al professor Marco Ruotolo, che molti anni e impegno ha speso sul tema della dignità umana e dei diritti fondamentali dei detenuti. Nel decreto di nomina si esplicita chiaramente che la Commissione avrà il compito di individuare “possibili interventi concreti per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”»[3]. A preoccupare l’Associazione Antigone è la decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di rivedere le norme di detenzione per quanto riguarda la media sicurezza che, secondo i loro calcoli, conta circa 35.000 detenuti: «Per alcuni detenuti, infatti, si eliminerebbe la sorveglianza dinamica e quindi le loro giornate tornerebbero ad essere trascorse per la maggior parte del tempo all’interno di in una cella di pochi metri quadri e di sovente sovraffollata»[4]. La convivenza in spazi ristretti, la promiscuità, sono fattori che determinano forme di emarginazione e di discriminazione e tendono ad aggravare ulteriormente atti di aggressività e autolesionismo, oltre a incrementare i suicidi tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria.

La pratica del teatro in carcere è riconosciuta come lo strumento di inclusione sociale in grado di modificare il pregiudizio che la società ha nei confronti del detenuto, visto, spesso, solo come responsabile di crimini e quindi cattivo, immorale o deviato. Lo stigma sociale è conseguenza inevitabile nei confronti della popolazione carceraria, ed è alimentata anche da ulteriori categorizzazioni presenti all’interno degli istituti penali: stranieri, tossicodipendenti, persone con disagi psichici.


Note

[1]    V. Minoia in Il teatro in carcere, l’evoluzione di un fenomeno https://frontierenews.it/2017/10/

[2]    M. Blasi in Il teatro in carcere come veicolo di integrazione in epale.ec.europa.eu 2016

[3]    https://www.antigone.it/news/antigone-news/3392-il-rischio-di-un-grave-passo-indietro-e-non-e-un-film

[4]    Ibidem

Teatro dentro le mura: un varco verso una società inclusiva* – di Roberto Rinaldi

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