“Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.”
Tra il leopardiano “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, datato tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830, e la “Gioconda” leonardesca datata tra il 1503 e il 1504, ci sono oltre trecento anni. Il genio vinciano, osservando la Luna per i suoi studi, non poteva certo immaginare che dopo oltre tre secoli a Recanati un poeta appena trentenne avrebbe composto una canzone poetica tra le più celebri dedicata proprio al nostro satellite.
Eppure il famoso sfumato leonardesco, quello che per intenderci ancora oggi ci regala l’emozione dell’indefinito dei tratti e dello sfondo della Monnalisa, nasceva proprio fissando e studiando la Luna e la sua irradiazione luminosa.
Ma prima fermiamoci un minuto a guardare per l’ennesima volta la Gioconda. Senza entrare in un’analisi critica uno dei suoi tratti distintivi è la sua forza espressiva che sembra quasi emergere dallo sfondo, come in un inscindibile legame tra essere umano e appartenenza all’universo. E’ il paesaggio che quasi crea i contorni di questa donna enigmatica e ieratica. Quasi siamo deconcentrati a cercare di comprendere le vere coordinate naturalistiche a fronte del primario interesse che è rappresentato dal levarsi fuori dalla tela di lei, della Gioconda in prima persona.
Questo è l’effetto che crea lo sfumato leonardesco. Una interazione luminosa, figurativa, umana, universale. Tuttavia per arrivare alla realizzazione su tela di questa intuizione, Leonardo ha bisogno di studiare attentamente proprio la Luna, in particolare attraverso alcuni disegni e osservazioni verifica scientificamente il fenomeno della luce cinerea derivante dalla Luna. Leonardo intuisce come quest’ultima infatti non possa brillare certo di luce propria, bensì riverberando la luce solare che colpisce la Terra e che finisce poi con il giungere sulla sua superficie. Per quanto poi le conclusioni scientifiche alle quali giungerà Leonardo non si dimostreranno con il tempo corrette, la sua intuizione è sufficiente per permettergli di ricreare tale effetto sulla tela e di trasferirlo così al nostro occhio. Emblematico il caso del “San Giovanni” esposto al Louvre dove la luce che illumina il santo ha proprio le caratteristiche cinerine della luce lunare non essendo precisamente definibile la sorgente di provenienza.
“O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari.”
Torna così in scena la figura del poeta di Recanati: questo fascio luminoso indefinito, che Leonardo studia e sistema quasi fosse tessera di mosaico nelle sue tele, ha tutte le sembianze di un grande classico leopardiano: l’indefinito. “Il forse è la parola più bella del vocabolario italiano. Perché apre delle possibilità, non certezze. Perché non cerca la fine ma va verso l’infinito”.
Leopardi oscilla tra le due sole certezze che caratterizzano la vita umana: il suo inizio e la sua fine. Tutto intorno si muove questo magma poetico del tutto informe, indefinito appunto, dai contorni talmente irreali da permettersi l’abbandono e il naufragio in questo mare.
La luce leonardesca trova allora un controcanto dove manifestarsi in chiave e in forma poetica. Sarebbe tuttavia del tutto fuorviante volerne dedurne correlazioni oggettive e certe in assenza di dati certi. Quanto mi preme è portare l’attenzione sul parallelo poesia-pittura. Si tratta di arti completamente lontane, eppure l’impronta indefinita è ravvisabile sia in un come nell’altro. D’altra parte ciascuno dei due maestri utilizza la luce o la parola in maniera del tutto diversa, volendo esprimere il medesimo concetto. Come che sulla tela si potessero scrivere parole e sulla carta si potessero apporre fasci luminosi mediante forme verbali e suoni.
L’indefinito, per non parlare del non finito, è un tratto distintivo dell’arte quando quest’ultima vuole affidare sì un messaggio a chi ne prenda visione, ma sceglie di non dire tutto, sceglie di lasciare nel buio qualcosa. La scelta di Michelangelo di lasciare incompiuta la Pietà Rondanini esposta al Castello Sforzesco di Milano è forse il trait d’union tra il l’effetto del fenomeno artistico e la sua assenza. Gli spettatori, ma si potrebbe anche dire uditori e lettori pensando alla poesia, sono condotti attraverso uno schema nudo dove viene mostrata l’entrata in scena dell’arte. E il suo effetto dirompente.
Allo stesso modo Leonardo non ci vuole fornire tutte le chiavi di lettura per entrare nella sua opera: lo sfondo della “Gioconda” ha appassionato i critici per centinaia di anni anche in tempi recenti. Alcune espressioni leopardiane volutamente vaghe sono la cifra stilistica della poesia che vuole raccontare per sottrazione.
L’arte diventa allora non solamente momento di condivisione dell’atto figurativo, poetico o musicale che sia, ma sperimentazione dell’effetto, dinamica dell’estetica non soltanto visiva ma anche sensoriale e ideale nell’ampiezza più totale del termine.