Quando ero al liceo, non ero un grande appassionato di Storia. Forse, complici l’eccessivo affetto per l’escapismo verso mondi immaginari e l’incapacità di un dimenticabilissimo Professore, non ero uno di quei ragazzi che si lasciavano facilmente affascinare da periodi storici lontani durante il freddo studio libresco dei fatti passati ad uso interrogazioni, piuttosto, mi capitava più facilmente di rituffarmici con entusiasmo durante le lezioni di Letteratura, fosse questa Latina, Greca o Italiana. Ero un “nerd” a modo mio, quindi – come l’accezione originaria del termine prevede – navigavo ossessivamente in altri campi di interesse d’elezione che mi appartenevano di più, la Storia non era veramente tra questi.

Lo era invece per il mio amico Marco, il che quindi lo rendeva più ferrato sull’argomento e più affidabile nei nostri discorsi quando si arrivava su tangenti nozionistiche di questo ambito. Fu lui un giorno a colpirmi, quando mi disse: “Ma ti immagini di essere un soldato, durante l’assedio di Stalingrado? Tu sei in una città enorme, dove i morti sono come un tappeto in ogni strada, in ogni piazza – sono morte più di un milione e mezzo di persone, lo sai? A Spezia ce ne saranno sessantamila – immaginati di essere un soldato davanti a centinaia di altri, in un palazzone. Ti dicono: ‘Adesso voi uscite e riconquistate quella piazza’. Aprono le porte e tu sei morto. Tu sai che esci, e sei morto”.

Mi rimase per sempre impresso.

Mentre ero a scuola, nel 2001, uscì “Il Nemico alle Porte” (“Enemy at the Gates”) di Jean-Jacques Annaud, che oltre ad esserne regista, ne fu anche produttore insieme a John D. Schofield e sceneggiatore con Alain Godard; io non lo vidi al cinema, lo recuperai pochi anni dopo, ne rimasi folgorato e quelle parole del mio amico mi tornarono subito alla mente, nei primissimi minuti di visione.

Il film si apre con una scena pacifica, quasi accomodante seppur tesa: una musica lenta, triste ma piena di presagi di sventura ci cala in un estremo candore, quello dei ricordi e della neve; l’occhio giallo di un animale ansante si affaccia da un cespuglio, la canna di un fucile sporge tra dei rami scheletriti fradici ed appesantiti dalla coltre nevosa. Un anziano è nascosto col piccolo nipote tra le rocce, in mezzo ai freddissimi nevai degli Urali, un cavallo legato scalcia in un paesaggio lunare, vuotissimo, cerca di ribellarsi spaventato, mentre il lupo gli si avvicina. Il ragazzino brandisce quel fucile e quella che scopriremo essere sua voce da adulto, bisbigliante recita, come fosse una preghiera, un mantra: “Io sono una pietra. Non mi muovo. Molto lentamente, metto in bocca della neve, così lui non vedrà il mio respiro. Prendo tempo. Lascio che mi venga più vicino, ho soltanto una pallottola. Miro all’occhio. Con delicatezza, il mio dito preme sul grilletto. Io non tremo”, la voce che era solo nella mente si tramuta in un’altra, quella aspra e concreta del nonno che continua “Io non ho paura: sono un ragazzo grande adesso”. Senza saperlo, scopriamo che stiamo assistendo ad una scena profondamente umana, un rito di passaggio, un momento nel passato fatto di ricordo, tradizione, e forse trauma. La violenza attende di scatenarsi, nello scontro-incontro Uomo-Natura, nella fatalistica sicurezza che nella natura umana come nella Natura con la “N” maiuscola, in entrambi i casi, la violenza non può che fare parte di un Tutto inestricabile. Nella bellezza degli spazi incontaminati, anche l’Uomo, come tutte le altre bestie, con tutta la sua brutalità, ha comunque uno spazio ed una ragion d’essere, impossibile da condannare del tutto e da pensare avulso dall’ambiente di cui è propaggine ed espressione.

