Premessa

Un po’ di Dante per tutti

È proprio vero che qualsiasi autore o periodo storico studiati a scuola vengono apprezzati molto di più quando si diviene adulti. Verrà spontaneo pensare che questa sia una grande banalità, ma per me è stato proprio così. 

Quest’anno, in occasione dei 700 anni dalla morte di Dante ho avuto occasione di assistere a molti webinar, di leggere testi che avevo in casa, dai tempi della scuola… e di acquistarne altri. Mi è venuto spesso in mente un tema in classe fatto il terzo anno delle superiori, su Dante appunto, giudicato dalla professoressa: “sarebbe ottimo, se…”. Il se era da attribuire al pezzetto finale che suonava più o meno così: “mi chiedo come un essere umano normale sia riuscito ad avere tanta fantasia da scrivere la Commedia. Se Boccaccio l’ha chiamata ‘Divina’ avrà avuto i suoi buoni motivi!” Questa mia frase un po’ impertinente mi costò dei bei punti in meno.

Oggi non la riscriverei, naturalmente, perché ho compreso, ovvero sto cercando di comprendere la vita di Dante, le sue esperienze, il suo essere “Peregrino“ ed essere divenuto il massimo poeta della letteratura italiana e uno dei più grandi di tutti i tempi e luoghi.

L’amore per la nostra bella lingua mi sospinge a scrivere questo modesto pezzo dedicato, o meglio destinato, ai non dantisti, bensì ai dantofili[1]. È mio desiderio far  sì che possa interessare chiunque, tra i non “addetti ai lavori”, un amico, un compagno di strada oppure coloro che non hanno coltivato questo studio sui banchi di scuola per mille motivi. Un approccio semplice ma chiaro, non sofisticato ma serio e documentato.

Strutturerei il mio scritto in:

  • La vita e le opere
  • L’esilio e la maturità del Poeta
  • La “Commedia” e la struttura delle cantiche
  • Il viaggio di Dante
  • Gli insegnamenti morali, religiosi e politici della “Commedia”
  • Dante e la sua preghiera alla Madonna


Vita ed Opere

Dante Alighieri nacque a Firenze nel mese di maggio del 1265. Apparteneva ad una famiglia di modeste condizioni economiche e sociali, ma nobili di origine. Il padre, Alighiero, era pronipote di quel Cacciaguida insignito dall’imperatore di cui Dante fece uno dei più celebri personaggi del Paradiso. Ebbe una educazione accurata, nello studio delle arti, dell’arte retorica, conosceva la lingua, la letteratura francese e provenzale e coltivava la musica. Suo maestro fu probabilmente il famoso Brunetto Latini, uno dei più dotti fiorentini del tempo.

Coltivò grandi amicizie, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Giotto e altri, con i quali frequentava feste e cacce. Come tutti i nobili prestò servizio militare e partecipò alla battaglia di Campaldino contro i ghibellini di Arezzo (1289) e nel contempo non trascurò la sua attività poetica e compose versi di vario argomento, soprattutto d’amore, rivolti verso una certa Beatrice, forse figlia di Folco Portinari, sposa di Simone de’ Bardi. La conobbe che entrambi avevano nove anni, la rivide a diciotto e se ne innamorò. Nei suoi versi la ritraeva alla maniera del Dolce Stil Nuovo, come un angelo inviato sulla terra per la salvezza della sua anima. Nel 1290 Beatrice morì di parto e Dante cadde in una profonda prostrazione; per distrarsi si dedicò a severi studi filosofici e l’immagine di Beatrice ritornò nel suo animo con tale intensità da indurlo a raccogliere alcune delle rime scritte per lei e ad unirle con una narrazione in prosa e ne uscì la “Vita Nova“.

Iniziò qui per Dante un nuovo periodo di vita, durante il quale riprese studi intensi, si sposa con Gemma Donati che gli diede quattro figli, ma ne conosciamo solo tre, Jacopo, Pietro e Antonia (probabilmente il quarto morì presto). Poté dedicarsi anche alla vita politica di Firenze, approfittando di una riforma degli ordinamenti che escludevano dagli uffici pubblici i nobili e acconsentivano a questi di partecipare alla vita pubblica purché iscritti alle Arti. Fu per questo che Dante si immatricolò a quella dei Medici e degli Speziali. Dalla fine del 1295 fece parte di vari consigli cittadini e la sua carriera politica culminò nel 1300 anno in cui appartenne al gruppo dei Priori.

Firenze era divisa tra le fazioni dei guelfi bianchi (capeggiati dai Cerchi) e quella dei guelfi neri (con a capo Corso Donati). In mezzo a tante discordie si era insinuata la politica del Papa Bonifacio VIII  che pretendeva di estendere la propria autorità sulla Toscana. Dante cercò di essere neutrale poiché gli premeva il bene del Comune, ma di fronte alle pretese del Papa si oppose energicamente, parteggiò per  i Bianchi sostenitori dell’indipendenza della città contro i Neri.

