Non si vedono più le rondini. Non si sente più il garrire quando volavano veloci attorno ad un campanile. Dicono sia colpa della chimica, nebulizzata dove crescono gli alberi da frutto per proteggerli dagli insetti nocivi.

Però nel Trentino si può guardate un’aquila volare, un cerbiatto correre nell’erba alta, ascoltare il mormorio di una fontana o più banalmente i suoni di un ruscello e il possente bramito del cervo che, accompagnati da simpatiche guide, si può sentire nei boschi della Valle di Sole.

Certo, la tragedia del Monte Peller spaventa quanti vorrebbero passeggiare lungo sentieri bellissimi, spesso sapientemente trasformati in perfette piste ciclabili, ascoltando il vento lieve che sembra volerci raccontare i segreti delle montagne e le dimenticate storie del Regno dei Fanes.

Così si dovrebbe vivere la vacanza in montagna cercando di tenersi il più possibile distanti dal rombo dei motori che in lentissima colonna intasano le strade delle Dolomiti trasformando i prati in parcheggi selvaggi, l’aria pulita in quella sempre più tossica delle città. Ricordo quando si parlava del “grigio Milano” riferendosi al colore dei bronchi dei milanesi costretti ad assorbire gli scarichi delle automobili, i fumi delle ciminiere, il carbone bruciato per il riscaldamento dei condomini, ricco di zolfo perché importato dall’ Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Combustibile che costava meno rispetto a quello che arrivava dal Belgio o dalla Germania dell’Ovest.

Però qualcosa starebbe cambiando. Siamo forse ad un passaggio della nostra storia, nel quale stanno scomparendo alcuni tratti della antica identità trentina, insieme ad alcuni aspetti centrali delle vicende politiche, economiche e sociale degli ultimi ottanta anni, dal 1945 in poi, dalla fine della seconda guerra a quello che, forse, si profila come un possibile Rinascimento. Se la guerra che infuria da Est sull’Europa tutta, non cancellerà i nostri sogni e il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti.

Ecco, bisogna anche prepararsi ad un turismo a misura d’uomo, al rispetto massimo della natura, ad affrontare un inevitabile cambiamento climatico.

Quanti hanno i capelli molto bianchi ricorderanno che, d’ inverno, si scendeva con gli sci di hickory – quel legno duro simile al noce cresciuto nelle foreste della Norvegia – dal Vason a Ca dei Gai e persino fino all’imbocco del ponte sull’ Adige a Piedicastello. Mentre adesso sul Monte Bondone e all’altezza del fu famoso “Norge” c’ è poca neve, ma scorrazzano i lupi. E per continuare a parlare della neve ricordiamoci che il 6 febbraio del 1947 lo slittone di grosse assi inchiavardate a forma di cuneo, trainato da robusti cavalli che doveva tenere netta la Valsugana da Ponte Alto in giù, era stato bloccato dalla all’altezza dell’incrocio fra via Venezia e via delle Cave. La città era bloccata dalla troppa neve mentre nelle case dove c’era una sola “fornasela”, la legna scarseggiava.

Dobbiamo, forse, abituarci a mutamenti epocali; cominciare a pensare ad un turismo diverso e, senza isterismi, provare a rendere più sicuri i nostri boschi dove vivono troppi orsi e lupi. Subito dopo la tragedia sul Peller si è deciso: si deve ridurre il numero degli orsi.

Appare evidente che la scia di spavento si è dilatata in Slovenia, Bulgaria, Finlandia e i Paesi Baltici dove gli orsi sono, da sempre, bersaglio di cacciatori e trasformati in cibo. Come cervi, caprioli, fagiani, galline, maiali, capretti pasquali. Mentre noi vogliamo trasferire un numero di plantigradi che varia a seconda dell’andazzo del momento, nelle foreste – non boschi, sia ben chiaro – dell’Europa, si è decisa una strage. Così se gli orsi di casa nostra saranno catturati e portati nella zona di Kočevje, la più boschiva della Slovenia (le foreste ricoprono il 90 per cento della superficie) saranno i primi ad essere abbattuti, trasformati in bistecche e ficcati in scatole. Come si fa con la carne di manzo e gli sgombri.

In Slovenia, ma anche in altri paesi dell’Est, Bielorussia compresa, ci sono delle foreste quasi inesplorate, dove è possibile percepire la potenza della natura nella sua forma più primordiale. Posto adatto per gli orsi, altro che i mughi della Paganella e il verde del Lago di Tovel.

Montagna e progresso, cioè il ritorno dell’uomo da dove era disceso per cercare il progresso nelle città e per accorgersi, dopo decenni, che deve tornare a riprendersi quelle montagne, abbandonate troppo in fretta.

Vorrei ricordare l’esodo dalle valli del Trentino, in quegli anni desolate, per la catena di montaggio dello stabilimento a Spini di Gardolo che vide Aldo Moro alla posa della prima pietra e che Flaminio Piccoli chiamò, nel giorno dell’inaugurazione, “la cattedrale del lavoro”. Non fu un fallimento. Fu un cambiamento e oggi, forse, si assiste ad una mutazione. Ad un intelligente ritorno al recupero della vita in montagna. La generazione che oggi ha vent’ anni e anche meno, forse non lo sa, forse lo intuisce appena, ma davanti a sé ha un compito storico: quello di fare e ripensare l’Italia e – nel caso nostro – il Trentino.

Non ci sono, per fortuna, macerie da rimuovere, libertà da riconquistare e alla generazione attuale e a quelle successive, toccherà di costruire una nuova dimensione mediando fra ciò che rimane e un futuro che se non cadrà un meteorite, non erutterà un vulcano, un terremoto distruttivo, non ci sarà una guerra né una nuova epidemia tipo la spagnola che funestò il mondo dal 1918 al 1920, vedrà l’uomo con nuovi e forse oggi impensabili spazi di tempo libero, di infinite frontiere. Con i trasporti con propulsione totalmente differente dall’attuale: pensiamo solo a com’è cambiato il telefono negli ultimi 50 anni. Disegniamo il futuro. Cerchiamo di farlo bellissimo.

Montagna nuova – di Luigi Sardi

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