• PREMESSA

Il 7 maggio del 2019 si è tenuta, presso la Libreria ‘Contrappunto’ della Spezia, una conferenza a più voci dal titolo Il destino del libro e della lettura. Fra evoluzione tecnologica e trasformazione commerciale. L’iniziativa voleva richiamare, in un momento particolare del mercato editoriale in Italia, l’attenzione di quanti, professionisti del settore o comunque addetti ai lavori, insegnanti e semplici appassionati, avessero voglia di riflettere su come sia la reale situazione dei fatti, distinti ma non disgiunti, implicati. Fra i punti salienti dibattuti: (1) i processi di digitalizzazione e quale effetto comporteranno in un futuro non più prossimo ma imminente; (2) la trasformazione del linguaggio e delle attitudini (es. la capacità a recepire e decodificare correttamente i contenuti) sia nel mondo adolescenziale che tra gli adulti; (3) quali sono le strade percorribili per risvegliare l’attenzione e la curiosità dei giovani fruitori (non solo di libri), in una prospettiva d’avviamento alla conoscenza che possa non scadere nella banalità e nel conformismo ma che li renda avvezzi ad una dimensione costantemente critica, in forza degli opportuni strumenti intellettuali.

Sono intervenuti: Anna Giulia Cavagna (già professore ordinario di Storia del Libro e dell’Editoria presso l’Università di Genova), Cinzia Forma (docente di lettere classiche presso il Liceo Classico ‘Lorenzo Costa’), Marco Cattaneo (operatore culturale e titolare della libreria menzionata), Carlo Lupi (docente emerito di Storia della Filosofia all’Università di Genova), Lorenzo Vincenzi (direttore scientifico dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea) e Lorenzo Moretti (docente di Audiovisivi e Multimediale presso il Liceo Artistico ‘V. Cardarelli’).

La relazione di quest’ultimo, caro amico, mi ha toccato da vicino poiché verteva sul rapporto tra il linguaggio concettuale (le parole nel testo) e il linguaggio iconico (il ruolo dell’immagine nella fotografia, nel cinema, nei mass media), il loro uso didattico da parte degli insegnanti tenendo conto della società attuale, dove gli studenti sono ormai da considerarsi “nativi digitali”. Il collegamento a sei recenti pellicole è venuto spontaneo. Le ho, quindi, raccolte in due gruppi e altrettante sotto-aree tematiche. Come recita il sottotitolo del pezzo, si tratta perlopiù di “appunti”, teorie provvisoriamente formulate su singoli aspetti dei film e non sull’impianto narrativo nel suo complesso: starà al lettore decidere cosa trascurare, cosa mantenere ed eventualmente approfondire, alla luce dei tre principali punti tematici discussi in conferenza.

 

  • DELL’AUTENTICO: ‘CAFARNAO’, ‘IL GIUSTIZIERE DELLA NOTTE’, ‘IL GIOCO DELLE COPPIE’

“Crisi di ideologie, ma anche di valori, di idealità, di riferimenti e di scale assiologiche; epoca di crisi, dunque, ma pure tempo dell’attesa, di una rimeditazione delle esperienze trascorse, di un vasto rimescolamento di carte. […] Cosa proporre, allora, in un frangente temporale così intellettualmente fluido e delicato; quale viatico, o almeno quale indirizzo, quale avvertimento?” Così, nel 1981, si esprimeva il critico d’arte Carlo Fabrizio Carli: dubbi e osservazioni che si fanno strada oggi come trent’otto anni fa. Un aspetto, soprattutto, dovrà essere oggetto di riflessione ossia quale rapporto intrattiene il moderno fruitore con l’idea della morte (e, per riflesso, della vita stessa). La celebre sequenza di Alien (1979) dove una salma veniva eiettata nello spazio come un bianco sacco per rifiuti rimane una fra le più desolanti di quel decennio, specie se la paragoniamo a quelle analoghe in cui marinai e bucanieri venivano sepolti in mare tra salve di cannoni. “Ci attende dunque un futuro dove non c’è più posto per il divino e la pietà?” (cit. G. Del Ninno). E’ davvero retorica quella di chi sostiene “che siamo immersi in una vera e propria cultura della morte, nascosta anche e forse soprattutto in una distorta celebrazione della vita” (cit. F. Catani)? Educare oggigiorno a “leggere” un’immagine (vale per ogni età), passare al vaglio ciò che viene quotidianamente rappresentato, significa anche rispondere a questi ultimi due quesiti. Non si tratta di fornire alcuni semplici strumenti di valutazione. È qualcosa di più: è un “invito” a rinnovare in profondità quell’insieme di elementi (percettivi, intellettivi e affettivi) che forma la coscienza di ognuno.