Nel 1301 viene mandato come ambasciatore dal Papa per persuaderlo ad agire diversamente. Durante la sua assenza i Bianchi vennero rovesciati e contro di loro piovvero condanne e confische.  Dante, assente, venne accusato senza fondamento, di baratteria ovvero fare mercato di pubblici uffici, di turbare la pace della città, di azioni ostili contro il Papa ed è condannato all’esilio per due anni, una multa di 5000 fiorini piccoli e all’esclusione perpetua dagli uffici.

Il poeta non tornerà più a Firenze e, non essendosi presentato per pagare la multa e per giustificarsi, venne condannato ad essere bruciato vivo qualora fosse caduto nelle mani del Comune. 

Nei primi anni dell’esilio Dante fece vita comune con i Bianchi fuoriusciti e con i Ghibellini, partecipò  ai tentativi di rientrare in città con le armi; ma nel 1304 si separò  da questi compagni per diversità di opinioni (“compagnia malvagia e scempia”) e preferì “far parte di se stesso” in esilio, di città in città.

Cominciò così un periodo di tribolazioni e dolorose esperienze che maturarono e arricchirono  la sua umanità e, conseguentemente, la sua poesia, sino a quel momento influenzata dalle soavi ed estatiche visioni stilnovistiche. 

Quest’ultimo periodo della sua esistenza fu certamente il più doloroso e, insieme, il più fecondo sia come esperienza di vita, che come attività di scrittore. Dopo aver inutilmente tentato di rientrare in Firenze, andò per molte regioni d’Italia, peregrino, quasi mendico. Per quanto sappiamo il suo primo rifugio fu la corte di Bartolomeo della Scala, a Verona; nel 1306 si fermò presso il marchese Malaspina in Lunigiana, nell’anno successivo presso i conti Guido; nel 1300, pare, si recò a Parigi attratto dall’Università di quella città. in quegli anni compose il Convivio e il De vulgari eloquentia e, forse, nel 1307, iniziò la Commedia.

Quando Arrigo VII di Lussemburgo nel 1310 si accingeva a scendere in Italia per riconquistare “il giardino dei loro imperio“ Dante volle personalmente recargli omaggio, sembra a Milano, in quanto sperava che l’Imperatore avrebbe dovuto redimere l’Italia dalle lotte fratricide e dal disordine e instaurare una nuova era di pace e di giustizia. Accompagnò quell’impresa, scrivendo tre celeberrime epistole, indirizzando la prima ai principi e ai popoli italiani, la seconda ai fiorentini che, “scelleratissimi” opponevano resistenza all’Imperatore e l’ultima all’Imperatore stesso perché frenasse i ribelli fiorentini. Dante contava moltissimo che Arrigo potesse aiutarlo a rientrare a Firenze.  L’impresa, è noto, fallì, per le grandi opposizioni incontrate dall’Imperatore in Italia e poi per la sua morte sopraggiunta a Buonconvento nel 1313 e con essa ogni speranza di rimpatrio. In questo periodo compone la “Monarchia”. Lascia quindi il Casentino e si reca a Lucca e, pare, per la seconda volta, a Verona.

Qualche amico lo lusinga verso una speranza di tornare a Firenze grazie ad una amnistia, previo pagamento di una multa ed una umiliante ammissione di colpa nella chiesa di S. Giovanni. “Non è questa la via per tornare in patria – dice Dante ad un non precisato amico – ma se voi ne troverete una che non sia indegna della fama e dell’onore di Dante, io per quella mi metterò a passi non lenti”. E continua nella dolorosa strada dell’esilio trovando conforto nella composizione della sua grande opera, la Commedia, ormai al compimento. Nel 1314 aveva già terminato l’Inferno e il Purgatorio. 

Da Verona si recò a Ravenna presso Guido Novello da Polenta. Di là torna a Verona nel 1320 per discutere la “Quaestio de aqua et terra” e nell’anno successivo a Venezia quale ambasciatore di Guido da Polenta. Al ritorno da quest’ultimo viaggio si ammala e muore nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321.

Il suo corpo, onorato da Guido e dai principali cittadini di Ravenna viene deposto in una arca marmorea nella chiesa di San Francesco. Invano  Firenze in quel secolo e nei secoli successivi ha richiesto le ossa del Poeta per porle vicino a quelle degli altri grandi fiorentini.


