• PREMESSA

L’emergenza sanitaria, tutt’ora grave e complessa nella gestione, ha mutato per sempre il quadro politico internazionale, logorando anziché fortificando il senso di responsabilità – da tempo, comunque, già vacillante – dell’individuo verso il suo prossimo. Ora più che mai è necessario che movimenti, associazioni educative, culturali e realtà comunitarie in genere si interroghino, pure in modo radicale, sugli effetti psicosociali a lungo termine di un dramma simile e, più in generale, sulle dinamiche dominanti del gruppo. 

Dove ci condurrà, in breve, tutto questo? Ha ancora senso lottare per il superamento dei presenti ostacoli, indirizzando tecnica e ingegno ad un bisogno realmente comune? L’attuale volto del mondo atterrisce chi lo guarda prima ancora di levare la voce. Cieli di ferro, laghi di pece, polvere e sabbia avanzanti in silenzio e un Artico che si sgretola ora dopo ora… Tutto può accadere, tutto è stato previsto e non solo dal ‘Levitico’: separati da diverse culture e ampi intervalli generazionali padre Romano Guardini (Lettere dal lago di Como), Friedrich Georg Jünger (La perfezione della tecnica), Hossein Nasr (L’uomo e la natura), Jonathan Schell (Il destino della Terra), Denis de Rougemont (L’avvenire è nelle nostre mani) ci ammonirono ben prima di Greta Thunberg o dei ‘nostri’ non meno agguerriti Giuseppe Ayroldi e Luca Mercalli. 

Perché chi deteneva il potere non è intervenuto quando poteva farlo? Cosa possiamo fare noi, allora? È lecita la recente pressione mediatica sulla percezione della crisi ambientale in termini di responsabilità collettiva? Quale è oggi il confine che separa il bisogno autentico di riscoprire una coscienza ecologica – e perciò cambiare alla radice gli stessi modelli economici di crescita e sviluppo: sondare, cioè, le reali possibilità della cosiddetta green economy – da un bisogno viceversa inautentico, l’ennesima, nuova veste del “grande sogno industriale” di vincere ogni condizionatezza, il miraggio di incredibili soluzioni tecnologiche che, per citare lo storico medolese Ruzzenenti, consentano alla Natura “di offrirci pasti gratis” illimitatamente?[1]

Domande e argomenti ardui e vasti, non pochi innanzi tutto, che il futuro progetto di lettura filmica dell’ACIT (Die Deutsch-Italienische Kulturgesellschaft) spezzina, “Natürlich”, cercherà di affrontare nel corso del nuovo anno ma che, dal giugno 2020 al giugno 2021, già animarono, pur con le debite differenze, le riflessioni dei soci della fiorentina Accademia “G. Aliprandi – F. Rodríguez”, sempre nel segno del cineforum, allora svoltosi, per ovvie ragioni, nella forma “da remoto”.

L’esperimento si articolò in cinque video-conferenze, delle quali riporteremo sotto date, titoli, argomenti fondanti (esposti ora in modo più conciso ora più dettagliato) e piccole curiosità emerse col senno del poi.

  • «PER ANNI, TI ABBIAMO DETTO COSA BERE, MANGIARE, INDOSSARE»: “THE CIRCLE” (26/06/2020), “QUINTO POTERE” (10/10/2020)[2]

Sinossi e breve analisi: Howard Beale è un volto storico del TG notturno della UBS ma gli anni, si sa, passano per tutti e il paventato “cambio della guardia” gli viene comunicato da Max Schumacher, presidente della divisione notizie nonché amico di lunga data. La sera dopo, quella di congedo, Beale annuncia compassato il proposito di ammazzarsi in diretta. Il licenziamento sarebbe immediato ma Schumacher dissuade il direttivo, spiegando le fragili condizioni in cui versa Howard: gli viene, così, concessa una puntata riparatoria che si trasformerà in un gigionesco, maniacale sfogo generando, a sorpresa, gli indici d’ascolto più alti nella storia dell’emittente. Trasformatosi, suo malgrado, in novello Savonarola del piccolo schermo, Beale entrerà, da costa a costa, nelle case degli americani arrivando perfino ad esortarli a lasciare il divano, aprire le finestre e gridare a squarciagola: «Sono inc…ato nero e tutto questo non lo accetterò più»…

Egemonia dell’Economia sulla Politica, mutamenti linguistici, accelerazione spasmodica del Tempo; sarà facile comprendere perché la visione di Quinto potere è stata proposta per arricchire i percorsi interdisciplinari dell’Accademia. Girata nel ‘76, pur cavalcando a tratti lo stesso sensazionalismo che intendeva denunciare, la serrata pellicola di Sidney Lumet previde (ma non è certo un merito) la deriva della televisione commerciale, inscenando situazioni che a molti critici parvero sopra le righe ma che oggi, purtroppo, sono all’ordine del giorno. La realtà ha superato l’immaginazione. Per questo motivo, risuona come non mai necessario il monito di Quinto potere verso le insidie della comunicazione senza barriere, il pericolo che questa fagociti la vita reale restituendola irreparabilmente artefatta, priva del valore dell’elemento umano. Quattro fra i più grandi attori del cinema americano – William Holden, Peter Finch, Faye Dunaway, Robert Duvall prestano movenze e voce a questo potente, visionario grido d’allarme.