La prima delle sei opere che tratteremo costituisce un’anomalia, quasi un “controcanto” che amplifica e complica, ad un tempo, il discorso sull’odierna percezione della vita e della morte. Stiamo parlando di Cafarnao, ultima fatica di Nadine Labaki, già apprezzata per il brillante Caramel dove venivamo presi per mano e avvolti dalle musiche e dai profumi di un insolito “gineceo”. Qui, viceversa, ci troviamo di fronte ad una pellicola aggressiva, che fa male al cuore, forse anche perché le sue immagini non esitano a convincerci, al di là delle effettive intenzioni dell’autrice, che non c’è motivo di temere ciò che Shakespeare chiamò “il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno”: qualunque cosa vi sia ad attenderci non potrà certo essere peggio dei mali che sopportiamo su questa terra. La storia narra la disavventura, quasi la Passione “laica”, di un ragazzino nell’odierno Libano. Zain, questo è il suo nome (e così pure del giovanissimo e grintoso attore che lo incarna), vorrebbe incamminarsi insieme a Sahar, la sorella maggiore, verso “un altro mondo”: lontano dagli schiaffi, dai calci, dagli insulti, dall’aria soffocante e malsana della sua stanza, da brutti ceffi pronti a scipparti l’innocenza (se non l’hanno già fatto). Il mondo reale, però, cammina più veloce di lui, lo precede e spesso lo attende al varco. Molti incontri e personaggi costellano il suo cammino: lasciamo allo spettatore la curiosità di saggiarli poco a poco. Quel che più conta è l’episodio che costituisce il centro nevralgico del racconto: Zain trascina in tribunale i suoi genitori con l’accusa di averlo messo al mondo. Come ci si dovrebbe sentire di fronte ad un’accusa del genere? Come rispondere? Molti critici, restando attaccati alla struttura dell’opera, hanno voluto vedere in Cafarnao una matura espressione di lotta contro la povertà, più specificamente sensibilizzare alla procreazione responsabile, quindi un tacito invito a ripensare in modo radicale le politiche demografiche dei nativi delle due sponde del Mediterraneo: ciò rimanda, con coerenza, a fatti di cronaca recente eppure il copione sembra voler andare più in profondità. In un certo senso, la regista coglie l’essenza di quello che è il titolo di un saggio del filosofo sudafricano David Benatar (Meglio non essere mai nati) o di un film del polacco Krzysztof Zanussi (La vita come malattia mortale trasmissibile per via sessuale). Dando, cioè, la vita ad un figlio gli assicuriamo inevitabilmente anche la morte. Ciò che si dipanerà fra l’istante in cui apre per la prima volta gli occhi al mondo e quello in cui li chiude definitivamente, sarà degno di essere vissuto? Sarà capace la sua famiglia di contribuire a renderlo tale? Qui le eventuali suggestioni religiose (es. l’episodio del Vangelo di Marco [1,21-34], denominato ‘La giornata di Gesù a Cafarnao’, altrimenti il curioso sottotitolo italiano ‘Caos e Miracoli’) cedono il passo al nichilismo più autentico e radicale. In più di un passaggio Nadine Labaki perde visibilmente il controllo, è vero, e lo spettatore si ritrova chiuso in una macchina narrativa dove si sente, senza un valido motivo, vittima e colpevole in ugual misura; ciò nonostante va riconosciuto alla giovane regista libanese il coraggio nell’aver stigmatizzato – pur essendo madre lei stessa – il ‘generare’ come atto meccanico ed evitato qualunque elogio acritico, superficiale, dell’esistere, dell’essere al mondo: guardandovi attorno – pare sussurrarci – troverete non poche donne, a Est come ad Ovest, povere e ricche, istruite o analfabete le quali, pur non essendo affatto adatte a fare le madri, si ostinano a voler mettere su famiglia; lo fanno probabilmente per acquisizione di onorabilità quando non per mera consuetudine, per non parlare dei loro immaturi compagni. Badate – continua sempre, sottovoce, la Labaki – nel momento in cui decidiamo coscientemente di concepire un altro essere umano, dobbiamo avere rispetto per il suo diritto alla felicità, quanto meno non farsi cogliere impreparati qualora, da un giorno all’altro, ci ponesse delle domande cruciali sull’esistenza e la sua fragilità. In caso contrario sarà ben difficile dar torto a Leopardi quando afferma: “Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è […] L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità” (‘Zibaldone’, 4174).