L’esilio e la sua maturità

Ingiustamente perseguitato, Dante fece oggetto dei suoi studi i problemi inerenti la condizione dell’uomo che, durante la sua vita terrena, deve operare in vista di un fine più alto e tenendo sempre presente il suo destino eterno. Nella considerazione delle profonde ingiustizie che travagliavano il mondo, Dante si sentì chiamato a contribuire alla sublime opera di redenzione che avrebbe dovuto attuarsi nella restaurazione dei due poteri, quello dell’Imperatore e quello del Papa, istituiti dalla Provvidenza per la felicità e la salvezza del genere umano, rispettivamente nella vita terrena e nell’altra vita.

 Secondo il punto di vista del Poeta solo nel caso che uno o l’altro dei due poteri, spirituale e temporale, si fosse mantenuto rigorosamente, senza prevaricazioni e entro i limiti di competenza a ciascuno assegnata, potevano essere mantenuti.

Questa consapevolezza, unitamente al desiderio di celebrare il suo amore per Beatrice assieme all’intenzione di scrivere un’opera di così grande risonanza da procurargli il ritorno nella sua amata Firenze, costituì la spinta iniziale alla composizione del poema da lui chiamato Commedia e dai posteri (Boccaccio) onorato dell’epiteto di Divina.

Preso da questo grande impegno con se stesso Dante si applicò in studi severi, particolarmente di filosofia e teologia, assieme alla lettura dei classici latini. Lo studio, consolatorio nel dolore ed educativo per l’anima e la mente, formò in lui quella cultura che rivelerà in pieno negli scritti composti durante l’esilio. Non venne distolto nemmeno dalla poesia: scrisse rime d’amore allegoriche, dottrinali di argomenti vari; più tardi anche Canzoni. Con le “Rime petrose” finisce la poetica stilistica del Dolce Stil Novo. Si svilupparono in lui sentimenti concreti, realistici, virili e da quel momento il suo animo fu assorto nella considerazione di alti ideali di vita e di scienza e al poeta dell’amore subentrò il cantore della rettitudine. A questo cambiamento di stile e a questo approfondimento umano e dottrinale contribuirono gli studi, ma anche le sue occupazioni e soprattutto il doloroso contatto con la realtà della vita a cui Dante fu costretto durante l’esilio, dal 1302 in poi, per il quale dovette lasciare ogni cosa amata e mendicare, provando così come “sa di sale lo pane altrui“. Al proprio dolore il poeta unì quello degli uomini dei quali, durante l’esilio conobbe più da vicino le miserie, vedendo meglio le tristi condizioni in cui versava l’umanità e visse più a fondo il tormento dell’esistenza. Con il passare del tempo egli si elevò al di sopra delle rivalità e degli egoismi terreni e visse il vincolo della fratellanza. il poeta era conscio di aver raggiunto un’altezza spirituale, morale e culturale non comune. Sentiva, con quella severità propria del suo carattere il dovere morale di educare gli uomini nella scienza e nella virtù ed è con questo spirito che affrontò le opere di quel periodo. 

Con il passare degli anni la sua divenne un’esigenza spirituale vera e propria, approfondita via via sempre più intimamente fino ad assumere una forma sempre più chiara e concreta in quell’opera che sarebbe stata, non solo il suo capolavoro, ma uno degli scritti più grandiosi della letteratura mondiale.

Infatti tenendo sempre presente nel suo animo la Beatrice che lo aveva sostenuto nella vita giovanile e unendo al ricordo di questo grande amore molti dei principi ideali via via maturati decise di trasferire nella Commedia il proprio ideale etico religioso, la propria cultura storico, filosofico, teologico, morale, scientifico, letteraria, i dogmi e le credenze cristiane, le convinzioni politiche, la storia passata e quella presente d’Italia e soprattutto di Firenze, la storia del Papato e della Chiesa, la conoscenza profonda delle necessità dell’umanità travagliata.

Dante, plasmando tutto questo con la sua forza della mente e trasfigurandolo con la sua immensa immaginazione e fantasia aveva disegnato e progettato, fin dai primi anni dell’esilio, un’opera gigantesca per l’umanità: la Commedia, poema allegorico didascalico, quadro storico, politico e morale del XIV secolo con riferimenti anche ad epoche passate e capolavoro altamente poetico.

 

La Commedia e la struttura delle Cantiche

Il poema fu immaginato, probabilmente, come un’opera in gloria di Beatrice, al tempo di quella “mirabile visione“ di cui Dante parla nella Vita Nova.

Dopo i profondi studi condotti nel periodo successivo al lavoro giovanile e dopo l’esperienza politica e umana acquisita dal 1295 in poi e particolarmente durante l’esilio, il disegno del poema si modificò profondamente e si ampliò nella visione grandiosa e complessa che noi oggi leggiamo, pur mantenendo sempre presente Beatrice e l’intenzione di glorificarla come mai si era fatto di donna alcuna.