Nella caccia, nella sopravvivenza, siano esse dell’essere umano come del lupo, la morte avrà sempre un ruolo, come forse la prima ed ultima cosa veramente naturale che esista. Persino quando attivamente procurata dalla lucida intenzione.

Un colpo viene esploso dal fucile e dopo una transizione ci ritroviamo altrove. Su un treno, Vasilij Zajcev (il fascinoso ed efficace Jude Law) attende nel silenzio di arrivare da qualche parte, in mezzo a tanti altri volti di soldati che, come lui, altro non hanno se non le proprie divise e la malinconia di allontanarsi dalle loro case, da luoghi pacifici ed amati. Scorgiamo con lui alcuni civili, tra cui Tania Chernova (una più giovane ma sempre convincente Rachel Weisz) che legge un libro, con lo sguardo preoccupato. Non si parlano, non trovano un contatto e presto saranno divisi, ancor prima di conoscersi: poco dopo i civili vengono fatti scendere dal treno, altri soldati salgono, ed il convoglio viene requisito e collegato ad altre carrozze, delle voci aggressive urlano che “questo è un convoglio militare che va a Stalingrado, nessuno salga a bordo tranne i nostri valorosi soldati dell’Armata Rossa”. Non in modo improvviso, abbiamo tempo di capire che stiamo per allontanarci dai ricordi, dalla malinconia, e che stiamo avvicinandoci a qualcosa di inquietante. Ad un presente senza pietà. E gradualmente questo convoglio militare lì ci porta, al grigiore delle sponde del Volga, illuminato solo da un albeggiare vergognoso e spento e dalle esplosioni sempre più vicine, i boati si fanno martellanti, le voci gracchianti abbaiate dentro dei megafoni ricordano ai soldati i loro doveri, eppure più che un gruppo di motivati professionisti della guerra che subiscono da sempre un costante lavaggio del cervello multimediale, questi giovani, ci sembrano invece solo dei deportati; la violenza ebbra dei commissari arrabbiati li spintona giù dalle carrozze, gli strattoni e gli urti impietosi cozzano con le parole inneggianti all’orgoglio nazionale ed al coraggio: “Ordini del Compagno Stalin, NON PIÙ UN PASSO INDIETRO!!”, le bandiere con la falce e martello garriscono su un’alba di settembre fatta di fumo nero sulle acque agitate del grande fiume su cui si stende, lontana e violata, l’immensa Stalingrado, stuprata dal fuoco e dai raid aerei. La corsa a perdifiato di Vasilij e dei suoi compagni non consente loro di pensare ed il ragazzo non emette una sillaba, c’è solo la pioggia incessante di ordini gridati nelle orecchie tra lo strillare delle armi automatiche ed il bombardamento dell’artiglieria, sempre più vicino, fino a che non ci troviamo col nostro protagonista su una delle chiatte riempite piene zeppe di uomini spaventati e disarmati.

I commissari vomitano ordini ed avvertimenti, nella stessa quantità: durante la traversata uomini muoiono, lontano come vicinissimo, corpi inermi forati dal fuoco dei Tedeschi, barche saltano in aria a metà strada, pezzi di persone galleggiano nel brodo nero fatto di acqua del Volga e sangue. Pazzi di orrore, alcuni soldati si tuffano in acqua, mentre gli avvertimenti dei commissari si palesano in azione, gli unici armati sulle barche, fanno fuoco sui traditori per continuare a dare l’esempio.