Il problema della benignità del nascere, dell’esserci, è antichissimo. Emerge dall’operetta Certamen Homeri et Hesiodi (III secolo d.C. ca.; ho fatto ricorso al titolo latinizzato), più precisamente dalla bocca di Omero: “La cosa più eccellente per chi vive sulla terra è non essere nato; ma, per chi è nato, varcare quanto prima le porte dell’Ade” (“Ἀρχὴν μὲν μὴ φῦναι ἐπχθονίοισιν ἄριστον, / φύντα δ’ ὅμως ὤκιστα πύλας Ἀίδαο περῆσα”; Certamen 78). La sua cupezza si fa strada poi attraverso i secoli, approdando all’opera di Schopenhauer, del succitato poeta di Recanati, Giuseppe Rensi e perfino di Ottiero Ottieri (di lui si legga l’eccentrico L’irrealtà quotidiana). Affrontare nel dettaglio un tema di una vastità simile è fuori dalla nostra portata, tuttavia se nel mondo contemporaneo non soltanto la vita ma la morte stessa (e così i suoi riti) appare ormai priva di autenticità, orbata della sua carica drammatica quando non ridottasi a puro spettacolo, il ritorno di interesse verso il pensiero secondo il quale sarebbe meglio “uscire dal mondo” il prima possibile o non nascere affatto non può essere liquidato con troppa leggerezza. Non deve, cioè, passare per “balbettio”, moda lugubre o magari razionalizzazione di personali delusioni, trasformate per l’occasione in idea pessimistica della Storia. Occorre, dunque, chiarire (a noi stessi, in primo luogo) cosa possa oggi continuare a conferire senso, dignità al passaggio dal non-esistere all’esistere; cosa sia rimasto di necessario non nel senso pratico ma filosofico del termine; cosa sia rimasto oggi, in poche parole, di vero.

Prendiamo spunto da alcune note testimonianze. Poiché il linguaggio corrente gli pareva ormai letteralmente “abitato” dal Potere, Pier Paolo Pasolini suggerì che quanto rimanesse di originario, di vero, nell’uomo contemporaneo (sono trascorsi più di quarant’anni, non dimentichiamolo) doveva essere cercato in ciò che non era verbale: la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo (cfr. Contro la televisione [1966]). Questa, purtroppo, si rivelò un’illusione, subito riconosciuta dallo stesso autore (cfr. Abiura dalla ‘Trilogia della Vita’ [1975]) e, l’anno seguente la sua tragica fine, messa dal filosofo Jean Baudrillard al centro di un’ulteriore, puntuale disamina (cfr. Demagogia del corpo in Lo scambio simbolico e la morte). “La realtà dei corpi innocenti” – osservò, infatti, Pasolini – “è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana”. Viene spontaneo chiedersi cosa avrebbe scritto oggi Pasolini dei nuovi livelli di manipolazione del Reale, i quali non riguardano più soltanto la “vendita” di corpi senza pecche, “neanche casuali e corporee”. Non è azzardato supporre che lo scrittore friulano disponesse già di potenziali strumenti metodologici in grado di prevederli e così Baudrillard mentre rifletteva sull’avanzante falsificazione di sensazioni e messaggi (cfr. La metafisica del codice, Il tattile e il digitale in op. cit.). Ciò che quest’ultimo, infatti, definì “un intervento selvaggio sulla realtà, al termine del quale è impossibile distinguere ciò che, nella realtà, dipende da una conoscenza oggettiva e ciò che dipende dall’intervento tecnico” trova una perfetta esemplificazione nel moderno fenomeno degli “internet meme”. Di cosa si tratta? Traendo origine dal vocabolo greco mímēma (‘μίμημα’: «imitazione»), il “meme” si presenta come una sorta di artefatto nel quale si “paralizza” e decontestualizza a fini ridanciani un’azione, un’immagine, un fotogramma cinematografico o televisivo: più che satireggiare, mediante l’alterazione del soggetto (detto altrimenti ‘cornice memetica’) si crea di fatto qualcosa di nuovo e i fruitori della Rete, di condivisione in condivisione, finiscono quasi per dimenticare cosa fosse in origine. Le varianti sono innumerevoli: fra gli “internet meme” più famosi vi sono, ad esempio, quelli della “gara di pulsanti nucleari” fra i presidenti Donald Trump e Kim Jŏng-ŭn, l’ormai insopportabile “lingua birichina” di Einstein altrimenti, manomissioni assai più discutibili, le riprese dell’attentato all’ambasciatore russo Andrej Karlov e il suicidio in diretta dell’ex generale croato Slobodan Praljak.

Gusto becero, puro e semplice? Non esattamente. Il ricercatore Gianluca Catalfamo lo ha ben spiegato nell’articolo L’insostenibile ironia dei meme (doppiozero.com; 01/02/’18). Aderendo, a sua volta, ad un recente studio di Alessandro Lolli, La guerra dei meme (Effequ; 2017), Catalfamo sembra provocarci con una domanda, che così rielaboro: bandita (o sterilizzata) qualsiasi forma di espressione autenticamente politica o religiosa, sostituitasi all’idea di rapporto sociale la cosiddetta ideologia “del contatto” (cfr. Baudrillard J., ut supra), a cosa si riduce la realtà se non ad un vago “canovaccio” che genera infinite manifestazioni “memetiche”? La sindrome del complotto è, certo, in agguato tuttavia, esaminando il problema attraverso la lente profonda dell’antropologia, è altrettanto difficile negare che si stia compiendo ciò che diciotto anni fa ipotizzò la prof.ssa Cecilia Gatto Trocchi: Internet come ultima frontiera della magia, “regno in cui tutto è possibile”, imitazione della mente di Dio quale generatrice di “Idee”. Ci riallacciamo, così, al nostro quesito: cosa può definirsi oggi vero, necessario, quando perfino la morte (come abbiamo visto) può diventare oggetto di un “internet meme”? Il giustiziere della notte di Eli Roth è un pessimo film, loffio ed inverosimile ma, al di là del valore intrinseco, è forse uno dei pochi che ultimamente abbia cercato di fornire una risposta, poco importa se scontata.