Il regista James Ponsoldt, con il suo non meno angosciante The circle, riaccende la discussione cominciata quarant’anni prima da Lumet. Al centro di questo lavoro vediamo non più la televisione bensì, in una felice commistione di dramma, giallo e persino un “conato” di distopia fantastica, le piattaforme social. Il personaggio principale, May Holland, è una promettente studiosa di tecnologia della comunicazione. Il suo talento non sfugge a “The circle”, compagnia specializzata nello sviluppo software, che la assume subito. Non passa molto tempo prima che il CdA dell’azienda coinvolga May in un progetto assai ambizioso ossia l’implementazione di uno speciale sistema unificato che colleghi ogni pagina-utente a livello mondiale: posta elettronica, profili, conti bancari e carte… tutto sarà definitivamente unito da un certo identificatore on-line universale, assegnato, in via pressoché obbligatoria, ai fruitori della Rete… 

Postilla: guidata da un passo del filosofo Jacques Ellul, inerente al concetto di “possibilità”[3] in un quadro di costante sviluppo tecnico, nonché da un’inattesa riflessione sul confine tra democrazia e demagogia (mutuata stavolta dall’antico opuscolo ‘Athenàion politéia’, da molti attribuito al tiranno Crizia[4]), la visione del film di Ponsoldt ha poi offerto l’occasione di riprendere il saggio breve La provvidenziale distruzione del racconto, pubblicato sul numero di “SPECIALinguaggi” del 04 gennaio 2018, ponendo l’enfasi sul seguente passaggio: “[…] all’interno di una società industriale sempre più meccanizzata, il primo a risentirne è proprio il linguaggio – incrinato da neologismi e semplificazioni varie – come denuncia l’avveniristico The circle […] i cui dialoghi sono, infatti, provocatoriamente ai limiti dell’inintelligibile, per non dire di The Square di Ruben Östlund che presenta la sindrome di Tourette e l’incapacità di pensare in maniera astratta come effetti estremi del problema. The tribe (2014) di Myroslav Slaboshpyts’ky ‘diserta’ perfino la Parola, preferendole la lingua dei segni: priva lo spettatore udente di rassicuranti sottotitoli e lo getta in pasto ad una ‘Nuova Preistoria’ dove regnano silenzio e movenze ferine che paiono affiorare dalla notte dei tempi”.

  • L’INFERNO DI DANTE NEL CINEMA. ALLA SCOPERTA DI “PARASITE” E “JOKER” (20/03/2021)

La video-conferenza più vivida e numerosamente frequentata della nostra cinquina, gravitante attorno alla tesi di laurea del giovane pubblicista e recensore Marco Tartaglione, il titolo della quale coincide con quello dell’incontro. Diverse le suggestioni, compendiabili nell’intervento introduttivo dello stesso Tartaglione, principale relatore[5]:

«Nel corso del tempo le arti si sono spesso incrociate tra loro, dando vita a dei veri e propri capolavori immortali. Ad esempio, quando il volto di Marylin Monroe, regina assoluta di Hollywood, è stata catturato dal pennello di Andy Warhol, nel suo celebre Dittico di Marylin del 1962. Oppure quando la delicata danza di Jurij Grigorovič è stata accompagnata dalle sublimi note del compositore russo Čajkovskij nel balletto del Lago dei Cigni al teatro Bolshoi di Mosca. O ancora quando nel 2004 Francesco Guccini ha cantato Odysseus, riprendendo le peripezie affrontate dal multiforme eroe creato dalla penna di Omero. 

Allo stesso modo, anche il cinema, nel susseguirsi della sua storia, ha partorito una interminabile serie di film, che al loro interno hanno mostrato tantissimi riferimenti alla letteratura, alla pittura o alla musica. Ed anche alla “Divina Commedia” di Dante Alighieri. Come ha infatti giustamente notato il critico e storico cinematografico Gian Piero Brunetta: “all’interno di tutta la galassia narrativa del cinema Dante ha disseminato i suoi sassolini come Pollicino”, essendo la sua figura, e soprattutto la sua opera, ancora oggi fonte di ispirazione per moltissimi registi e sceneggiatori. Basti pensare ai recentissimi Parasite di Bong Joon-ho e Joker di Todd Phillips, in cui è possibile rintracciare alcuni richiami all’Inferno dantesco»