Atterrati ai moli di Stalingrado, nulla migliora, tutto precipita sempre di più, lo spettatore non ha pace, come non ne ha Vasilij; spintonato a forza nella fiumana di uomini che entrano, mentre pochi mutilati ancora vivi tentano di uscire sulle barelle, insieme ad una ressa di civili trattenuta a fatica che cerca la salvezza, altri megafoni urlano, ripetendo come un disco rotto: “Avanti, forza! Chi si ferma verrà ucciso!” e poi lo spaventoso: “QUELLO COL FUCILE SPARA! QUELLO SENZA FUCILE SEGUE IL COMPAGNO! QUANDO QUELLO COL FUCILE VIENE UCCISO, QUELLO CHE LO SEGUE PRENDE IL FUCILE DEL COMPAGNO E SPARA!”; sì, soltanto ora questi giovani diventano “soldati”, o almeno, solo uno su due, perché l’Armata Rossa ha meno armi da fuoco che vite da riversare nel conflitto disperato, ormai, e Vasilij riceve solo una spoletta di cartucce da uno scatolone, solo quello prima e quello dopo di lui ricevono un’arma per l’azione militare a cui stanno per prendere parte, senza preparazione se non quella dei commissari strepitanti, una mano su una bandiera rossa o una rivoltella, l’altra sul megafono, più spaventoso di entrambe, che pure fanno paura.

Presto la carne umana viene spinta in un’avanzata folle contro le linee tedesche, che non tarda a farne trito da unire a quello già macellato poco prima, a forza di fuoco automatico proveniente da mezzi blindati e soldati disciplinati e ben armati. Altri tentano la fuga, e su questi viene ordinato di sparare prima dai loro stessi compagni che dai nemici; tra una carica vuota e dissennata e l’altra, anche i megafoni tedeschi cominciano a torturare le menti scioccate chiedendo la resa perché “Questa non è la vostra guerra! Unitevi ai vostri camerati tedeschi, essi capiscono le vostre sofferenze, e avranno cura di voi più dei vostri ufficiali”, il tutto mentre i corpi vengono falciati e diventano parte dello scenario, fatto di cadaveri di edifici in rovina, scheletri di alberi bruciati, corpi umani fratturati ed accartocciati come fogli stracciati nelle strade piene di detriti, e noi sentiamo un coro da chiesa pietoso piangere la vita stuprata e gli uomini oggettificati.

Vasilij troverà un suo fucile solo quando Politruk Danilov (il sempre bravissimo Joseph Fiennes), un Ufficiale Politico di Seconda Classe, anche lui un commissario del partito, scartando le bombe tedesche in mezzo ai rottami della città devastata con l’ultimo macinino ancora in movimento – anche se per poco – si ritroverà insieme a lui sbalzato fuori dal mezzo a nascondersi tra frotte di cadaveri dentro una fontana, con gli sturmgewehr tedeschi vicini che falciano i corpi distrattamente per finire i feriti. In quell’occasione scopriremo che Vasilij ha un dono affinato nei suoi anni d’infanzia, quello di essere un tiratore scelto sopraffino, lui salverà Danilov e cominceranno una turbolenta amicizia in questo scenario di abbandono disperato.

Danilov vede nella storia del giovane pastore degli Urali il giusto mezzo per motivare i soldati sfiancati dalla guerra, usando la narrativa politica e l’arma della propaganda, grazie anche all’intercessione di Nikita Chruščëv (Bob Hoskins), Vasilij diventa presto il cecchino-eroe della resistenza russa, ed ogni giorno di guerra vedrà giornali recare il bollettino con le eroiche uccisioni del protagonista, trasformato in una figura più grande di lui, che cerca soltanto di sopravvivere scagliato in una guerra che non ha scelto. Il numero di ufficiali tedeschi abbattuti dal suo Mosin-Nagant verrà aggiornato quotidianamente e le rotative dei giornali di guerra sforneranno tanto materiale propagandistico da fare in modo che la sua fama raggiunga ogni angolo del Paese e, con esso, anche le orecchie del Comando Maggiore dei nazisti che elaboreranno un piano per rimuoversi questa spina nel fianco: chiameranno a Stalingrado un ufficiale ritirato, il Maggiore Konig (il sempre carismatico Ed Harris), che comincerà un duello contro Vasilij che durerà giorni, settimane, mesi.

