Nelle scorse settimane, il tema dei LINGUAGGI è stato per alcuni giorni al centro dell’attenzione del dibattito politico nazionale in seguito all’iniziativa della struttura del Cerimoniale di Palazzo Chigi di inviare al mondo dei media una nota che precisava il termine – “Il Presidente del Consiglio dei Ministri” -con il quale indicare l’on. Giorgia Meloni, nuovo leader del nostro Paese. Al di là della diatriba che è seguita a questa iniziativa, l’occasione è stata utile per mettere al centro dell’attenzione, anche se solo per alcuni giorni, il tema di un uso corretto e condiviso dei termini indicanti funzioni di un certo rilievo pubblico e in secondo luogo per attivare un meccanismo comunicativo che, al di là del fatto originario, ha finito per coinvolgere aspetti riferiti alla sostanza dei fatti, vale a dire la prima volta di un capo del governo di genere femminile. Per la verità tutto si è concluso con la salomonica affermazione ai media dell’on. Meloni: “chiamatemi come vi pare”, suggerimento accolto dai vari organi di informazione con varietà di accenti.

Per molti aspetti ben più bruciante e difficilmente risolvibile soprattutto per i soggetti direttamente coinvolti, appare il tema del rapporto tra il mondo della disabilità e i linguaggi usati per descriverlo, un rapporto molto complicato che si deve misurare con un atteggiamento di rilevante ritardo dell’insieme della società italiana e delle sue articolazioni, delle sue rappresentanze politiche e, certo non da ultimo, del mondo della comunicazione. Le ragioni di questo sostanziale distacco sono molteplici e rimandano ad un grave deficit culturale oggi del tutto inconcepibile ed intollerabile anche in ragione dello sviluppo scientifico e tecnologico che oggi consentirebbe una pluralità di risposte positive ai soggetti bisognosi di vicinanza, tutela, supporto.

A partire – ed è persino superfluo sottolinearlo – dal fenomeno tanto diffuso della violenza contro le donne che, secondo i dati della Direzione generale della Polizia criminale dimostrano come essa rappresenti ancora una piaga diffusa e difficile da contrastare: infatti dal 1° gennaio al 7 novembre 2022 sono 82 le donne vittime di femminicidio in Italia, la metà delle quali uccise dai loro partner, attuali o ex.

E proprio il linguaggio sbagliato e fuorviante utilizzato in numerose cronache di casi di violenza di genere sulle donne sono molto spesso in drammatica contraddizione con le regole deontologiche di cui il giornalismo italiano si è pure dotato: troppo spesso dobbiamo fare i conti con stereotipi e assurdi pregiudizi e con espressioni ed immagini lesive della dignità della persona; troppo spesso dobbiamo assistere a narrazioni nelle quali emerge chiaramente la tentazione di colpevolizzare in qualche modo la vittima e di attenuare la responsabilità dell’autore del crimine.

Così come purtroppo, per quanto riguarda il diffuso mondo della disabilità molto spesso il linguaggio usato risente ancora di una insufficiente conoscenza di questo comparto della nostra società e di una concezione paternalistica che finisce per umiliare questi soggetti e per confinarli in un recinto estraneo alle straordinarie potenzialità e al carico di umanità, comprensione e solidarietà che la società civile del nostro Paese esprime in ogni sua piega territoriale, come dimostrano le innumerevoli esperienze istituzionali o spontanee esperienze di vero affetto ed amore verso quanti di questo, soprattutto di questo ha bisogno.

Linguaggi e disabilità – di Enrico Paissan

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