Samuele Montaresi, filmmaker, studioso di cinema e appassionato del pensiero tradizionale è intervenuto brevemente, menzionando gli Studi su Dante di Rudolf Steiner nonché il musicista Graeme Revell: sei brani (The Inferno, Canto XXX, Mars Red Planet, Dante’s Eternal Flame, Alone, The Fifth Heaven) della partitura da lui composta per il film Pianeta Rosso (2000) rievocano, come si può già intuire, le tre immortali cantiche. L’elaborato di Marco Tartaglione ha, infine, fornito le premesse e principali suggestioni della conferenza, stavolta dal vivo, “Dante nell’immaginario cinematografico. Dall’Era del Muto a ‘Parasite’ di Bong Joon-ho” tenuta dallo scrivente, Giordano Giannini, in data 22 agosto ‘21, nell’ambito del ciclo “La modernità di Dante a 700 anni dalla morte del poeta[6]” ideato dall’Associazione B-52 della Spezia (responsabili: Katia La Galante, Fabio Nardini) con il patrocinio ed il supporto del Comune di Sarzana.

  • «RESTARE ALL’INFERNO O APRIRCI LA STRADA LOTTANDO VERSO LA LUCE». COLLETTIVITÀ, VOLONTÀ DI VITA E REAZIONE ALLA SCIAGURA SUL GRANDE SCHERMO (08/05/2021)[7]

La discussione verteva, nel caso in esame, su due intense pellicole: nel classico Il volo della fenice (’65) di Robert Aldrich un piccolo aereo bimotore, che trasporta i dipendenti di una compagnia petrolifera, precipita fra le dune del Sahara: i superstiti cercheranno di ricostruirlo per salvarsi; viceversa nel meno noto Il giorno prima (Control) (’87) di Giuliano Montaldo un esperimento di convivenza in un bunker volgerà, a mano a mano, in tragedia, portando lo spettatore a riflettere sulla sfrenata corsa agli armamenti nucleari da parte dei due emisferi, Orientale e Occidentale. Fra i partecipanti, gradito ospite, Catello Masullo, giornalista, membro del Sindacato Critici Cinematografici Italiani. Per l’occasione, le riflessioni di Piero Angela, autore del soggetto e co-sceneggiatore del film di Montaldo, sono state poste al centro del dibattito[8]:

[…]

G.G.: In molte delle puntate della serie “QUARK” veniva spesso sottolineato come nel mondo animale sia fondamentale il problema della conservazione della specie, per cui i comportamenti che noi giudicheremo crudeli risultano invece necessari in vista dello scopo suddetto. Nel film è possibile leggere tra le righe la stessa curiosità scientifica dalla quale sono mossi i suoi documentari? Non si tratta in fondo anche qui di un team di scienziati che osserva un gruppo di persone alle prese con il problema della sopravvivenza, pur con tutti i dilemmi morali che sorgono quando è l’uomo a far da “cavia”?

P.A.: Certamente. Come dicevo all’inizio, era un esperimento “virtuale”, una trappola per osservare il comportamento umano. Naturalmente eravamo nella finzione: per capire i possibili comportamenti reali davanti a un tale problema di sopravvivenza, pensai di consultare uno psicologo sociale che aveva realizzato esperimenti di condizionamento con soggetti reali.

G.G.: Dott. Angela, sappiamo che lei si recò a San Francisco per mostrare il copione a Philip Zimbardo, docente di psicologia nonché inventore di uno dei più famosi esperimenti realizzati nell’ambito della psicologia sociale: il test carcerario nei sotterranei della Stanford University. Quante delle conclusioni dedotte da Zimbardo durante le proprie ricerche sono presenti nel tratteggio dei personaggi del film? Ad esempio, mi ha molto colpito la sequenza della “votazione” (ovvero se si dovrà aprire oppure no la porta per far entrare la folla in preda al panico): il personaggio di Swanson (Erland Josephson) propone una scelta democratica finché è sicuro di avere dalla sua la maggioranza ma, appena si vede sconfitto, non esita ad impugnare le armi per imporsi! Altrettanto memorabile è il fatto che una parte del gruppo decida moralmente di aprire la porta del bunker per quanto, dal punto di vista logico, la decisione opposta sarebbe altrettanto comprensibile, anche se spietata… In tutto ciò, credo si possa intravedere un messaggio politico molto forte! Quali opinioni espresse il prof. Zimbardo non appena vide il risultato finale?

P.A.: Conoscevo da tempo il professor Zimbardo (che fu poi anche Presidente degli psicologi americani), insieme avevamo realizzato alcuni programmi TV. Egli trovò il copione molto ben fatto e fu entusiasta nel collaborare. Mettemmo a punto alcuni aspetti che derivavano dalla sua esperienza, e disse che sarebbe stato un ottimo film per dibattiti universitari (cosa che poi effettivamente avvenne).