Molti di voi si ricorderanno il classico (1974) di Michael Winner, una pellicola avvincente, ben raccontata, più sottile di quanto i critici di allora non vollero ammettere ma la cui tesi può oggi emergere, finalmente, con spietata chiarezza. La sorte e la morte derubano l’architetto Paul Kersey (Charles Bronson) della sua famiglia. Ma piuttosto che diventare vittima egli stesso, l’uomo fa tutto ciò che è in suo potere, alternando freddo distacco ad ondate di nausea e vergogna, per controllare il fato. Perché, che cosa sono il Giustiziere, l’Eroe, se non vani sforzi per combattere il Male (sociale, spirituale ecc…) che percorre il mondo, un tentativo per controllare la morte stessa? Anche in questo caso lo sforzo non viene, ovviamente, ripagato. Il dolore di Kersey non cessa con la morte degli assassini dei suoi cari, anzi cresce. E va così alla ricerca di un’altra faccia, e di un’altra, e di un’altra (i malviventi sono, infatti, effimere, intercambiabili “maschere” dietro le quali si cela e agisce il Male), finché non comprende che la “punizione” è diventata l’unica, ultima ragione della sua vita. Il finale non lascia dubbi in merito: come un bambino che gioca ai cowboys Kersey “mima” un’immaginaria rivoltella con pollice e indice, sorride sconsolato e “apre il fuoco” contro una combriccola di bulli. Nel rifacimento di Eli Roth la “condanna” del protagonista (questa volta ne veste i panni Bruce Willis) viene, al contrario, presentata come un macabro “ricostituente”: se si vuole, in altre parole, sopravvivere in un mondo reso “irreale” dalla sottocultura dei mass media bisogna trasformarsi in un personaggio da “videogioco d’azione”. La prassi è la medesima: il livello di difficoltà aumenta man mano che si avanza e, per ogni livello (ossia per ogni vita che si brucia), si acquistano punti, abilità, nuove armi e, più importante ancora, si ritrova la salute del corpo e della mente. La psicologa non serve più a Kersey (come suggerisce un esilarante momento del film) il quale, uccidendo, si sente paradossalmente più vivo, più reale, di quanto non sia mai stato.

Qui giunge la risposta del regista alla domanda di prima: non è possibile definire oggi ciò che è vero per il semplice fatto che non c’è, forse non c’è mai stato, bene o male tutto è un “gioco”, tutto è sostanzialmente frutto di una simulazione e la rivoluzione digitale rappresenta proprio la soglia estrema di tale condizione. Non è, dunque, importante ciò che siamo ma il ruolo che ricopriamo sul nuovo, immenso “palcoscenico” virtuale nonché il livello di gradimento della “platea” che sta assistendo alla nostra “performance”. Vivaddio il cinema ha finora descritto questo de-umanizzante “gioco” con i toni dell’incubo o della farsa, si vedano Freddy’s dead (1991), Fuga da Los Angeles (1996), Nirvana (1997), perfino Un giorno di ordinaria follia (1993), The beach (2000), I fiumi di porpora (2000) oppure il rutilante Gamer (2009). Viceversa nell’ultimo Il giustiziere della notte l’ironia e la polemica, ammesso che ci fossero, sono ben camuffate: vediamo, così, il popolo della Rete ribattezzare Kersey non più “giustiziere” bensì “cupo mietitore” cioè una delle personificazioni della Morte (notate che il titolo inglese del film è Death wish, lett. “desiderio di morte”), “la più vuota delle immagini” come la definisce Giorgio Pigafetta nel suo saggio omonimo; il protagonista non spinge più il pubblico a interrogarsi, come accadeva nel prototipo, sulla liceità delle sue gesta ma, in modo imbecille, se queste stiano recando maggior danno alle comunità afroamericana e ispano-latina che non a quella “wasp”; c’è chi si dimostra comicamente indifferente e chi fa addirittura scommesse; varie emittenti televisive pubblicizzano pistole e mitragliatrici impiegate negli omicidi con i colori invitanti e il tono spiritoso con i quali si lancerebbe una nuova marca di gelati. Dulcis in fundo, la prima “esecuzione” di Kersey (qui risiede, forse, l’unica trovata davvero originale del copione), filmata di nascosto da una ragazzina, diventa un “internet meme” accompagnato da battute quali: “Così impari a rivelare i prossimi colpi di scena della mia serie tv preferita!”. Ogni altro commento è inutile. Il finale è praticamente identico all’originale: gli stessi bulli, la stessa rivoltella fatta con le dita… ma non il sorriso. Nessun fardello, nessun respiro pesante. È come se Kersey fosse entrato definitivamente nella “gabbia” di quella fiction che è diventata la sua nuova vita. “Rimanerci non sarà poi così male”, sembra dirci quell’arricciarsi sornione delle labbra: un altro proiettile, un altro livello.