I mirini delle loro ottiche scruteranno ogni angolo di edifici divelti, cunicoli di fortuna, pile di cadaveri e ci condurranno attraverso i loro occhi guardinghi intenti in uno scandaglio dei rispettivi reticoli di vetro dentro una caccia spietata e silenziosa, che li vedrà conoscersi senza mai parlarsi davvero, mentre vediamo il fato di altre vittime della guerra, quelle dei poveri civili coinvolti loro malgrado, intrecciarsi con i loro in un gioco perverso ma sempre distaccato, grazie alla distanza paradossalmente personale che solo due cecchini armati di fucili di precisione in lotta potrà concedere. Con Konig arriverà anche il soldato Koulikov (il rocciosissimo Ron Perlman), in veste di “consulente di guerra”: un soldato russo sdentato, cinico e disincantato che ha conosciuto il Maggiore nazista studiando nella stessa scuola tedesca prima della guerra, quando i loro Paesi erano alleati. Danilov vedrà in questo duello lento e micidiale l’occasione per continuare la narrativa dell’incessante propaganda: “Un nobile della Baviera che va a caccia di cervi… contro un pastore degli Urali che dà la caccia ai lupi: questo è più di un confronto fra due Nazioni, è l’essenza della lotta di classe”.

La storia che il film ci racconterà è tratta liberamente da un insieme di suggestioni arrivate dalle memorie della battaglia di Stalingrado del realmente esistito Zajcev, così come anche da quelle del generale russo Vasilij Čujkov e da un romanzo dell’americano William Craig, quindi è giusto ricordare che non ha pretese documentaristiche stringenti, in fondo si tratta di una storia raccontata con il mezzo magico del cinema, ed a volte passerà dalla crudezza delle immagini fin troppo realistiche ad una narrazione filtrata dalla rielaborazione della fantasia e dell’immaginazione degli autori, ma non c’è colpa in questo, ed è anzi un piacere trovare qualche sorprendente momento di leggerezza in mezzo al grigiore e all’abbandono proprio di questa Stalingrado del 1942 reimmaginata, percorrendo strade devastate, in mezzo ai cunicoli della resistenza e le titaniche fabbriche sventrate, dove la guerra a tratti si prende il suo palcoscenico in modo freddamente monumentale, ma mai spettacolarizzato, ed a tratti si ritira sullo sfondo, dove il racconto potrà appassionarci con le sue convoluzioni, dove l’amore per la bella e colta Tania, ritrovatasi a passare dallo studio universitario alle milizie cittadine per vendetta, incontrerà Vasilij e Danilov, diventando senza colpa motivo di divisione.

È comunque innegabile che la rappresentazione del male, della morte inflitta, della violenza, non possa che toccarci, vedere una guerra rappresentata nella finzione può avere vari effetti su di noi: può atterrirci, spaventarci, disgustarci, persino intrattenerci e divertirci, perché è finzione, e la finzione deve diventare – per senso di responsabilità – una porta per la fuga verso altri mondi, diversi dal nostro e quindi motivo di riposo e separazione dalle nostre preoccupazioni concrete e quotidiane. Però la finzione può (e forse deve, anche) essere mezzo di riflessione e catarsi: la violenza della guerra è qui in questo film rappresentata, e, come detto sopra, si prende il suo spazio e risulta sì uno degli orrori tipici della fin troppo vera guerra che, per quanto distante nel tempo, resta sempre ben presente nelle nostre menti; è impressionante vedere le persone diventare oggetti, corpi dati in pasto ad una belva senza volto che consuma i popoli e le città, fa paura e ci ricorda il sano e naturale ribrezzo che ci deve guidare verso soluzioni pacifiche ad ogni possibile conflitto. Ma è parte della nostra natura, come abbiamo suggerito in apertura, negarlo non può che farci ancora più male. Dunque la pellicola ce la mostra questa violenza della guerra, in modo concreto e verace, ma mai morboso: non c’è gusto nel mostrare le persone morire, c’è una triste consapevolezza di questi personaggi che diventa anche la nostra, non c’è mai un indugiare della camera verso le interiora di un morto o verso una testa esplosa, non c’è la truculenza tipica dell’horror e non c’è un interesse efferato per la violenza a scopi espressivi, c’è solo la voglia di ricordare con uno sguardo matter-of-fact, prosaico, che quando gli uomini si sparano addosso, si cercano per centrarsi con le pallottole, si tradiscono per un tozzo di pane, si tendono trappole, si gettano contro muri di soldati schierati e ben armati, quegli uomini non possono che cessare le loro esistenze terrene, nel dolore e nell’insensatezza.