Naturalmente con Montaldo, una persona davvero eccezionale, fummo d’accordo nel dare alla narrazione questa linea: era uno scontro, a guardar bene, tra razionalità e sentimento, tra realismo e etica, ma anche egoismo e altruismo. In proposito avevo incontrato a quel tempo degli esperti, negli Stati Uniti, di un’Agenzia governativa che si occupava di gestione di crisi e di emergenze. Mi raccontarono un caso emblematico, che si erano trovati a dover affrontare qualche anno prima. Nelle regioni del Sahel (a sud del Sahara) si era verificata una terribile siccità, che aveva creato una situazione drammatica nelle popolazioni locali: niente raccolti, bestiame che moriva, mancanza d’acqua, e soprattutto carestie tra la gente. Molte centinaia di migliaia di persone erano a rischio di morire, se non arrivavano subito dei soccorsi.

Elaborarono rapidamente dei piani di intervento. Il più efficace, quello che avrebbe salvato più vite, consisteva in questo: poiché la regione colpita era molto vasta, sarebbe stato impossibile raggiungere contemporaneamente tutti i villaggi sparsi in tempo utile, poiché questo avrebbe richiesto una disponibilità di mezzi, di aiuti e di personale che non esisteva; era quindi più razionale concentrarsi sulle zone più raggiungibili e più popolate. Calcolarono che in questo modo si sarebbero salvate circa il 30% di vite in più. Questo però voleva dire decidere deliberatamente di escludere dagli aiuti le altre zone, e condannarle quindi a morte sicura.

Un piano del genere non era però presentabile. Decisero quindi di procedere nel modo meno efficace, ma più accettabile: inviare gli aiuti sul posto e salvare più gente possibile, senza escludere nessuno. É un po’ quello che farebbe un padre se i suoi 3 figli stessero annegando: non deciderebbe di salvarne uno solo, lasciando annegare deliberatamente gli altri … La scelta nel rifugio era un po’ quella. Quando a bussare alla porta erano pochi si poteva aprire, ma se erano oltre un centinaio il rifugio non avrebbe potuto fornire cibo e spazio per tutti. Questa scelta, però metteva in crisi certi valori e principi morali, ben radicati. In alcuni più che in altri. Secondo me questo era un aspetto sul quale lo spettatore (e la critica) avrebbero avuto occasione di riflettere e di dibattere. Voi avreste aperto?

Ci sono momenti nella vita in cui ci si può trovare di fronte a scelte di questo tipo. Nell’ultima guerra, per esempio, durante il periodo della Resistenza, ci furono persone che rischiarono la vita per fare scelte difficili. Anche per salvare persone in pericolo. Altri no. Questo vale, del resto, per le piccole cose quotidiane. Si sceglie, a volte, di stare dalla parte soccombente, per questioni di principio. Altri preferiscono invece badare più a sé stessi.

G.G.: Ad un certo punto si accenna allo scenario apocalittico in cui si troverebbero plausibilmente a vivere i superstiti di una guerra atomica e si avanza il dubbio se valga la pena di vivere in un contesto simile. Lei cosa ne pensa? Condivide l’affermazione del personaggio di Mike (Ben Gazzara): “Non c’è rifugio dalla bomba. Neanche all’interno del rifugio”?

P.A.: Questa battuta non è mia, ma di Brian Moore. Non significa che i rifugi nucleari non siano utili (credo che ognuno di noi vorrebbe averne uno, se fosse lanciata una bomba atomica): significa naturalmente che possono esplodere all’interno altri tipi di conflitti, ma soprattutto che il rifugio non può salvare quello che la bomba distrugge: le vite, i beni, e anche gli individui, al loro interno.

G.G.: È pertinente affermare che quell’esperienza estrema abbia fatto maturare in alcuni membri del gruppo la consapevolezza dell’ambivalenza “prometeica” della scienza, in quanto può essere finalizzata a migliorare la qualità della vita oppure volgersi contro di essa fino a distruggerla?

P.A.: Questo è un problema di cui si discute da molto tempo. Quali che siano le posizioni individuali, c’è una realtà non aggirabile: lo sviluppo tecnologico mette a disposizione strumenti straordinari per vivere meglio e anche per uccidere meglio. É un meccanismo che nessuno riuscirà a fermare. Quello che si può tentare di fare è orientarlo nel migliore dei modi. E questo è un problema politico, economico e culturale, non scientifico.

[…]

  • «IL POTERE HA SEMPRE ACCAREZZATO GLI ARTISTI». CONVERSAZIONE INTORNO A “IL CATTIVO POETA” DI GIANLUCA JODICE (14/06/2021)

Il quinto e (finora) ultimo appuntamento ha richiamato l’attenzione su Il cattivo poeta, discusso esordio di Gianluca Jodice, con un espressivo Sergio Castellitto nei panni di Gabriele D’Annunzio. Relatori furono Ludovica Ottaviani[9], Diego Battistini: studiosi di cinema, articolisti presso “Moviestruckers.it”. Moderarono Carlo Rodríguez, presidente dell’Accademia, e Stefano Terracina, anch’egli studioso della settima arte nonché direttore del sunnominato portale di cultura e spettacolo on-line. A seguire, il testo-guida del mio intervento, a mo’ di riepilogo, con qualche piccola modifica[10]:

Quello che si vuol scrivere col cuore si deve scrivere: perciò, senza tentennamenti, insieme a L’attesa di Messina, Il mondo magico di Schettino, Rosso Istria di Bruno, il pudico Sole di Sironi e La vacanza di Iannaccone, indichiamo Il cattivo poeta di Gianluca Jodice […] fra le opere “giovani” più interessanti e promettenti fra quelle viste nel cinema tricolore dell’ultimo quinquennio.

