Quella mattina di febbraio del 1943 preannunciava una giornata tiepida piena di sole e, finalmente, calma, dopo giornate di bombardamenti che avevano scosso tutti i quartieri di Napoli. Tom si era sdraiato sul terrazzino di casa a crogiolarsi al sole beato, godendosi il tepore primaverile. Man mano che passava il tempo, però, si sentiva sempre più inquieto: uno strano presentimento lo faceva diventare sempre più nervoso, agitato. Infatti, verso metà mattina, ancora una volta, si sentì il suono della sirena antiaerea. Era appena iniziato il lugubre risuono della sirena che all’improvviso Tom udì un rombo assordante; poi fischi che raggelavano il sangue e il boato degli scoppi delle bombe. Aveva paura del rumore degli scoppi, un sacro terrore che lo spingeva a fuggire. Altre volte Ciro, il suo Ciro, era sempre riuscito ad afferrarlo e stringerlo a sé, cosa che gli infondeva una certa calma. Ma quella volta tutto si era svolto all’improvviso così che Tom si lanciò verso la porta di casa, spalancata per lo spostamento d’aria di una bomba caduta lì vicino. In preda ad un terrore infinito, si precipitò giù dalle scale incurante perfino dei disperati richiami di Ciro. Appena giunto nel portone, non si fermò, ma corse verso la strada, un vicolo abbastanza ampio che scendeva verso il mare. Gli parve di sentire ancora il richiamo di Ciro prima che un boato più forte e un vento strano lo facessero quasi stramazzare contro un paracarro posto all’incrocio con il vicolo. Non potette fermarsi; la paura era tale che continuò a correre giù per il vicolo inseguito da boati sempre più frequenti che si allontanavano. Correva a perdifiato senza sapere dove, in quale direzione, purché lontano dagli scoppi e dal fragore. Continuò finché tutto sembrò tornare tranquillo. Sentì il rombo degli aerei allontanarsi e uno strano silenzio, poi la sirena ricominciò a suonare per il cessato allarme. Solo allora si fermò. Non aveva più fiato. Tremava tutto. Si lasciò andare a terra senza quasi più respiro, affannando per la stanchezza. Solo dopo qualche minuto riprese coscienza e cercò di capire dove fosse. Non riconosceva nulla del luogo dove era capitato; vedeva una strada larga mai percorsa prima, completamente sconosciuta. Era un luogo dove non era mai stato, un luogo dove Ciro non lo aveva mai portato. Ciro, pensò, dove sarà, mi starà sicuramente cercando, sarà in pensiero per lui. Capì, allora, che doveva ritornare indietro, a casa. Già, ma come. In preda al terrore non si era reso conto della strada che aveva fatto e non riusciva a capire dove fosse e come tornare a casa. Fu preso ancora una volta dalla paura, dal terrore di non poter più rivedere la sua casa e Ciro. Girò su se stesso per orientarsi. Camminò un po’ in giro per vedere se avesse potuto riconoscere la strada che aveva fatto. Purtroppo nulla. Aveva sete e anche fame. Vide una pozza d’acqua alla base di una fontanella mezzo scardinata e bevve avidamente. Si sentiva già meglio. Se avesse potuto anche mangiare qualcosa sarebbe stato sicuramente meglio e più lucido. Rovistò in un bidone della spazzatura e trovò dei resti di cibo. Non si fece scrupolo e addentò quel che poteva sfamarlo. Si sdraiò a terra per riprendere fiato e si guardò attorno. Vide allora una scala che saliva verso la collina. Gli sembrò di riconoscerla e il suo fiuto gli suggerì di percorrerla su, verso i rioni in alto dove, gli pareva di ricordare, era la sua casa. Lentamente percorse a ritroso la scala che si inerpicava e gli parve di riconoscere alcuni particolari. Rincuorato continuò a salire. Chissà se Ciro lo stava cercando. Sicuramente sì, per cui tentò di aumentare il ritmo della salita, ma era stanco per la corsa e per le emozioni. Pensò