Tutt’altra atmosfera impregna Il gioco delle coppie di Olivier Assayas, opera che, a differenza dell’ultima commentata, prende di petto le questioni emerse in conferenza (vedi Premessa). Di primo acchito si presenta come uno degli esiti più equilibrati del cineasta parigino, uno dei più accessibili al grande pubblico e perfino dei più “solari”, aldilà della freddezza che, regolarmente, caratterizza il suo stile. Assayas è sempre stato attratto quando non ossessionato dal labile confine che separa l’illusione dalla realtà, più specificamente (in relazione al mondo moderno) dall’inesorabile processo di digitalizzazione del Reale, tema già esplorato in Demonlover (2002), raggelante viaggio nel Desiderio e le sue derive nell’era di Internet, fra strisce erotiche “viventi” e siti di tortura. Con toni meno foschi ma non meno disincantati, Assayas riprende quel discorso iniziato sedici anni prima focalizzandosi, appunto, sul mercato dei libri, i mutamenti di gusto nel pubblico e le nuove modalità di fruizione dei contenuti. Le vendite crescono on-line, progressivi tagli affliggono i fondi per l’editoria, i lettori trasferiscono massicciamente l’attenzione dalla carta agli schermi a cristalli liquidi. Questa “rivoluzione” penetra, in modo diverso ma ugualmente irreversibile, nelle abitudini di cinque personaggi, moderni succedanei di Emma Bovary, affetti dalla sua stessa malattia d’animo: Alain (Guillaume Canet), capo redattore di una casa editrice indipendente; Selena (Juliette Binoche), diva di una seguitissima serie tv poliziesca; Léo (Vincent Macaigne), scrittore fallito; Valérie (Nora Hamzawi), consulente d’immagine di un politico di basso conio; Laure (Christa Théret), giovane e irruente esperta di nuovi media.

L’intreccio è tutto da scoprire, ragion per cui non rivelerò di più. Vi basti sapere che ne Il gioco delle coppie (titolo originale Doubles vies) troverete quanto di più importante possa essere oggi oggetto di riflessione, senza annoiarvi o subire stucchevoli “ammonizioni” riguardo al futuro. Il copione si interroga, ad esempio, se sia ancora possibile concepire l’Arte senza dover attingere per forza alla vita di tutti i giorni, se le uniche ‘chimere’, le uniche ‘utopie’ inseguibili, debbano essere quelle dei romanzi d’appendice, inalterata fonte di svago e di guadagno a qualunque latitudine. Immancabilmente fanno capolino luoghi comuni e frasi fatte, apodittiche, apparentemente critiche, in realtà velatamente ossequiose verso il progresso: “Siamo alla fine di un’epoca”, “Ormai è tutto una questione di prezzo, compresa la vita”, “Il cambiamento è necessario ma bisogna sceglierlo e non subirlo”. Eppure, per qualche strana ragione, l’operazione non sembra tradire alcuna ipocrisia né si lascia tentare dalle lusinghe del dotto “piagnisteo”. Anzi, un inesplicabile senso di levità, di conforto, attraversa il tutto. Forse c’è speranza per le nuove generazioni: il “pancione” di Valérie è lì a suggerirlo. Dove si annida, dunque, l’ambiguità, l’eventuale “boccone avvelenato”? Proprio nell’apparizione di quel ventre gravido e nel breve dialogo che la segue. All’esclamazione del consorte “È un miracolo!”, dopo mesi di vani tentativi, Valérie replica “No, non è un miracolo. I miracoli non esistono. Questo, invece, è reale e se avvicini la mano potrai sentirlo anche tu”. La frase suona, da un lato, sentita e genuina, offrendo oltretutto una risposta positiva al quesito iniziale: per sapere ciò che oggigiorno resta di autentico occorrerebbe riscoprire il piacere del “tatto”, il suo valore sensoriale, sensuale; “il tatto è un’interazione dei sensi piuttosto che un semplice contatto della pelle e d’un oggetto” (cfr. Baudrillard J., ut supra), attraverso di esso è ancora possibile, seppur per pochi istanti o alcuni minuti, intuire l’essenza più profonda del reale. Dall’altro, la malinconia che questa laicissima risposta suggerisce è immensa: veicola, benché sommessamente e con garbo, quel realismo per cui “soltanto il corpo e la materia sono, e la stessa ragione è immateriale solo fino a quando la scienza non ne avrà disvelato le scaturigini alla portata dei sensi. […] Il mistero non è l’Inconoscibile ma soltanto ciò che fino ad oggi non è stato possibile conoscere” (cit. G. Del Ninno). Dall’orizzonte dell’uomo contemporaneo è scomparso il “miracolo”. Resta un timido canto alla vita, genericamente, corporalmente intesa. Rimane “l’illusione insensata dei vivi di volersi vivi a esclusione dei morti”. Rimane la sopravvivenza. Rimane, volendo semplificare, forse un po’ arbitrariamente, solo la morte. Poiché, come scrive sempre Baudrillard, “rimossa la morte nella sopravvivenza, la vita stessa non è allora […] che una sopravvivenza determinata dalla morte” (cfr. L’economia politica e la morte in op. cit.).