Liberamente tratta da memorie, telegrammi e incartamenti del prefetto Giovanni Rizzo, in seguito compendiati nelle opere Diario di lotte e di poesia (’41) e D’Annunzio e Mussolini (’60), questa suggestiva pellicola racconta di come il bresciano Giovanni Comini (Francesco Patanè), giovanissimo, entusiasta commissario federale, nel luglio del ‘35, per ordine del segretario del PNF Starace (Fausto Russo Alesi), si stanziò al Vittoriale al fine di proteggere l’acciaccato e (in apparenza) vaneggiante Gabriele D’Annunzio (Sergio Castellitto, torvo e al contempo d’incredibile vulnerabilità) da eventuali “disturbatori”: futile pretesto, dacché il nostro doveva, in realtà, spiare (come già stava facendo il Rizzo) il grande artista, riferendo al Duce ogni suo atto o confidenza, anche banali.[11]

Appena un biennio, infatti, e il partito (disciolto Movimento dei Fasci italiani) già considerava l’afflato estetico e la condotta di D’Annunzio «corruttori della virilità fascista», emissari «degli ultimi avanzi e degenerazioni del romanticismo», sebbene furono proprio essi, in origine, gli ispiratori di tale virilità. L’eroismo dello scrittore: troppo individualistico, personale e troppo poco collettivo e «romano». Il superomismo e l’antiborghesismo: troppo esasperati, indisciplinati. L’ambizione di «riunire in un solo fascio tutte le forze sindacali italiane» nel nome dell’apartiticità, del riconoscimento del principio nazionale: inalterata dall’esperienza del governo di Fiume e forse, in un certo senso, ancor più accesa. Fatto altresì allarmante (e ciò rese indispensabile e assai stringente sia le funzioni del Comini che del succitato Rizzo, al punto che quest’ultimo si guadagnò dal poeta il nomignolo di «occhiuto carceriere»), alla vigilia della guerra d’Etiopia, D’Annunzio esprimerà il proprio dissenso sull’avventura coloniale africana, giungendo persino a dissuadere i suoi fidi legionari dall’arruolarsi come combattenti volontari. Dulcis in fundo, una ghiotta «pasquinata», scritta tra l’agosto del ‘33 e il giugno del ’34, circolata fra diversi gerarchi fascisti e ufficiali nazisti ma pubblicata solo nel dopoguerra, nella quale il Vate racchiuse tutto il disprezzo nei confronti di Hitler, apostrofandolo come «un ridicolo Nibelungo truccato da Charlot».

«Il Vate è come un dente infermo: lo si copre d’oro o lo si estirpa» così sogghigna Mussolini, per bocca di Starace, come se le provocazioni del ras Farinacci, sulle colonne di ‘Cremona Nuova’, non furono già abbastanza umilianti per il Vate («È ora che l’Italia conosca il pensiero di D’Annunzio. Poeta: parlate chiaro […] O con noi, o contro di noi!»). E quell’oro, come si nota nel film, giunge puntuale: sotto forma di nomina a presidente dell’Accademia d’Italia, titolo di frequente evitato da D’Annunzio ma che adesso, greve nel corpo, incapace di decisi rifiuti, prigioniero dei fantasmi, della cocaina e di occasionali concubine in mantelline punteggiate di lapislazzuli, somiglianti a disegni di Manuel Orazi, accetta vinto. Senza interesse alcuno.