La data della composizione della Commedia va ricavata da accenni storici sparsi qua e là nel poema stesso. Fino a non molto tempo fa l’opinione più diffusa era che il poeta, pur pensando al lavoro e forse preparandone il materiale, abbia composto l’opera dopo che ogni speranza di ritornare a Firenze era svanita con la morte di Arrigo VII e l’unico conforto gli veniva da questo lavoro.

Oggi, dopo molti studi condotti sui dati storici si è propensi a ritenere che l’opera fosse iniziata verso il 1307, che le prime due Cantiche fossero già ultimate nel 1314 e che l’ultima, il Paradiso, fosse composto dal poeta negli ultimi anni di vita.

Quanto al titolo dell’opera esso ci viene indicato in una lettera inviata da Dante a Cangrande della Scala nella quale lui stesso definiva il suo lavoro una Commedia più per il contenuto (come nella commedia ha inizio triste e lieto fine) che per lo stile in cui venne composta. Nel Medioevo erano ritenute tragiche le composizioni di alto argomento e di stile elevato (l’Eneide), comiche quelle di stile vario e medio. Dante considerando la sua opera non al pari dell’Eneide la stimò di stile medio, cioè commedia.

É anche vero che successivamente, scrivendo il Paradiso, ebbe coscienza di aver raggiunto uno stile molto elevato e tragico, ma lasciò immutato il titolo originario. Fu Giovanni Boccaccio a suggerire di definirla Divina. Per iscritto il titolo di Divina Commedia apparve la prima volta in una edizione veneziana nel 1555.

Il poema si compone di tre Cantiche chiamate Inferno, Purgatorio e Paradiso, costituite da 100 canti in endecasillabi che si riuniscono in terzine a rima incatenata (cioè il secondo verso di ogni terzina fa rima con il primo verso della terzina successiva, incatenando così tra loro le diverse terzine con la rima).

 

Struttura dell’Inferno

L’inferno è una immensa voragine a forma di cono rovesciato il cui vertice giunge al centro della terra e si apre sotto la superficie terrestre nell’emisfero boreale, precisamente sotto Gerusalemme, che è collocata nel punto centrale dell’apertura.

Scendendo nella voragine e oltrepassando la porta si incontrano il Vestibolo, il fiume Acheronte e poi nove cerchi nei quali i dannati sono distribuiti in tre grandi ripartizioni corrispondenti a tre malvagie tendenza dell’uomo: incontinenza, violenza, fraudolenza; più gravi sono i peccati ai quali concorre la ragione e meno gravi quelli dipendenti più da impulso di sensi che da premeditazione ragionata.

Andando dall’alto verso il basso si trova il Limbo  che è sito fuori dalla ripartizione dei peccatori, poiché in quel luogo vi sono anime non colpevoli, bambini morti senza battesimo, o spiriti buoni dell’antichità.

I violenti, cioè coloro che peccarono per impulso fisico con un coinvolgimento della ragione, quindi contro il prossimo, contro se stessi, violenti contro Dio, la natura e l’arte e i fraudolenti cioè coloro che operarono il male con fredda determinazione ad esempio i seduttori, gli adulatori,  gli ipocriti, i ladri, I falsari sono distinti da quelli più esecrabili che hanno usato la frode contro le persone che si fidavano di loro quindi traditori dei parenti, della patria, degli ospiti degli amici e dei benefattori.

Violenti e i fraudolenti sono racchiusi entro la città di Dite, prima di loro all’interno delle mura sono posti gli eretici la cui colpa è dovuta all’aver negato l’immortalità dell’anima.

In fondo all’Inferno in corrispondenza del centro della terra si trova Lucifero con tre facce il quale maciulla con le tre bocche e con sei ali, sempre in moto, ghiaccia Cocito che gli sta intorno e così rimane imprigionato egli stesso. Le acque di questo fiume provengono da altri tre fiumi infernali. Ogni cerchio ha un proprio custode. I dannati, pur essendo ombre mantengono il loro aspetto umano e soffrono tormenti fisici.

Essi non possono lasciare il cerchio ove scontano la pena, prevedono il futuro ma non vedono il presente. Lucifero, attanagliato ai fianchi dal ghiaccio, agita le gambe nel vuoto in una grande caverna dalla quale parte una galleria che conduce ai piedi della montagna del Purgatorio formatasi al momento della sua caduta.

Quando l’angelo ribelle fu scaraventato sulla terra questa si ritrasse sotto il mare sporgendo poi nell’emisfero boreale e lasciando solo acqua in quello australe. Incastrato nel centro della terra e imprigionato nel ghiaccio fino ai fianchi, più o meno, quella parte di terra che gli toccava la parte inferiore del corpo tornò su, per il ribrezzo dal contatto, formando in mezzo alle acque un’altissima montagna: è la montagna del Purgatorio.

 

Struttura del Purgatorio

Come l’Inferno ha forma di cono, con il vertice in alto. Le falde del monte e il pendio iniziale costituiscono l’Antipurgatorio poi più su c’è il Purgatorio nel quale si entra attraverso una porta custodita da un angelo e vi si giunge attraverso un sentiero stretto scavato nel sasso.