 

  • ARRESTA IL TEMPO, PUOI FARLO: ‘IL PROFESSORE CAMBIA SCUOLA’, ‘IL VIAGGIO DI YAO’, ‘BORDER – CREATURE DI CONFINE’

Sempre in occasione del medesimo incontro (vedi Premessa), la prof.ssa Forma è stata la prima, fra i relatori, a raccontare la sua esperienza nella nuova realtà scolastica. «O tempora, o mores» è un’espressione che non le appartiene. Ha, inoltre, chiarito: “Quando entro in classe il cellulare deve essere riposto necessariamente in una scatola apposita: perché? Ho bisogno che gli studenti, soprattutto i più piccoli, si concentrino sul libro di carta: l’unico che consente di leggere, sottolineare, prendere appunti, scrivere, ri-scrivere, rielaborare il messaggio”.

E’ ancora possibile per un maestro dei giorni nostri risvegliare la curiosità, il vero desiderio di “giocare”, in una scolaresca, canalizzando queste voglie nella lettura, nella conoscenza, argomentando in modo semplice ma non scialbo, senza riferirsi per forza al presente al fine di evidenziare l’utilità della materia insegnata? Educare i ragazzi non necessariamente ad affermarsi, a diventare qualcuno, bensì a comprendere cosa siano la misura, il rispetto, la fiducia in sé stessi; che un personaggio come Jean Valjean de I Miserabili non è meno accattivante di un supereroe e visitando la Reggia di Versailles, prestando attenzione, allenando gli occhi, scrutando dipinti e sale finemente decorate, ci si può divertire molto di più che non al Parc Astérix di Plailly? Per ultimo ma non per importanza, invitare a sorprendere la persona amata scrivendo una poesia anziché un messaggio sgrammaticato o farle dispetti in classe per attirare la sua attenzione? Tutte queste sono virtù proprie dei “grandi spiriti” e non è un caso che il titolo originale della quarta pellicola da noi scelta – Il professore cambia scuola di Olivier Ayache-Vidal – sia proprio “Les grands esprits”. Protagonista della vicenda è un insegnante, François Foucault (il misurato Denis Podalydès), il cui cognome pesa come un macigno: la memoria di alcuni spettatori tornerà, infatti, quasi subito allo storico Michel Foucault e al suo libro Sorvegliare e punire, imperniato sulla nascita della prigione nelle società occidentali. Il nostro maestro non è da meno in fatto di severità e sarcasmo, “armi” che sfodera spesso e volentieri con i ricchi e svogliati allievi del liceo parigino dove lavora. Nel corso di una presentazione dell’ultimo saggio pubblicato da suo padre, François incontra la bella Agathe (Zineb Triki), un’operatrice socio-sanitaria che lo convincerà, mediante uno stratagemma non proprio corretto, a portare la sua competenza ed esperienza in una scalcinata scuola di periferia, frequentata da giovani di diversa provenienza etnica. A metà strada tra dramma e commedia, finzione e realismo documentario, il film prende per mano, incuriosendoci sui metodi che François vorrà adottare per conquistare la fiducia e l’ammirazione di questa nuova, incontenibile classe…

Potreste, giustamente, obiettare: ma perché dovremmo vedere proprio questo film dato che la trama, in fondo, non è nuova e tematiche quali l’incomunicabilità fra culture, classi sociali, o la quotidiana lotta degli insegnanti nelle periferie urbane sono già state abbondantemente sviscerate da pellicole come Il seme della violenza di Richard Brooks, The principal di Christopher Cain oppure Entre les murs di Laurent Cantet? Questo è vero. Nondimeno Il professore cambia scuola riesce a distinguersi per i toni pudichi quando non dimessi, l’assenza di demagogia, l’onestà intellettuale che dimostra nel suggerirci che non tutti, ahinoi, possono essere ‘grandi spiriti’ come il menzionato Victor Hugo ma provare a leggerne le opere e così quelle di Ionesco, di Hemingway o Petronio Arbitro (tutti autori citati nei dialoghi), ci permette di stare in loro compagnia e, forse, proprio per merito della curiosità che ce li ha fatti conoscere, scoprirsi migliori di quello che le convenzioni sociali, la moda, la rumorosa filosofia di vita oggi vigente ci persuadono ad essere (e apparire). Conoscere simili penne può addirittura “arrestare” il tempo. L’universo che zampilla dalle pagine di un libro, se ben concepito, crea questo singolare effetto: il fruitore ne è catturato a tal punto “da non accorgersi del passare di quelle ore che ha trascorso a leggere e si meraviglia alla fine che esse siano state tante. Nel corso della lettura egli è, infatti, entrato nel tempo a-cronologico che era stato tipico del mito nelle società primordiali e classiche” (cit. G. De Turris). Questo parallelo, che si deve allo storico delle religioni Mircea Eliade (si legga il libro-intervista Dentro il labirinto), è ancor oggi verissimo. Mai come nell’ultimo decennio si è fatta sentire una così acuta “fame” di miti, di storie di iniziazione. Le ultime due pellicole che esamineremo possono provarlo.