Aneddoti, nomi, fitti riferimenti che scoraggerebbero qualsiasi alunno di liceo… eppure il regista, qui come detto all’opera prima, li padroneggia con trasporto e curiosità rari, partendo da una poco studiata pagina di Storia per addentrarsi poi, capitolo dopo capitolo, col piglio di un giallo, nell’abisso che si stende fra Arte ed Esistenza, Forma e Sostanza, Azzardo Utopico e Compromesso Politico. Temi, forse, logori ma, nel caso in esame, sviluppati con ingegno e un’apprezzabile tensione narrativa interna. A ben vedere, e a rischio di irritare, Il cattivo poeta altro non è che una “fiaba per adulti”. Mesta, indulgente. Anche troppo. Come lo fu, ventisei anni prima, Io e il Re di Gaudino che inscenò la sosta di Vittorio Emanuele III e dello Stato Maggiore presso il Castello dei Duchi di Bovino (9 settembre ’43) attraverso gli occhi smarriti di una dodicenne, sventuratamente convinta, com’è giusto a quell’età, che il Re avesse conservato l’antico potere di sanare i moribondi e far nevicare d’agosto. Ugualmente, nella pellicola di Gianluca Jodice seguiamo un fanciullo “cresciuto” (il commissario Comini, appunto), incantato da un poeta che, in anni troppo rapidamente consumatisi, fu egli stesso, a suo modo, un “sovrano” dal quale, ora, molti – dalle devote amanti Luisa (Elena Bucci) e Amélie (Clotilde Courau), all’architetto Maroni (Tommaso Ragno) fino ai grinzosi reduci di lotte passate  – attendono un’ultima magia… ma che non arriverà poiché ogni potere gli è stato sottratto da un altro, ingiusto “sovrano”: il “cattivo poeta” del titolo non allude, infatti, al Vate bensì al Duce il quale, oltretutto, si rivelerà pure “cattivo attore”.

Il regista (anche autore della sceneggiatura) sceglie, quindi, di sposare l’inesperto punto di vista del fanciullo in divisa nera e, come lui, ben volentieri si lascia “sedurre” dal Re-Poeta, dai suoi ragionamenti («Il linguaggio sottrae alla realtà la sua essenza, come il compiersi del politico sottrae essenza al suo ideale lasciandone, per contro, una macabra imitazione») e rimpianti per quei sedici, “progressisti” mesi fiumani, dove «la battaglia non lasciò macchie di sangue e le donne ebbero diritto al voto». Una seduzione che trascina lo spettatore medesimo privandolo, in più di un passaggio, del necessario distacco critico e razionale: è il maggior limite del Il cattivo poeta, unito a una metaforizzazione talvolta pesante (si guardino le ricorrenti, ossessive simmetrie o sovrapposizioni fra volti e manufatti, oggetti scenici e posture degli interpreti).

Si fa strada, in sintesi, il timore di un Gabriele D’Annunzio “truccato”, addomesticato per il pubblico del nuovo millennio sempre più bisognoso di certezze e immagini confortanti, che tradisce forse il personaggio storico ma lo fa solo (e il fascino del film consiste esattamente in questo) per mettere sullo schermo… Erich von Stroheim (1885-1957), il vero, segreto modello dell’eclettico Castellitto e dell’esordiente cineasta campano. Modellato sulla caratteristica “maschera” del divo austriaco (in particolare, il capitano von Rauffenstein de La grande illusione), il Vate di Jodice incarna il mito e l’utopia della conservazione: è un balzano ma accorto condottiero, che ha dietro di sé il crollo di un impero, un impero e un uniforme che assicurarono all’Europa equilibrio, serenità; rievocati certo non per rimpiangere il militarismo o il culto della forza bruta, piuttosto un universo di principii, di regole, di illusioni vissute come certezze. Ed è, in fondo, la ragione per cui alcune penne europee del «crepuscolo di un’era» – come l’austriaco Stefan Zweig che ispirò Grand Budapest Hotel (2014) – vengono oggigiorno largamente e appassionatamente riscoperte.

Decisivi per la riuscita de Il cattivo poeta sono, infine, i contributi di Daniele Ciprì (Il primo re) alla fotografia, Tonino Zera (Miracolo a Sant’Anna) alle scene e Andrea Cavalletto (Torneranno i prati) ai costumi.

Postilla: il dibattito si arricchì ulteriormente con la lettura di alcuni passi dal libricino di Valentina Valentini Un fanciullo delicato e forte. Il cinema di Gabriele D’Annunzio (Biblioteca del Vascello, ’95). La prof.ssa Lorenza Boninu, ricercatrice in Storia e Sociologia della Modernità presso l’Università di Pisa, ci ha reso partecipi di alcune sue curiose esperienze con gli allievi circa la spiegazione dell’opera di D’Annunzio e il suo contesto. Forte della tesi di dottorato Il breve viaggio attraverso l’impero: il cinema coloniale italiano, 1936-‘39 (Firenze, 2017), Battistini ha quindi ricordato la figura di Dino Grandi (1895-1988) e come il Fascismo fu fondamentalmente la sintesi di elementi eterogenei e contraddittori. Altre letture integrative emerse durante il confronto: una raccolta di memorie di Grandi, redatta da Gianfranco Bianchi, intitolata L’evitabile «Asse» (Jaca Book, ‘84) e il corposo studio La sinistra fascista (Il Mulino, 2008) di Giuseppe Parlato.