È diviso in sette ripiani intagliati nel monte, ciascuno largo 5 m, con uno strapiombo nel lato interno e dal lato esterno il vuoto, senza parapetto. I piani comunicano tra loro per mezzo di una scaletta. In cima al Purgatorio c’è il Paradiso Terrestre. Le anime giungono alla montagna per mezzo di una navicella guidata da un angelo che le raccoglie alle foci del Tevere (il Tevere è il fiume di Roma ove risiede il Papa senza il quale non ci si salva). Ognuno di loro, giunto nel luogo dove deve purgare il proprio peccato, vi rimane per poi passare ad un altro, qualora avesse altri peccati.

Nell’Antipurgatorio stanno i negligenti cioè coloro che si sono pentiti solo in punto di morte.  Appartengono a questa categoria gli scomunicati, i pigri e i Principi che trascurarono i doveri verso i sudditi. Non hanno una sede determinata e vanno su e giù.

Nel Purgatorio le colpe sono classificate secondo i criteri della Chiesa (secondo i sette peccati mortali) e tutti i peccati sono ridotti ad amore: amore del male verso il prossimo, (gli invidiosi e superbi e gli iracondi), lo scarso amore verso Dio, (gli accidiosi) e l’eccessivo amore verso i beni terreni, (gli avari, i golosi e i lussuriosi).

In base alla colpa scontano una pena e soffrono fisicamente, ma ancor più spiritualmente, vengono ammoniti continuamente da esempi che esaltano la virtù opposta al loro peccato o da coloro che ricordano la punizione del peccato stesso; odono anche voci misteriose. In cima al Purgatorio, già nominato, c’è il Paradiso Terrestre al cui centro è collocato l’albero del bene e del male, è attraversato da due fiumi che nascono dalla medesima sorgente, ma procedono in direzioni opposte. Le anime dopo essersi purgate entrano nel Paradiso Terrestre bevono a entrambi i fiumi e poi salgono al Paradiso Celeste.

 


Struttura del Paradiso

Il Paradiso è posto nei cieli. Seguendo la cosmografia telematica Dante ci parla di nove sfere o meglio di nove fasce concentriche contenenti, le prime sette, i pianeti allora conosciuti, (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno); l’ottava le stelle fisse; la nona detta Primo Nobile nessun corpo visibile. Intorno a questi nove cieli trasparenti vi è il cielo Empireo formato da luce pura, infinita, senza limiti.

Qui Dante colloca il Paradiso al quale dà forma di un immenso anfiteatro circolare a forma di rosa sulle cui scalinate seggono contemplando Dio ed esultando di beatitudine le anime che hanno meritato il Paradiso.

Questa candida rosa è divisa verticalmente in due parti: da una parte stanno le anime che avevano avuto fede nella venuta di Cristo e dall’altra quelli che avevano creduto in Cristo in terra. Vi sono poi dei beati morti e, nella parte inferiore, le anime dei bambini. Naturalmente questi cerchi angelici concentrici sono tanto più ricchi di virtù quanto più sono vicini a Dio; ogni cerchio presiede a uno dei 99 cieli e in esso diffonde la propria virtù con un moto di rotazione più o meno veloce a seconda della maggiore o minore virtù derivata da Dio. Il cielo più veloce è il Primo Nobile che è anche il più ampio e comprende tutti gli altri.

Le anime sono tutte beate, sono fasciate di luce che viene direttamente da Dio e tanto più gli sono vicine tanto maggiormente risplendono. Queste anime vedono in Dio quanto accadde, ciò che accade nel presente e che accadrà nel mondo.

Una armoniosa concezione unisce i tre regni. Se tracciassimo una linea ideale che dal centro della terra passasse per Gerusalemme, incontrerebbe il Paradiso Terrestre e si prolungherebbe fino all’Empireo cioè a Dio. Cioè inizia da Lucifero il principio del male, passa per Gerusalemme dove Gesù morì per salvare tutti gli uomini, per il Paradiso Terrestre, dove Dante immagina che giungano le anime purificate per salire in Paradiso e arriva fino all’Empireo dove i beati godono della visione di Dio.


Il viaggio di Dante

Nella mente del Poeta l’opera si presenta come una visione della condizione delle anime dopo la morte.

Egli immagina di smarrirsi in una selva oscura a 35 anni, nella notte del giovedì santo dell’anno 1300. Tenta di uscirne salendo su per un colle (la vita virtuosa) illuminato dal sole (la luce di Dio che indica tutti la retta via) ma tre fiere (il peccato che attanaglia l’anima del peccatore e non gli permette di salvarsi) gli contrastano il passo. Sta per tornare nella selva oscura (l’anima di Dante e di tutti gli uomini peccatori) quando gli appare un’ombra, Virgilio (la ragione) che lo invita a condurlo alla salvezza per un’altra strada, passando attraverso l’Inferno e il Purgatorio (senza aver orrore del peccato e senza purificazione il peccatore non si può salvare).