Durante la proiezione de Il viaggio di Yao mi ha attraversato la mente un toccante episodio che coinvolse Léopold Senghor, una delle voci più importanti del panorama poetico africano del Novecento. Sul finire degli anni Settanta, ricevendo in udienza i fratelli Castiglioni, cineasti e noti studiosi di etnologia, Senghor disse: “Uomini bianchi, andate nei villaggi sperduti della mia terra con i vostri registratori, le vostre macchine fotografiche e raccogliete le testimonianze degli stregoni, dei cantastorie, dei vecchi, di tutti i gelosi custodi di una lunga storia umana affidata soltanto alle loro voci. Quando essi moriranno, sarà come, se per la vostra civiltà, bruciassero tutte le biblioteche”. Da allora sono trascorsi più di quarant’anni e quelle voci, quei gesti, quei volti anziani screpolati dal sole non ci sono più. Non tutto, però, è andato perduto. Il regista del film, Philippe Godeau, è convinto che le antiche tradizioni, la “fame” di eroi e di viaggi prima accennata, stiano ancora pulsando sotto le ceneri dell’Africa moderna. Esse sopravvivono nei sogni e nelle speranze di un giovinetto (Lionel Louis Basse) proveniente da uno sperduto villaggio del litorale del Togo; e ugualmente sonnecchiano nell’animo di un divo del cinema (Omar Sy), nato in Senegal ma da anni conformato alla cultura francese. Il risoluto ragazzino si chiama Yao e, grazie ai libri, pare non sentire il peso della povertà, “giocando” come pochi altri suoi coetanei. Sogna di essere Ulisse mentre vince il richiamo delle Sirene oppure di salire a bordo del Nautilus per conoscere il Capitano Nemo… ma il suo beniamino rimane Seydou Tall, il divo cui prima accennavo e della cui biografia Yao conserva gelosamente una copia ingiallita, sbrindellata proprio perché “vissuta” con brama. Yao e Seydou: due mondi distanti, due figure che difficilmente potrebbero incontrarsi nella realtà. Tuttavia, come sussurra sorridendo il bel personaggio di Tanam (Germaine Acogny), una veggente, “Il destino non è altro che Dio quando opera in incognito”. Starà a voi scoprire cos’ha, dunque, in serbo il “Dio Nascosto” per la strana coppia di protagonisti… Illuminato con sapienza da Jean-Marc Fabre (già collaboratore di James Ivory) e “cullato” dalle musiche di Matthieu Chedid, Il viaggio di Yao offre un intrattenimento semplice, ingenuo ma non stupido, se si esclude una sequenza di dubbio gusto, quasi certamente imposta dalla produzione per “lavare la coscienza” del pubblico francese dal suo passato coloniale: giunto ad un posto di blocco Seydou viene, infatti, redarguito da una poliziotta per la faciloneria con cui ostenta la ricchezza del suo portafoglio, degna di un vero “turista bianco”; rimprovero di per sé giusto ma subito neutralizzato dal fatto che la stessa donna chiede una “mazzetta” per chiudere un occhio, giusto per insinuare nello spettatore l’idea che, abbandonata la saggia “guida” europea, l’Africa nasconde dietro i suoi regimi formalmente democratici l’indole disonesta e razziatrice di sempre. La nostalgia per i “paradisi coloniali” è dura a morire (la recente commedia inglese Marigold Hotel fornisce esempi più espliciti) ma, nel caso in oggetto, non è tale da sminuire due innegabili pregi: la regia, sopra ogni altra cosa, lascia parlare le immagini (vi sono alcune inquadrature che istantaneamente ci riportano all’arte naïf, ai rossi crepuscoli e ai bruni “sabbia” delle tele di Charles-Théodore Frère) e l’invito finale ad interrogarsi sulle proprie origini, a purificare il proprio sguardo per riuscire a cogliere in un albero, nel mare o magari nella musicalità patria le manifestazioni di un tempo eterno, opposto al clamore o all’angoscia del tempo storico, arriva sincero all’orecchio di chi è in sala.