  • CONCLUSIONI. PROSPETTIVE DI SVILUPPO PER UNA BRANCA “AUDIOVISIVI” DELL’ACCADEMIA

L’esperienza di lettura filmica a distanza è stata senz’altro utile e salutare, quanto meno ha offerto la possibilità di rivederci in ore buie e nel segno del piacere della visione. Ci sono, tuttavia, dei nudi dati dai quali bisogna partire qualora l’esperimento proseguisse e, finalmente, in presenza, forma ambita, ancora nuova per il gruppo fiorentino. Esperto in ricerche socio-economiche, Zaccone Teodosi riporta, in sintesi[12]: “[…] Secondo i dati Cinetel, dal 01 al 31 agosto 2021, si sono incassati poco meno di 16 milioni di euro, un dato corrispondente a – 62% rispetto all’omologo periodo del 2019, ed a – 44% rispetto al 2018 (non ha senso prendere in considerazione il 2020, ovviamente). Gli spettatori sono stati soltanto 2,4 milioni: – 62% rispetto al 2019, – 47% sul 2018.”

Ancora, il critico Claudio Bisoni si rifà, riteniamo con notevole coraggio, alle teorie di Christian Metz sulla “solitudine” dello spettatore cinematografico[13]: quello che avviene in sala non è il crearsi di una collettività provvisoria bensì un’addizione di individui, somigliante più che altro all’insieme sparso di lettori di un romanzo. Il cinema sarebbe, dunque, una finta macchina sociale e socializzante proprio perché, parafrasando sempre Metz, non è la massa: è l’individualismo fatto massa. Schematizzando molto (ingenerosamente ma varrà, s’intende, come provocazione), quella che molti appassionati e “difensori” considerano un’eccessiva contemporaneizzazione del cinema (smartphones, piattaforme digitali, applicazione varie per streaming), che lo priverebbe delle sue caratteristiche fondamentali[14], è in realtà una mutazione inevitabile e forse preconizzata fin dalle origini stesse del mezzo (per bocca dei suoi stessi inventori, i fratelli Lumière, come anche, con sfumature diverse, di Gozzano, del già citato F.G. Jünger o Pirandello[15]) alla quale non è escluso che ci si debba… arrendere.

Che fare? Ricominciare tutto daccapo. Non pochi segnali sarebbero indicativi, come scrivo da alcuni anni, di un desiderio latente da parte del pubblico, spartibile per fasce d’età e gradi di ricezione differenti, di ristabilire un’affinità, diciamo, “primordiale” con il cinematografo, quasi si volesse rievocare, ricreare un moto di fanciullesco stupore. L’Accademia “G. Aliprandi – F. Rodríguez” dovrà far leva esattamente su questo. Le scuole saranno il principale terreno di gioco. Organizzare, dunque, seminari di educazione all’immagine. Intensificare le relazioni di micro-mecenatismo prendendo spunto da modelli d’azione in ambito museale[16]. Avvalersi di esperti e appassionati che possano non soltanto contribuire alla rivista ma siano disponibili a tenere degli approfondimenti sui generi della settima arte, dei laboratori di applicazioni pratiche (sceneggiatura, montaggio, scrittura critica) e, non ultimi per rilevanza, dei cicli di proiezioni. I testi sono e saranno i films. Il tutto, ideando di pari passo, a fianco di altri enti culturali, iniziative che si depositino nelle abitudini della cittadinanza come familiari, graditi ritrovi. La branca “audiovisivi” dell’Accademia come fortilizio di studio nonché ripensamento profondo, a più livelli dell’atto di guardare e delle sue implicazioni sociali? E perché no? Il tempo fugge e abbiamo molto lavoro da fare.


Note

[1]   Si consultino a riguardo gli studi di Paul Driessen (Eco-imperialismo, Liberilibri, ‘03) e Elisa Flavia Cicchiello (Il green marketing e la trappola del greenwashing, tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, 2017-‘18).

[2]   Fonti che consigliammo per la preparazione ai due incontri o, in alternativa, per un successivo approfondimento personale: il bell’articolo di Roberta Vitale, Linguaggio pubblicitario e made-in-Italy nel mondo in Rodríguez C., (a cura di), «SPECIALinguaggi», riv. on-line (semestr.), N. 6: “I giovani e i linguaggi”, Accademia ‘Aliprandi & Rodríguez’, Firenze 06/’20. In aggiunta: Coccia E., Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale (Il Mulino, ‘14); Menduni E., La televisione (Il Mulino, ‘04); Ortoleva P., Il secolo dei media (Il Saggiatore, ’09); McLuhan M., Gli strumenti del comunicare (Il Saggiatore, ’08); Klein N., No Logo (Baldini Castoldi Dalai, ‘07); Baroni P., La guerra psicologica (Ciarrapico, ’86).

[3]    Cfr. Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano ‘09; Parte Prima, II, pgg. 58, 59.

[4]   Cfr. Canfora L., (a cura di), La democrazia come violenza, Sellerio, Palermo ‘98.

[5]   Tartaglione M., L’Inferno di Dante nel cinema: alla scoperta di “Parasite” e “Joker” in Rodríguez C., (a cura di), «SPECIALinguaggi», riv. on-line (semestr.), N. 8: “Dante e i linguaggi”, Accademia ‘Aliprandi & Rodríguez’, Firenze 06/’22.

