C’era una volta la questione della lingua…

Ero in IV ginnasio quando il prof di italiano cominciò a spiegarci la “questione” della lingua: parlò di latino e di dialetti, accennò a Dante, fu più chiaro su Manzoni che – volendo dare un esempio di lingua italiana agli italiani (d’accordo con chi pensava che , “fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”) – andò a Firenze, sulle orme di Dante, a “risciacquare i cenci in Arno”… sono passati secoli, l’Arno non è più d’argento, la lingua del Manzoni fu poi accuratamente adottata dal maestro Manzi e, verso gli anni ’60 del secolo scorso, gli italiani si convinsero di parlare una lingua unitaria, ricca di sinonimi, figlia del latino e nipote del greco.

Ma con il diffondersi della televisione in tutte le case, con il rivoluzionario ’68 che importò in Italia la musica inglese, con la possibilità offerta a molti studenti di andare in Inghilterra d’estate per imparare l’inglese, con una pubblicità invadente eccetera eccetera, gli italiani persero le loro sicurezze linguistiche e, forse per non sentirsi provinciali, cominciarono timidamente a pronunciare parole straniere.

A che punto siamo oggi, nel secondo ventennio del 2000?

Scopriamo con fastidio che giornalisti della carta stampata spesso scrivono male; che quelli della tv sbagliano accenti e congiuntivi… per non parlare di attori e cantanti, di opinionisti saccenti e spesso ignoranti, di veline e tronisti ingenui e sprovveduti (dal punto di vista linguistico)!

Cosa fare? Chiamare in causa l’Accademia della Crusca? No, forse non è necessario, potrebbe bastare il buon esempio, senza dover necessariamente multare l’incauto che pronuncia una parola straniera, come si va minacciando dall’alto di qualche Palazzo ( e direi: da che pulpito viene la predica!).

Dunque, chi ha avuto la fortuna di studiare, chi ama leggere, chi scrive per passione o per lavoro, ha il compito di esprimersi correttamente, di non sostituire con “cosa” qualsiasi oggetto, di usare i modi e i tempi dei verbi secondo le regole, di cancellare dal suo bagaglio lessicale quelle parole o espressioni che infestano l’italiano corrente e che il linguista Giuseppe Antonelli ha giudicato “indigeribili” in un suo articolo sul 7 del Corriere della Sera. Sono le sue “spreferenze”:

Tanta roba
Trovare la quadra
Performare/performante
Resilienza
H24
E poi mi taccio
Nel senso
Anche no
Combinato disposto

A cui io aggiungerei

Carico residuale (riferito a esseri umani).

E quanto ai termini stranieri, in un certo senso chiuderei un occhio, perché per un motivo di reciprocità ricordo che in musica, in qualsiasi Paese del mondo, si usa l’italiano (piano, pianissimo, forte, adagio ecc ecc), così come gli spaghetti rimangono spaghetti e la pizza anche. Accettiamo dunque di buon grado il mouse, il computer, lo smartphone, che sono parole entrate nel nostro mondo quotidiano, come anni fa entrarono il cabaret, il tailleur, la pettinatura alla garcon, e così via. Tutto sta nel non esagerare.

A questo proposito, suggerisco la lettura di questo breve discorso che un giovane e ironico attore ha rivolto a una signora:

Tu, L…, poco fa hai parlato della vostra mission. E io, ascoltandoti, ho subito sentito il feeling che c’è in questa community, in cui ognuno mette a disposizione le sue soft skills in un’ottica di service, e permettete, anche di sharing (= condivisione), in una dinamica bottom up (=dal basso verso l’alto) and peer to peer (=da pari a pari), tra un coffee break e un take away, utilizzando i tools (=strumenti, utensili) dell’Happy Birthday per un empowerment(= potenziamento) dell’enterntainment (=intrattenimento), ma soprattutto per creare una vision! Una vision, questo è il goal! Una vision che diventi advocacy(= difesa, patrocinio) e policy(=politica), come fanno le start up dei teen agers, degli street artist, street food, cheeseburger, Chi Qong, Tai chi, King Kong.

Questo è il concept: lasciatemelo dire: qui non serve nè un business plan e nemmeno un rendering, un after hour o un after height, no, e allora in conclusione voglio dirvi solo una cosa: la macchina del capo ha un buco nella gomma, noi la ripareremo con il che-win-gum!

Un’altra considerazione mi sembra opportuna: la lingua è in continua evoluzione, ogni anno i curatori dei dizionari cancellano termini caduti in disuso e ne aggiungono di nuovi, spesso velocemente recepiti anche dal vocabolario dell’Accademia della Crusca: c’è cringe, sostantivo che indica «il fenomeno del suscitare imbarazzo e, in particolare, le scene, le immagini, i comportamenti che causano tale sensazione»; c’è skippare, la cui origine è inglese, dal verbo to skip, cioè saltare «sui social per filtrare i contenuti»; c’è catfish, che una traduzione ingenua spiega con pescegatto: in realtà indica chi sui social si presenta con un’identità diversa dalla sua; c’è ghosthare, anche qui si pensa ai fantasmi, è l’attitudine di una persona che sui social scompare all’improvviso… e potrei continuare a lungo, ma rischierei di essere noiosa.

Lasciamo ai posteri l’ardua sentenza, questi termini resisteranno ai cambiamenti, all’usura del tempo, alla voglia di evolversi dei movimenti giovanili?

C’è però ancora un’osservazione da proporre, anzi un invito: diamo alla parola il genere corrispondente, quindi usiamo sindaco per l’uomo e sindaca per la donna, direttore/direttrice, architetto/architetta, avvocato/avvocata e così via, senza temere di non essere capiti, senza la preoccupazione che dire avvocato sia più credibile che dire avvocata. Anche in questo caso, è solo riconoscere un ruolo.

C’era una volta la Questione della lingua – di Luciana Grillo

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