ABSTRACT
Il Saggio sull’origine delle lingue di Jean-Jacques Rousseau, anche se pubblicato postumo nel 1781, fu scritto molti anni prima, nel periodo in cui il ginevrino era impegnato (anche sulle pagine dell’Enciclopedia) nella redazione di saggi e pamphlet di argomento musicale. Nel Saggio viene esposta una storia ideale del linguaggio umano, a partire dalla sua forma originaria di libera manifestazione delle passioni attraverso il canto. Il successivo processo di razionalizzazione della lingua portò alla perdita della forza espressiva originaria e, con essa, alla perdita della libertà.

 

1. Il canto rivoluzionario dei bouffons italiani

Abbandonando l’accento orale e attenendosi alle sole istituzioni armoniche, la musica diviene più tonante all’orecchio e meno soave al cuore. Essa ha ormai cessato di parlare, presto non canterà più e allora, con tutti i suoi accordi e tutta la sua armonia, non avrà più alcun effetto su di noi.1

Così Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) annunciava nel Saggio sull’origine delle lingue (testo eminentemente filosofico, ma anche considerato imprescindibile nella storia dell’antropologia e della linguistica)2 l’inevitabile epilogo del processo di decadenza che coinvolgeva tutti i mezzi espressivi dell’uomo. Il breve capitolo xvii del Saggio, dal quale è tratto il brano citato, porta il titolo eloquente di Errore dei musicisti nocivo alla loro arte ed espone uno dei numerosi temi della riflessione musicologica del ginevrino, ossia la responsabilità di autori e teorici nella degenerazione della musica. La loro ansia di stabilire regole fisse e rassicuranti aveva allontanato questa arte dalla sua condizione originaria di linguaggio, causando la perdita, forse definitiva, degli «effetti morali che aveva prodotto quando era stata […] la voce della natura».3

È singolare leggere questa opinione espressa da uno studioso ritenuto anche un compositore di successo. Va però considerato che la sua riflessione si colloca nell’ambito del grande dibattito sulla musica che impegnò per diversi anni in Francia teorici e filosofi. Tutto iniziò a Parigi nel 1752 con un’esecuzione de La serva padrona, intermezzo comico di Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) che risaliva addirittura al 1733. Accolta dagli Illuministi come una novità straordinaria, la piccola opera comica napoletana diede avvio a un’accesa polemica, la querelle des bouffons (dal nome con cui si indicavano le compagnie teatrali italiane),4 dove era indicata come esempio da seguire per un’ormai necessaria riforma del teatro musicale francese, in quanto veniva contrapposta alla tradizione autoctona della tragédie-lyrique che, avviata da Lully e Quinault nel Seicento, aveva nel teorico e musicista Jean-Philippe Rameau (1683-1764) il suo ultimo esponente di rilievo. La risonanza pubblica della querelle fu enorme tanto che, alle varie prese di posizione degli intellettuali francesi, si accompagnò ben presto la formazione di fazioni popolari il cui comportamento degenerava spesso in momenti di fanatismo. A questo proposito, Rousseau raccontava nelle sue Confessions la genesi della querelle, detta anche guerre des coins, ovvero “guerra degli angoli”:

I bouffons diedero alla musica italiana seguaci molto ardenti. Tutta Parigi si divise in due partiti, più scalmanati che se si fosse trattato di un problema di Stato o di religione. Uno più potente, più numeroso, composto dai grandi, dai ricchi e dalle donne sosteneva la musica francese; l’altro, più vivace, più fiero, più entusiasta, era composto dai veri conoscitori, dalle persone di talento, dagli uomini di genio. Questo piccolo gruppo si riuniva all’Opéra sotto il palco della regina. L’altro partito riempiva il resto della platea della sala, ma la sua sede principale era sotto il palco del re. Ecco da dove vennero quei nomi di partiti celebri a quel tempo: l’angolo del re, l’angolo della regina.5