Dopo un momento di esitazione, poiché Dante non si riteneva degno di intraprendere un viaggio nell’oltretomba, ma apprendendo che Beatrice stessa ha inviato a lui Virgilio per salvarlo e guidarlo, Dante si dichiara pronto a iniziare in lungo cammino. I due poeti si addentrano in un “cammino alto e silvestro“ e giungono alla porta dell’Inferno; entrano nell’abisso tenebroso senza trovare ostacoli. È il venerdì Santo, giorno della Passione. Confortato da Virgilio, Dante attraversa tutto il regno della perdizione, non percorrendo totalmente i cerchi, ma solo una piccola parte di ciascuno e scendendo subito a quello successivo. Supera fiumi,  custodi ostili, difficoltà del cammino, parla con le anime, si commuove, piange, contrasta con loro, ne ha comprensione oppure li disprezza, rievoca con loro episodi storici, di vita, amori, lotte politiche eccetera, ha ribrezzo del peccato.

Giunto con Virgilio nel punto più profondo dell’Inferno dove è incastrato Lucifero (siamo alla sera del sabato santo) si avvinghia al collo della sua guida e scendono fino al centro della terra. A quel punto iniziano a salire nell’emisfero australe attraverso uno stretto cunicolo ai piedi della montagna del Purgatorio: è prossima l’alba della domenica di Pasqua, giorno di Resurrezione. 

Il custode del nuovo regno, Catone, saputo che Dante compie quel viaggio per volere divino, gli consente di passare, ma gli ingiunge di lavarsi il viso per togliersi la caligine dell’Inferno e di cingersi i fianchi con un giunco, con umiltà. I due pellegrini quindi iniziano la salita del Monte soffermandosi a parlare ora con questa, ora con quell’altra anima.

Al calar del sole giungono alla valletta dei Principi e si fermano, Dante si addormenta e al mattino del giorno seguente prima del risveglio fa un sogno che gli rivela quanto è accaduto durante la notte: osservato da un’aquila (gli sembrava che fosse un aquila, ma si trattava di Lucia) è stato portato in alto ai piedi di un balzo che cinge il proprio il Purgatorio.

Dante con Virgilio giungono quindi alla porta del Purgatorio: c’è un angelo come custode fermo su tre gradini, interroga i due e poi li invita a scostarsi e con la spada incide sulla fronte di Dante sette P (segno dei sette peccati capitali) ed esorta il penitente a purificarsi. Si apre la porta e i due poeti entrano e, attraverso una via stretta e tortuosa, giungono al primo balzo dove vedono le prime anime, i superbi.

Salgono quindi di balzo in balzo soffermandosi qua e là a parlare. Ogni passaggio ė per lui una purificazione tanto che l’angelo custode gli toglie, ogni volta, con un colpo, una P.

Giungono infine in cima alla montagna, nel Paradiso Terrestre. Virgilio, maestro, dolce padre, si congeda dal discepolo, avendo compiuto il suo compito. Dante entra nella foresta divina, mentre Virgilio lo segue ancora un po’. Giunto sulla sponda di un piccolo fiume Dante scorge una donna sola che canta e sceglie dei fiori: è Matelda. Il ruscello è il Leté, che toglie a chi beve l’acqua, memoria dei peccati; più oltre cioè l’Eunoè, che  ravviva la memoria del bene compiuto.

Ad un tratto appare una splendida processione, con un carro trionfale (la Chiesa) con sopra Beatrice. Virgilio è scomparso. Beatrice rimprovera severamente Dante di essersi dimenticato di lei dopo la sua morte e di essersi traviato dietro false immagini di bene. Dante ammette le proprie colpe, viene purificato per opera di Matelda che lo immerge nel fiume.

Dopo aver assistito a simboliche trasformazioni del carro della Chiesa, Dante beve l’acqua dell’altro fiume e si sente puro, pronto a salire alle stelle. É il mercoledì dopo Pasqua, poco dopo mezzogiorno.

 Nella prima luce del pomeriggio Dante fissa attraverso gli occhi di Beatrice il sole e con lei si solleva al cielo. Si accorge dell’ascensione per la luce sempre più intensa e ascoltando l’armonia delle sfere celesti.