[6]   Si guardi, a proposito, il seguente indirizzo: https://www.lanazione.it/la-spezia/cronaca/nella-poesia-di-dante-luomo-contemporaneo-1.6709345; ultima consultazione: 11 dicembre 2021.

[7]   Fonti che consigliammo per la preparazione o, in alternativa, per un successivo approfondimento personale: Anders G., L’uomo è antiquato. 2 voll. (Bollati Boringhieri, ‘07); D’Eramo L., Deviazione (Feltrinelli, ‘17); De Rougemont D., L’avvenire è nelle nostre mani (Ed. Paoline, ‘74); Marcel G., L’Uomo contro l’Umano (G. Volpe, ‘63); Schell J., Il destino della terra (Mondadori, ‘82); Zimbardo P.G., L’effetto Lucifero (R. Cortina, ‘07).

[8]   Lo scambio che segue proviene dall’intervista che Piero Angela mi rilasciò nel luglio del 2014. Cfr. “Il giorno prima”. Intervista a Piero Angela (‘LaSpeziaOggi.it’, 29/07/’14). Rimando inoltre al mio secondo articolo “Il giorno prima” di Giuliano Montaldo. Pensieri intorno a un film oscurato e al clima di un’epoca mai finita (‘LaSpeziaOggi.it’, 01/08/’14).

[9]   Divisa con versatilità tra celluloide, teatro e narrativa, la giovane scrittrice illumina la trasmissione ‘Cinematografo’ (Rai Uno) e, per l’occasione, ha invitato a riflettere sulla recente ripresa del cinema italiano di genere. Cfr. Ottaviani L., Il cattivo poeta, Sergio Castellitto: “D’Annunzio, un uomo immortalato al crepuscolo della vita, («Moviestruckers.it», 19/05/2021).

[10]   Cfr. Giannini G., Il cattivo poeta’, recensione del film con Sergio CastellittoMoviestruckers.it», 20/05/2021).

[11]   Per il lettore che, incuriosito dalla pellicola, volesse andare a fondo sull’argomento, consigliamo cinque testi: il fondamentale D’Annunzio politico: 1918-1938 (Laterza, ‘78) di Renzo De Felice e i più recenti La censura occulta e palese nei confronti di D’Annunzio (Carabba, 2011) di Vito Salierno, D’Annunzio e la piovra fascista (Ed. Lombarda, 2020) di Roberto Festorazzi, Il vento del Carnaro in galleria (Elison, 2020) di Silvia Luscia, «Questo non è un racconto» (Adelphi, 2021) di Leonardo Sciascia.

[12]   Zaccone Teodosi A., Cinema, il box-office cola a picco nel 2021 (-50% rispetto al 2019 e 2018), art., ‘Key4biz.it’, 08/09/’21. Ultima consultazione: 25/12/’21.

[13]   Bisoni C., Cine-Tamagochi in Viganò A., Gruppo Ligure Critici Cinematografici (SNCCI), (a cura di), Assalto al cinema. Storia dei cineclub in Liguria, Microart’s, GE 2010, pgg. 23, 24.

[14]   Sull’illusione di affrancamento da ogni prassi, limite o vincolo materiali (Corpo, Soggettività, Spazio, Tempo) che la “prima ondata” dell’epidemia (21 febbraio – 9 giugno) e la quarantena a casa ci hanno lasciato e come tale illusione si rifletta sulla fruizione cinematografica, rimando al mio saggio breve L’ultima stagione “reale”? (2019-‘20): 2 parti in Rodríguez C., (a cura di), «SPECIALinguaggi», riv. on-line (semestr.), N.N. 6-7: “Pandemia e linguaggi” e “I giovani e i linguaggi”, Accademia ‘Aliprandi & Rodríguez’, Firenze 06/’20 – 12/’20. Consiglio, inoltre, la bella tesi di laurea di Cristian Viteritti Lo spettatore cinematografico: teoria e evoluzione nell’era di Netflix e dello ‘streaming’ digitale (Torino, a.a. 2017-‘18) e lo studio Morte e rinascita della Finzione di Edoardo Ferrini (self-pub.; 2021).

[15]   Si legga, per saperne di più, il saggio di Liborio Termine Il buio elettrico. Il cinema e la sfida del Novecento, ‘Le Mani’, Recco (GE) 2008.

[16]   Cfr. D’Amato F., Micro-mecenatismo 2.0, ovvero il crowdfunding per le istituzioni museali, in Ceci F., Pisi C., (a cura di), Musei Accoglienti. Una nuova cultura gestionale per i piccoli musei, Atti del V Convegno Nazionale dei Piccoli Musei (Viterbo 26-27 Settembre 2014), Archeoares, Viterbo, pgg. 60-65.

La Decima Musa sul Sofà. Note, pensieri (e molesti scotomi) dal Cineforum “a distanza” – di Giordano Giannini

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