di fermarsi un poco per riposare e riprendere, poi, con più lena la salita. Scacciò il pensiero. Ciro sicuramente era in pensiero. Bisognava continuare e sostare solo per bere ancora un po’ d’acqua in qualche pozza o fontanella. Frattanto si era fatto pomeriggio inoltrato e le ombre della sera stavano scendendo sui vicoli e le strade di Napoli. Fu allora, mentre quasi quasi stava per fermarsi, che riconobbe alcuni particolari che gli indicavano che ormai era vicino alla meta. Sì, con entusiasmo riconobbe i luoghi, gli odori che gli dicevano di essere a casa. Sbucò, così, nella sua strada. Si meravigliò molto che Ciro non lo chiamasse. Forse si era stancato di cercarlo, ma non c’era problema, sarebbe arrivato a casa e lo avrebbe trovato. Fiducioso di essere a un passo dalla ritrovata felicità, cercò il palazzo dove era la sua casa. Notò con sgomento che tutto era cambiato. Qualcosa la riconosceva, ma il palazzo… dove era il palazzo? Gironzolando, vide cose che gli ricordavano i luoghi. Poi, all’improvviso, alzando la testa, lo vide. Vide il portone enorme con l’arco di pietra e il basamento dietro cui spesso si nascondeva per scherzare con Ciro. Rimase immobile, interdetto. Nell’immensa bocca del portone non si riconosceva più nulla. Dove era finito l’ampio cortile, dove era la scala per salire su a casa? Vide solo un ammasso di macerie, travi, mattoni, in parte mobili rovinati giù. Tentò di salire per raggiungere casa, ma non gli fu possibile. Tutto era caduto, sparito, più nulla in piedi. Si fermò interdetto su cosa dovesse fare. Era inutile muoversi da lì perché era scesa la notte ed era tutto buio, un buio pesto attraverso il quale non si vedeva niente. Pensò che dovesse fermarsi lì. Domani, alle prime luci del giorno, sicuramente Ciro sarebbe venuto a cercarlo. Si sistemò sul basamento del portone rimanendo vigile nel caso che Ciro fosse tornato, ma la stanchezza accumulata in quella terribile giornata lo vinse. Cercò di resistere al sonno; dopo alcuni tentativi, crollò e si addormentò profondamente finché la luce del primo sole non lo svegliò. La strada si era in parte rianimata e si sentiva un vociare di gente. Qualcuno chiamava, altri piangevano, altri ancora maledicevano quella guerra infame che aveva distrutto tutto. Ancora rintronato dal sonno, Tom si alzò e si mise a cercare nell’antro spalancato del portone per trovare qualche traccia. Fu allora che la vide: vide la scarpetta di Ciro, solo una, e mentre gli si riaccendevano le speranze di trovarlo, sentì una voce di ragazzino che lo chiamava, dapprima dubbioso, poi, via via, più certo. “Tom. Tom. Sei tu? Vieni qua. Qua”. Lo riconobbe: era Rino, l’amico di Ciro, che lo guardava con lo sguardo disperato e le lacrime agli occhi. “Tom” disse carezzandolo “Ciro non c’è più. Vieni” Poi rivolto al padre: “Papà, ho trovato Tom. Vieni”. Tom lo riconobbe, era Antonio, amico della famiglia, della sua famiglia. Era tornato per raccattare tutto quello che era possibile e caricarlo su una carretta sgangherata per portarselo via. Rino, allora, chiese al padre se potesse portare con sé Tom, altrimenti avrebbe fatto una brutta fine. Antonio acconsentì e Rino incitò Tom ad andare con loro. Tom non si mosse. Guardò il portone, si rese conto di essere solo e, guardando Rino con i suoi occhi neri, grandi, buoni, quasi con un lamento, iniziò a seguirli. Poi, ad un tratto, gli parve di sentire un richiamo. Ciro, era Ciro. Tornò indietro ma non lo vide. Vide solo la scarpetta rimasta a terra. Le si avvicinò, la prese con i denti e, dando un ultimo sguardo al portone, corse dietro Antonio e Rino, i suoi nuovi padroni.

La guerra di Tom – di Pietro Laino

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