Tutte le cose, nell’ordine dell’universo, tendono al loro fine; l’anima tende a Dio dal quale proviene, così l’anima di Dante ormai é portata verso il Paradiso con una velocità non inferiore al fulmine. In questo modo Dante e Beatrice salgono verso l’Empireo, attraversano il cielo della Luna, di Mercurio, Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno, delle Stelle Fisse, del Primo Mobile. Incontro a loro scendono i beati mostrando il loro diverso grado di beatitudine, indicando a quali influssi divini furono soggetti nel mondo terreno. Via via la luce dei cieli e delle anime e di Beatrice aumentano di intensità; Dante le si rivolge spesso per avere spiegazioni e per risolvere i dubbi, le chiede chiarimenti sui beati, spiegazioni sui cieli e su questioni teologiche. Nel cielo di Marte incontra il suo trisavolo Cacciaguida, che gli rievoca Firenze, gli predice chiaramente l’esilio e lo incita a rivelare ciò che ha visto durante questo viaggio. Dal cielo delle Stelle Fisse Dante vede la terra e prima di salire nel Primo Mobile viene interrogato da San Pietro sulla fede, da San Giacomo sulla speranza e sulla carità da San Giovanni Evangelista, per dimostrare loro di possedere le tre virtù teologali. Superato l’esame può salire nel Primo Mobile ove ha la prima apparizione di Dio nella forma di un punto molto luminoso e poi nell’Empireo.

Beatrice lo lascia e San Bernardo prende il suo posto. Dante ammira la “Candida Rosa” e Beatrice é in uno dei seggi più alti. Nell’alto della Mistica Rosa trionfa la Vergine Maria tra 1000 angeli. San Bernardo  le si rivolge pregandola di dare a Dante le virtù necessarie per contemplare Dio. Tutti i beati le si rivolgono con la stessa richiesta. A Dante è concessa la visione suprema: la potestá di fissare la luce di Dio e lì scorge il mistero della Trinitá. 

A questo punto la visione e il poema hanno termine. È la mezzanotte del giovedì dopo Pasqua.

Tutto il viaggio è durato una settimana.

 

Insegnamenti morali, religiosi e politici della “Commedia”

Tutto il poema è un sospiro di speranza verso un’umanità migliore e nella rigenerazione della Chiesa di Cristo.

Con la Commedia Dante tende a formare il credente e il cittadino di una migliore umanità. Egli mostra, attraverso il suo viaggio nell’oltretomba, come qualsiasi peccatore possa salvarsi soccorso dalla misericordia divina (la Vergine), dalla grazia illuminante  (Lucia), comprende con la propria ragione (Virgilio) la falsa via e la bruttura del peccato. Se si pente inizia una via di penitenza e di purificazione. 

Tutta la Commedia risuona di richiami continui, di moniti, incitamenti morali religiosi e civili e politici per l’umanità che, smarrita nel disordine civile e nel peccato, conduce alla dannazione. 

Un forte impulso etico sta alla base del poema e ispira le parole severe del poeta. Egli, da esule dalla sua terra, si rifugia in un mondo ideale di giustizia e da lì guarda, ammonisce e giudica. 

L’Alighieri dedica gli anni della sua virilità  a scrivere questo poema della speranza in una migliore generazione futura, mantenendo sempre un tono profetico nella sua sensazione di attesa: attesa di una punizione divina che ristabilisca la giustizia nella Chiesa e nel mondo.

La finzione di questo viaggio permise a Dante, che ne sentiva la grande capacità, di assolvere ad un compito veramente titanico, quello di darci una rappresentazione integrale dell’umanità nei suoi aspetti più diversi e contrastanti: dall’essere che scende ad uno ad uno i gradini della scala del male, fino all’estremo, fino al completo oscuramento della coscienza, allo spirito che si tende e sublima verso il bene Supremo. Fra questi due termini opposti troviamo una serie innumerevole di personaggi ritratti nella loro individualità, che si incarna nelle molteplici contraddizioni di questa nostra natura instabile. Questa ricchezza e complessità di caratteri e di ambienti in cui le figure si muovono dà l’idea, anche se non completamente, della potenza dell’arte di Dante che si impone alla nostra ammirazione come maestro sommo di italianità, intesa nel suo senso più elevato, come colui che prima e più di tutti ha saputo cogliere e mettere in evidenza il carattere significativo della nostra civiltà  e della nostra vita spirituale.

La sua figura, in tal modo, perde quasi il suo preciso colorito storico e sale nella sfera del mito, divenendo il simbolo più alto del nostro genio nazionale.

 

Dante e la sua preghiera alla Madonna

 La preghiera di San Bernardo di Chiaravalle rivolta alla Vergine all’inizio del 33º canto del Paradiso è una delle preghiere più belle e intense di tutta la cristianità e mostra la viva fede di Dante verso colei che è considerata la donna più grande in assoluto.

Non è un caso che all’inizio del 32º canto nello spiegare a Dante la distribuzione dei beati nella rosa celeste, San Bernardo indica nel seggio più alto Maria e, sotto di lei, scendendo, di gradino in gradino, sei grandi donne dell’antico testamento: Eva, Rachele, Sara, Rebecca, Giuditta e Ruth.