Per commentare, infine, Border – Creature di confine di Ali Abbasi è necessario aprire una parentesi d’approfondimento. Uno dei temi privilegiati dal Decadentismo europeo fu senz’altro il tramonto delle antiche divinità e uno dei primi a sollevarlo fu il poeta tedesco Heinrich Heine il quale, nel breve scritto Gli spiriti elementari (1837), mostrò come il Cristianesimo, lungi dall’aver ridotto gli dèi pagani a vuoti simulacri, ne aveva di fatto ribadito la reale esistenza, trasformandoli in entità infide, minacciose, messaggere di una forza e di una carnalità inquiete, inconciliabili con lo spirito della nuova Fede. Nello scritto successivo, Gli dèi in esilio (1853), Heine riprese questa tesi approfondendola: le antiche divinità pagane sono state sì bandite dal loro regno ma qualche volta è ancora possibile incontrarle, vaganti per il mondo moderno, sotto le mentite spoglie di comuni mortali (cfr. Giannini G., Cinema e Giardini. Una lettura iconologica, Pontecorboli ed., Firenze 2016, III, pgg. 221, 222). Se questa piccola digressione può, da un lato, avvalorare la nostra impressione circa l’assidua presenza di miti nelle odierne forme d’intrattenimento (letteratura di consumo, cinema ecc…), fossero anche rivisitati o laicizzati, dall’altro aiuta a spiegare come il motivo topico della “creatura sovrannaturale in esilio” attraversi sottopelle non poche pellicole degli ultimi dieci o dodici anni: si va dalle fameliche (o sbarazzine) sirene di Aquamarine e Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare al rozzo figlio di Odino (con un debole per le paninoteche) in Thor, dal centauro Chirone (ora mite professore di latino) in Percy Jackson all’amazzone “in spolverino” di Wonder Woman, dal dio-pesce irretito, protagonista dell’adulto e sfaccettato La forma dell’acqua, ai Troll rancorosi e schivi di Border.

L’uggiosa Svezia fa da sfondo alla nostra fiaba. Passato, presente… che importa? L’incantesimo è già in atto, il tempo si arresta nel corso della visione. Tina (Eva Melander) lavora presso la polizia di frontiera aerea. La Natura l’ha brutalizzata nell’aspetto fisico ma le ha fatto dono anche di preziose, segrete virtù. Col suo olfatto Tina riesce a cogliere, ad esempio, odori sottili ma soprattutto a penetrare nell’animo umano, portando alla luce i propositi più oscuri: ladri, assassini, sfruttatori di fanciulli vengono, così, consegnati alla giustizia. Tina teme il Male, lo ripudia, lo combatte. E’ una “figlia della Natura”, sembra tutt’uno con essa: con i ruscelli, le distese di muschio, le cortecce degli alberi e così gli animali… volpi, grilli e alci dei quali predilige la compagnia a quella di familiari e colleghi.

Nella vita di Tina fa breccia Vore (Eero Milonof), un vagabondo “imprigionato” da un corpo ugualmente ripugnante, tuttavia pago di una verità che la fragile donna ancora non conosce: Tina non è affetta da una malformazione congenita, non appartiene alla specie umana bensì, come Vore, a quella dei Troll sunnominati. Nerborute creature del folklore scandinavo, i Troll hanno da sempre amato e protetto la Natura ma hanno anche coltivato un rapporto conflittuale con l’Uomo: il suo mondo li attrae ma, al tempo stesso, li spinge a giudicarlo ed avversarlo con furia. Mai fidarsi di un Troll, raccontavano le nonne attorno al fuoco, e guai a quell’individuo che umilia i propri figli e il volto della Terra se mai un Troll venisse a scoprirlo. Per la prima volta Tina è innamorata, felice, almeno fino a quando il suo amante si rivela, attraverso piccoli segni, non meno brutale del consorzio umano che contesta… Crudelissimo, disturbante, forse non per tutti i gusti, Border è senz’altro l’opera di genere fantastico più interessante di questa stagione. Da menzionare la bellissima sequenza del primo bagno che Vore e Tina fanno insieme in un gelido lago, densa di richiami alla storia dell’arte come il dipinto Ermafrodito e Salmace (1580-‘95) dello Scarsellino (conservato alla Galleria Borghese), certe incisioni del secentista Antonio Tempesta nonché Le bagnanti (1853) di Gustave Courbet i cui corpi, pieni e un po’ goffi, assomigliano molto a quelli dei protagonisti.

Thriller d’azione o drammi sociali, commedie o scherzi amorosi, fiabe arcaiche o “tecnologiche”, i prodotti del cinema contemporaneo nascondono tutti qualcosa. Qualcosa che neppure l’autore stesso, forse, sospettava. Non basta esaminarne la struttura narrativa, bisogna in un certo senso “interrogarli”, farli cedere perché confessino la loro più intima verità. “Risalire” è il motto che, se vorrete, potrà accompagnare il vostro studio: dalle pastoie dell’industria e dei generi alle sorgenti del Mito, basso continuo di un canone, ci auguriamo, perpetuo.

«Risalire» – Appunti sparsi sulla formazione dello sguardo in un’epoca di passaggio – di Giordano Giannini

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