La comunicazione audiovisiva utilizza un linguaggio con un complesso sistema di costruzione dei significati. Lo spettatore, anche quello contemporaneo distratto da infiniti input, soprattutto visivi, viene risucchiato in quella che chiamiamo “Fluida Visione Profonda”: una
condizione di concentrazione emozionale che lo fa entrare senza reti in un mondo immaginario dove dominano i tranelli linguistici costruiti ad hoc dal regista.
La comunicazione audiovisiva utilizza un linguaggio con un insidioso sistema di costruzione dei significati: nel cinema, ma anche nella comunicazione pubblicitaria, per esempio, l’inquadratura, elemento minimo della frase filmica, è strumento per condurre una eterna lotta tra continuità e discontinuità nel flusso del racconto per immagini. Ciò che viene mostrato in ognuna è preceduto da un’altra serie di fotogrammi che ci racconta situazioni simili e così di seguito fino a descrivere un’azione, un’emozione, un evento; ma ecco che, con la subitaneità che solo lo stacco, utilizzato come massimo segno di interpunzione, consente, a discrezione del regista (e del montatore) ci si ritrova in un altro luogo, con un altro pensiero, un altro percorso di racconto, per dirla all’americana in un altro “mood”. Si tratta della successione significativa tra suspense e sorpresa, dove nel primo caso seguiamo con apprensione la vita appesa ad un filo dei protagonisti mentre vediamo (cosa a loro non permessa) il timer della bomba che sta per esplodere sotto il tavolo dove sono seduti. Nel secondo caso ci sorprendiamo, non vedendo, al pari dei personaggi, nessun ordigno, quando ne sentiamo il boato e vediamo la deflagrazione1.
Se mutuiamo ed adattiamo dalla letteratura una definizione del maestro di Raymond Carver, lo scrittore americano John Gardner, la comprensione della frase filmica può avvenire in una condizione di “ispirazione” dello spettatore, dove la sospensione dell’incredulità, la concentrazione nel figurarsi presente all’evento ed il coinvolgimento emotivo avvengono in uno stato di “Fluida Visione Profonda”2: la condizione in cui la costruzione della frase audiovisiva meglio e più inequivocabilmente viene recepita sia nei significati letterali che in quelli simbolici e drammaturgici3.
Molti affermano che noi e i nostri contemporanei nella visione, nell’ascolto e nella lettura, siamo affetti dalla carenza se non dalla mancanza delle condizioni per tale “Fluida Visione Profonda”, nella misura in cui gli input continui creano un continuo deficit di concentrazione. Se, in linea di principio, può essere così, non mancano controesempi di un certo rilievo, per esempio nella comunicazione pubblicitaria e nella costruzione sintattica delle inquadrature di uno spot: la brevità richiesta e l’estemporaneità della visione (all’interno di programma televisivo non pubblicitario, o nel cosiddetto pre-roll di un video su internet di tutt’altro genere rispetto all’“intro” commerciale) non necessariamente indeboliscono l’effetto di un video creato con frasi audiovisive ben costruite. Un efficace rincorrersi tra suspense e sorpresa in fondo è presente anche nel citatissimo caso del meteorite che colpisce la madre in un famoso spot pubblicitario di una merendina e l’ilarità provocatoria che ne deriva (insieme a un discreto cortocircuito tra significanti e significato tipico della parodia4) crea per qualche decina di secondi una “Fluida Visione” spesso più profonda del programma che stavamo seguendo prima dell’interruzione pubblicitaria.
Verrebbe da dire in conclusione che, esattamente come succede per il significato della parola scritta (o meglio, letta), la frase filmica che ci permette una perfetta comprensione ed una certa empatia con la situazione descritta, è quella in cui ogni inquadratura ci conduce nella storia senza che la mano del suo creatore (in questo caso il regista) sia troppo evidente e dove essa ci conduca fluidamente attraverso una serie numerosa, ma invisibile, di segni e costruzioni che ci sembrino del tutto naturali. Torna alla mente quello studente di regia cinematografica che faticava nel semplice esercizio di contare gli stacchi5 presenti in una sequenza del film “Gran Torino” di Clint Eastwood, motivando la difficoltà con la “bellezza” della scena mostrata. Una prova dalla bassa valutazione finale per lo studente, ma il migliore complimento per le indiscusse capacità narrative del regista americano.
2 John Gardner “Il mestiere dello scrittore” (1983).
3Interessante sull’argomento della modalità di percezione, anche se più riferito al linguaggio delle opere d’arte figurativa, il pensiero di Rudolf Arnheim in “Arte e percezione visiva” (1954): «(…)saldamente guidati dalla struttura dell’insieme, si può tentare poi di riconoscere le componenti principali e di indagarne la padronanza dei relativi accessori. Per gradi tutta la ricchezza dell’opera si rivela e si ricompone, e mano a mano che la si percepisce correttamente, comincia ad attirare col suo messaggio tutte le facoltà mentali. Questo è lo scopo a cui lavora l’artista. Ma nella natura dell’uomo c’è il gusto di definire quanto si vede e di capire perché lo si vede».
4 A tal proposito pare illuminante l’articolo dello sceneggiatore e regista Roberto Gagnor su “Il Post” del 4 settembre 2017 dal titolo “Buondí, metanarrazione” che, tra le altre cose, spiega dal punto di vista sintattico la genesi visiva di uno spot parodistico: «La parodia si gioca fin dal termine (parà+odé, “canto simile”) sul ripercorrere qualcosa di conosciuto per poi sovvertirlo, quasi sempre in termini umoristici. Quindi, per fare la parodia di qualcosa, serve partire dallo stesso punto dell’oggetto parodizzato, e avvicinarcisi il più possibile, in termini di stile. Infatti la prima inquadratura dello spot è il classico totale con dolly di una casa “da Mulino Bianco”, come si dice ormai per antonomasia: il consuetissimo set degli spot di questo tipo, fatto di famiglie standard (madre-padre-figlio-figlia, rigorosamente bianchi) felici, anzi felicissime, che fanno colazione tra sole e sorrisi. Poi, però, la bambina dice una battuta artefatta e brutta, “telefonata”, si direbbe nel gergo degli sceneggiatori. E qui, nel telespettatore, dovrebbe scattare il primo campanello d’allarme. Non si può usare una battuta così brutta in uno spot. A meno di non volerla usare DI PROPOSITO (…)».
5 Sul valore del montaggio e sulla fluidità degli stacchi Walter Murch, celeberrimo montatore due volte premio Oscar, ne “Il cinema e l’arte del montaggio. Conversazioni”, 2003, in cui colloquia con Michael Ondaatje dice: «Costruire un ritmo interessante e coerente di emozioni e di pensieri, sulla piccola e grande scala, per consentire al pubblico di lasciarsi andare, di darsi al film”. E sugli stacchi: “… oltretutto la discontinuità ci permette anche di scegliere la migliore angolazione per ogni emozione e ogni particolare della storia, per poi montarle insieme con un impatto complessivo maggiore. Se fossimo limitati da un continuo flusso d’immagini, sarebbe più difficile e i film sarebbero meno precisi e dettagliati».