Un elenco di icone femminili in gloria, espresse con un numero multiplo di tre nel momento della fine del suo incredibile viaggio, venerate e contemplate da Dante nella loro immagine salvifica.

Il concetto della sua superiorità rispetto all’uomo, ben evidenziata in questa e altre opere, trova conferma nel canto successivo, nella supplica a Maria per bocca dello stesso Santo che, rivolgendosi a lei in apertura con l’appellativo formale di “Vergine per esaltarne le caratteristiche dogmatiche e le virtù spirituali più elevate, la invoca altresì con il termine Donna e ne sottolinea  l’intervento reale e concreto verso gli uomini che le sono devoti: 

“Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
 sua disïanza vuol volare senz’ali”.

Nella visione cristiana, e Dante lo sa molto bene, é Lei la Donna  per eccellenza, per cui supera non solo tutte le donne, ma per la sua capacità di intercessione, anche tutti gli altri Santi.

Per questo il poeta immagina che San Bernardo si pieghi di fronte alla grandezza della Madonna e ne riconosca la superiorità, indirizzandole la sua altissima invocazione di lode, che culmina nel 36º canto del Paradiso con l’attribuzione alla Vergine Maria di tre caratteristiche fondamentali: misericordia, pietate e magnificenza. Virtù che appaiono il corrispettivo delle teologali: carità, fede e speranza. Il termine orazione, dal latino orazio, ha due significati: quello, adottato dalla Chiesa, di preghiera e quello civile di arringa. In questo contesto appare chiaro il riferimento al primo significato anche se l’orazione appare costruita secondo i principi dell’arte retorica, per cui il Santo (soprannominato Doctor mellifluus) era celebre in vita. In questo ambiente, tuttavia, il predicatore Bernardo non ha il compito di convincere molti uomini, bensì di propiziarsi Maria.  

È utile sottolineare che il tono stilistico della preghiera si mantiene sempre molto alto con frequente uso di un lessico latineggiante. Tutto ciò è dovuto all’importanza che Dante attribuisce alla preghiera, per cui considera importante adeguare lo stile all’altezza della destinataria. Nella preghiera, così come in tutto l’ultimo canto del Paradiso, non vi è traccia di sfoggio dottrinale.

Salta all’occhio che la preghiera con cui si conclude il Paradiso ha grandi analogie con l’Ave Maria tradizionale che, tra l’altro, Dante riferisce essere solito recitare “e manet e sera“. Anche questa è formata da due parti: una di lode e una seconda parte come umile esortazione. 

Questa  bellissima orazione é la preghiera personale di Bernardo ma, certamente, esce dalla penna  di Dante e, al pari dell’Ave Maria assume il ruolo di preghiera di tutti. Così come nell’Ave Maria, preghiera comune per i Cristiani, nella preghiera di Bernardo  reverenza e confidenza si fondono in un calore che esalta il consenso finale della Madonna, che viene manifestato solamente attraverso lo sguardo e sempre dagli occhi e dallo sguardo delle donne che traspare la pietà per Dante.

La pietà manifestata all’inizio della Commedia  da due donne, Lucia e Beatrice, era infinitamente superiore, tant’è che avevano indotto la Vergine Maria a muoversi per la salvezza di Dante e, in lui, per la salvezza di tutto il genere umano.

É così che  Dante ci avvia alla conclusione del suo viaggio e alla nostra comprensione dell’opera maestosa da lui compiuta.

 

 

Anche il nostro breve e semplice viaggio con Dante Alighieri termina qui e, anziché riportare solo i riferimenti, viene riportata per intero questa meravigliosa orazione, dedicata ai lettori di questo articolo che possano concludere la  lettura con un momento di meditazione interiore.

Grazie.

 

Vergine madre, figlia del tuo figlio,
Umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura 
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar senz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura é di bontate. 
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo  infin qui ha vedute
le vite spirituali ad una ad una, 
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con gli occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio vedere non arsi
più ch’i’fo per lo suo, tutti i miei preghi
ti porgo, e priego che non siano scarsi, 
perché tu ogni nube lì disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ‘l sommo piacere li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuolì, che conservi sani,
dopo tanto veder, gli affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi  ti chiudono le mani!”

(Paradiso, canto XXXIII, versi 1 – 39)

 


 

[1]dantista: studioso, filologo che si dedica in particolare a studi danteschi, cultore di studi danteschi ed esperto, un professionista.
dantofilo: chi coltiva lo studio e la lettura di Dante, un amatore un po’ dilettante, più o meno esperto, non professionista. Chi ne raccoglie edizioni, traduzioni senza seri propositi scientifici.

 

Dante: per saperne solo un po’ di più – di Loredana Bettonte

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