Subito dopo quel breve flashback d’esordio, che serve a calare lo spettatore in un falso senso di sicurezza per poi sovvertirlo presto, l’esplosione di violenza iniziale avviene sui nostri schermi in modo impressionante e deciso, ma ogni uccisione a cui assisteremo non è spettacolarizzata, rappresentata come un successo supereroistico e quindi giustificato, ma come conseguenza degli sforzi di sopravvivenza di personaggi che si aggirano in un mondo distrutto: è così strano vedere come la Stalingrado del film potrebbe essere uno scenario di guerra di qualsiasi epoca, uno sfondo (pre-? meta-? post-?) apocalittico alla barbarie perpetrata lungo un conflitto da due eserciti nelle macerie della civiltà, dove i luoghi di vita quotidiana diventano solo grigi detriti di un mondo che ha smesso improvvisamente di esistere e può ormai collocarsi solo in un defunto passato. Potrebbe essere Stalingrado, ma potrebbe essere Roma, potrebbe essere New York, potrebbe essere Mariupol, o casa nostra: la storia del film vede dei personaggi che non sono meno umani di noi, ma che sicuramente sono così abituati a dare la morte, vedere la morte, accostarsi alla morte, in ciascuna delle loro giornate, che non ne hanno più paura, che la riconoscono in ogni momento, infatti dice Vasilij: “Tutte le persone che vedi sanno che moriranno, perciò quando la sera riescono a tornare qui… è un regalo. Allora, ogni tazza di tè, ogni sigaretta… diventa una piccola festa, perché per tanti di noi potrebbe essere l’ultima notte. È solo una cosa che bisogna saper accettare, arriva per tutti l’ora di morire”, fatalista ma non mesto, sorridendo con il cuore.

Non voglio addentrarmi oltre nell’inanellare brevi focus della trama, perché una bella storia cinematografica è sempre bello viversela e ri-viversela per i fatti propri, se non per dire che sarà bello scoprire se ci sarà un lieto fine, se lo sarà davvero per tutti e se tutti ci arriveranno, ma indugio un altro po’ dicendo che è bello riflettere con Danilov sulla natura della guerra e delle disuguaglianze tra gli uomini, che sono tra i motivi-principe che ci portano a muoverla come specie: “L’Uomo sarà sempre l’Uomo, non esiste l’Uomo Nuovo. Con tanta fatica abbiamo provato a creare una società che fosse giusta, dove non ci fosse niente da invidiare al tuo compagno. Ma ci sarà sempre qualcosa da invidiare: un sorriso, un’amicizia, qualcosa che non hai e di cui ti vuoi appropriare. A questo mondo, perfino nel mondo sovietico, ci saranno sempre i ricchi e i poveri. Ricchi di talento, poveri di talento. Ricchi d’amore, poveri d’amore”.