Anche D’Alembert, nel suo saggio La libertà della musica, ricordava quel periodo di animate polemiche: «Si stenterà a crederlo, ma è assolutamente vero che, nel dizionario di certa gente, buffonista, repubblicano, frondista, ateo (dimenticavo materialista) sono altrettanti termini equivalenti».6 E ancora: «Le nostre platee, divise, presero l’aspetto di due armate una di fronte all’altra, pronte a venire alle mani».7

Nel 1752, in piena querelle, Rousseau mise in scena con trionfale successo a Fointainebleu, alla presenza del re, una propria opera, Le devin du village che, almeno nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere la prima di un nuovo genere destinato a fondere lo stile francese con quello dell’opera buffa italiana.8 L’anno successivo pubblicò la Lettera sulla musica francese, con la quale intendeva fornire i fondamenti teorici della tanto auspicata riforma. La Lettera, scritta in uno stile volutamente provocatorio, suscitò reazioni accese nel pubblico, come ricordava l’autore stesso:

La Lettera sulla musica francese fu presa sul serio e sollevò contro di me tutta la Nazione, che si credette offesa nella sua musica. […] Il Parlamento era stato appena esiliato; il fermento era al colmo e tutto minacciava una prossima sollevazione. Il mio opuscolo apparve allora. Subito furono dimenticate tutte le altre contese: non pensarono ad altro che al pericolo per la musica francese e non vi fu altra rivolta che contro di me. […] Chi leggerà che questo opuscolo, forse, ha impedito una rivoluzione nello Stato, crederà di sognare. È invece una verità che tutta Parigi può ancora testimoniare […]. Se non attentarono alla mia libertà, non mi risparmiarono però gli insulti; la mia vita stessa fu in pericolo. L’orchestra dell’Opéra ordì l’onesto complotto di assassinarmi mentre ne uscivo.9

 

 

Al di là delle probabili esagerazioni, è certo che l’effetto della Lettera fu dirompente. La tesi di Rousseau era che i francesi non avrebbero mai potuto produrre buona musica perché il carattere antimusicale della loro lingua negava questa possibilità. La lingua francese si era infatti allontanata dalla musicalità originaria e aveva pertanto smarrito la propria capacità di modulazione, diventando dura ed artificiale:

Ho detto che tutta la musica nazionale trae il suo principale carattere dalla lingua che le è propria, e devo aggiungere che è principalmente la prosodia della lingua che costituisce questo carattere. […] Ma se c’è in Europa una lingua adatta alla musica, questa è certamente l’italiana, poiché questa lingua è dolce, sonora, armoniosa e accentuata più di qualunque altra e queste quattro qualità sono precisamente le più adatte al canto.10

Fra le lingue europee, dunque, solo quella italiana possedeva una natura tale da renderla adatta alla musica, mentre il carattere di quella francese le impediva di dar vita ad un canto che fosse veramente tale. Rousseau poteva così affermare

di aver dimostrato che non c’è né ritmo né melodia nella musica francese, perché la lingua non ne è suscettibile; che il canto francese è solo un continuo abbaiare, insopportabile a qualsiasi orecchio. […] Da ciò concludo che i francesi non hanno musica e non possono averne; o che se mai ne avranno una, sarà tanto peggio per loro.11

2. Il canto appassionato dei primi uomini

Gli argomenti polemici della Lettera furono ripresi in modo più rigoroso nel Saggio sull’origine delle lingue, dove si parla della melodia e dell’imitazione musicale, redatto fra il 1756 e il 1762 e pubblicato postumo a Ginevra nel 1781.12 Qui Rousseau forniva un fondamento teorico più preciso all’idea del legame esistente fra la musica e il linguaggio. Ricorrendo a una ricostruzione ideale della storia delle lingue che partiva dallo stato di natura, l’autore faceva risalire l’origine delle forme di espressione al momento in cui i primi uomini cercarono un mezzo per esprimere le loro passioni:

Non si cominciò col ragionare, ma col sentire. Si pretende che gli uomini abbiano inventato la parola per esprimere i propri bisogni [materiali]; questa opinione mi sembra insostenibile. L’effetto naturale dei primi bisogni fu di separare gli uomini, non di avvicinarli. […] L’origine delle lingue non è dovuta affatto ai primi bisogni degli uomini; sarebbe assurdo che dalla causa che li separa derivi il mezzo che li unisce. Da dove può dunque provenire questa origine? Dai bisogni morali, dalle passioni. Tutte le passioni avvicinano gli uomini, mentre la necessità di cercare di che vivere li costringe a fuggirsi. Non furono né la fame né la sete, bensì l’amore, l’odio, la pietà, la collera a strappare le prime voci. […] Per commuovere un giovane cuore, per respingere un aggressore ingiusto, la natura detta accenti, grida e gemiti: ecco le più antiche parole inventate, ed ecco perché le prime lingue furono canti e voci appassionate, prima d’essere discorsi semplici e metodici.13

Rousseau capovolgeva la teoria, generalmente accettata ai suoi tempi, secondo la quale l’origine del linguaggio umano risaliva all’esigenza di comunicare le necessità materiali. L’espressione «si pretende che» era, per il lettore contemporaneo, un chiaro riferimento al Saggio sull’origine delle conoscenze umane di Condillac (1746),14 principale sostenitore di questa teoria. La posizione di Rousseau era innovativa anche per quel che riguardava il fondamento dell’arte: se fino ad allora gli studiosi avevano ritenuto che il compito della musica fosse quello di “imitare” le passioni, il ginevrino pensava invece che la musica costituisse proprio il linguaggio originario del sentimento piuttosto che una sua imitazione. Eppure ‒ avvertiva ‒ con il passare del tempo la componente musicale di quella lingua atavica era andata perduta:

Chiunque studierà la storia e il progresso delle lingue vedrà che più i suoni vocali diventano monotoni più le consonanti si moltiplicano e che, ai toni che si cancellano, alle cadenze che si uniformano, si supplisce con combinazioni grammaticali e nuove articolazioni: ma è solo con l’andar del tempo che si producono questi cambiamenti. A misura che i bisogni crescono, che gli affari si moltiplicano, che i lumi si estendono, il linguaggio muta carattere; diviene più preciso e meno appassionato, sostituisce ai sentimenti le idee, non parla più al cuore, ma alla ragione. Perciò stesso il tono si estingue, l’articolazione si estende, la lingua diviene più esatta e più chiara, ma più monotona, più sorda e più fredda.15

Questo era, in sintesi, il processo di decadenza che coinvolgeva tutti i mezzi espressivi dell’uomo che si celava dietro l’ideale del «progresso naturale»: in virtù di esso, le lingue «dovettero cambiare carattere e perdere in forza, guadagnando in chiarezza» perfezionando «la grammatica e la logica». Smarrita la naturalezza originaria, le lingue erano diventate artificiose e accademiche: infatti, «per rendere subito una lingua fredda e monotona, non bisogna far altro che istituire delle accademie presso il popolo che la parla».16

La decadenza, come già sostenuto nella Lettera, aveva coinvolto maggiormente le lingue del Nord, risparmiando (almeno in parte) quelle del Sud. Per spiegare come fosse possibile che popoli diversi avessero sviluppato lingue dalle prerogative così differenti, Rousseau faceva ricorso alla teoria climatica di lontana origine ippocratica, ripresa in tempi a lui prossimi da Montesquieu nello Spirito delle leggi (1748).17 Affermava Rousseau:

Tutto ciò che ho detto fin qui si adatta alle lingue primitive in generale e ai loro progressi nel tempo, ma non spiega né la loro origine, né le loro differenze. La principale causa che le distingue è connessa al luogo: deriva dai climi ove esse nascono e dalla maniera in cui si formano. È a questa causa che occorre risalire per concepire la differenza generale e caratteristica che si rileva fra le lingue del Meridione e quelle del Nord.18