Questo è un ottimo film, un’ottima visione che consiglio a chiunque, che vi faccia riflettere oppure no, sicuramente vi intratterrà, ma se su qualcosa sarà facile ragionare dopo la visione, sarà sicuramente che questo film mostra alcuni degli orrori della guerra (non tutti, e forse gliene siamo grati per questo), e la violenza e la morte nella guerra sono tremende, ma forse dovrebbe farci paura anche un altro orrore dei conflitti bellici, meno esplicito, meno onesto, più infingardo e nascosto: insieme al monito di dover provare a rimanere umani quando si combatte, non diventare fredde macchine di morte indifferenti alla sofferenza – nostra come degli altri, nemici compresi – oltre a questo, varrebbe la pena ragionare su come già ottant’anni fa lo strumento della comunicazione, l’arma della propaganda, fossero macchine e concetti temibili. Un giovane si ritrova a combattere per la sua vita, gli dicono che lo fa per tutto il suo Paese, gonfiano il suo ego, lo strattonano in tutte le direzioni, lo trasformano in un simbolo, condizionerà la vita e le opinioni degli altri, in ogni modo in cui si parlerà di lui, gli si metteranno parole in bocca o lo si strumentalizzerà tutte le volte che servirà per giustificare azioni militari, barbarie innominabili o ideologie (che sono la stessa cosa)… In tutti questi e mille altri casi si farà violenza su di lui, sulla sua psiche e la sua identità, ma anche su quelle di chi ascolterà questi messaggi, verranno toccate, influenzate, cambiate, ritorte contro altri e spronate a commettere crimini inenarrabili, razionalmente giustificati. La propaganda, la manipolazione dell’informazione, l’uso “oplitico”, strumentalmente militarizzato della comunicazione: un orrore sottovalutato e quasi dimenticato delle guerre, che si muove, cresce e viene nutrito e sostentato dalle morti e dalle violenze, l’orrore della bugia strumentale, del movimento di idee altrui che usa immagini, persone e consensi per muovere ideologie e coscienze, a me queste cose fanno più paura dei fucili, e questo film, a volte in modo più efficace, a volte in modo più goffo, prova a ricordarci anche questo.

La malvagità degli uomini che muovono guerre, a volte, è più perversa e strisciante dei colpi di fucile.

Rivedere poi questo film in questi giorni, dove i telegiornali ci mostrano senza sosta le immagini di città violate e devastate come la Stalingrado qui raccontata, fa un effetto inquietante: Mariupol, Kharkiv, Leopoli, Irpin, Bucha, Kiev, tutta la regione del Donbass, e le altre città dell’Ucraina, invase dalle forze militari russe che stanno nel 2022 portando avanti una spaventosa, impensabile guerra, dagli echi spaventosamente Novecenteschi, non può che ricordarci una questione che anche “Il Nemico alle Porte” ci illustra, ovvero che ognuno deve poter vedersi riconosciuto il diritto inalienabile a difendersi. Difendere il proprio Paese da un invasore, la propria città da un nemico, la propria famiglia da un aggressore, difendere sé stessi da chiunque voglia farci del male, le proprie carni da chi pensa di aver su di esse qualsivoglia diritto superiore al nostro. Questo diritto inalienabile ha portato i Russi a difendersi casa per casa a Stalingrado fra il ’42 e il ’43 contro i Tedeschi di Hitler, ed ora un popolo intero fatto di coraggiosi Ucraini sta difendendo le proprie case ed insieme il confine dell’Europa (e forse della Civiltà tutta) contro gli stessi nipoti di quei Russi che difesero Stalingrado.

Ancora una volta, anni dopo i miei studi liceali, mi ritrovo a preferire alla Storia l’escapismo verso mondi immaginari, che speravo rimanessero tali come quando mi sono accinto a vedere questo bel film la prima volta. La mia generazione comincia ad essere giustamente stufa di attraversare eventi di grande rilevanza storica al volgere di quasi ogni mezzo lustro, proprio negli anni che nelle vite altrui sarebbero dovuti essere quelli dell’assestamento, della realizzazione personale, della costruzione di una famiglia… Non sarebbe male tornare ad un mondo dove l’ultima grande guerra medievale combattuta dai popoli della Terra si poteva trovare solo dentro i pezzi di intrattenimento, e non vera e palpitante a pochi chilometri da casa, con il suo respiro puzzolente sui nostri colli.

“Il Nemico alle Porte” – Il diritto inalienabile di difendersi dall’invasore ed il tentativo di trattenere brandelli della propria umanità nella guerra – di Maurizio Maltese

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