3. Il canto prodigioso degli Antichi

Dopo una lunga trattazione a carattere antropologico, Rousseau dava inizio, nel capitolo xii, alla ricostruzione storica del millenario cammino dalla musica:

Con le prime voci si formarono le prime articolazioni o i primi suoni, secondo il genere di passione che dettava le une o gli altri. La collera strappa grida minacciose che la lingua e il palato articolano; ma la voce della tenerezza è più dolce, è la glottide che la modula, e questa voce diviene un suono. […] I primi discorsi furono le prime canzoni: le reiterazioni periodiche e misurate dal ritmo, le inflessioni melodiose dei toni fecero nascere la poesia e la musica con la lingua, o meglio, tutto ciò non era che la lingua stessa per questi climi felici e questi felici tempi, in cui i soli bisogni urgenti, che richiedevano la partecipazione altrui, erano quelli che il cuore faceva nascere. Le prime storie, le prime arringhe, le prime leggi, furono in versi; la poesia fu inventata prima della prosa; così dovette essere, poiché le passioni parlarono prima della ragione. Lo stesso fu per la musica; non vi fu in origine altra musica che la melodia, né altra melodia che il suono variato della parola.19

Questa “poesia” e questa “melodia” procedettero per secoli insieme, trasformandosi e aumentando il loro potere, sino a un momento della storia nel quale la lingua e la musica unite raggiunsero il massimo della loro capacità espressiva. Rousseau si riferiva in particolare all’antica Grecia, dove si parlava una lingua caratterizzata da una componente melodica che le consentiva di esprimere visioni e sentimenti potenti: «Ecco ciò che aveva la lingua greca e ciò che manca alla nostra. Noi ci stupiamo ancora per gli effetti prodigiosi dell’eloquenza, della poesia e della musica fra i Greci, che non comprendiamo perché non ne proviamo più di simili».20 La memoria di quel breve attimo felice, nel quale musica e poesia furono capaci di questi «effetti prodigiosi», è tramandata dalle antiche cronache e testimoniata da quanto ci è pervenuto della tradizione omerica:

Questi poemi restarono a lungo scritti soltanto nella memoria degli uomini; furono raccolti per iscritto molto tardi e con gran difficoltà. Fu quando la Grecia cominciò ad abbondare di libri e di poesia scritta che tutto il fascino di quella di Omero si fece sentire per comparazione. Gli altri poeti scrivevano. Omero solo aveva cantato, e questi canti divini avevano cessato di essere ascoltati con rapimento soltanto quando l’Europa si è coperta di barbari che si son messi a giudicare ciò che non potevano intendere.21

La deferenza di Rousseau per gli Antichi non era una semplice adesione estetica agli ideali del classicismo e, da questo punto di vista, prendeva anche le distanze dalla posizione degli Enciclopedisti. A proposito della musica, D’Alembert, nel Discorso preliminare dell’Enciclopedia, notava che «parecchi nostri studiosi affermano, forse stimolati da un certo amor proprio, che noi abbiamo fatto progredire quest’arte assai più dei Greci; affermazione, questa, che l’assenza di opere rende assai difficile da documentare o respingere, e alla quale non è certo facile opporre i prodigi veri o presunti della musica antica».22

Rousseau superava le cautele di D’Alembert e, senza esitazioni, si dichiarava sostenitore della superiorità degli Antichi. Per di più, non ammetteva alcun compromesso neppure a proposito della questione, assolutamente ineludibile a quel tempo, del rapporto fra melodia e armonia, una delle tematiche che, nel corso della querelle des bouffons, lo aveva visto contrapporsi al più grande teorico musicale del secolo, Jean-Philippe Rameau.23 Se era vero ‒ sosteneva Rousseau ‒ che la melodia «non imita soltanto», ma piuttosto «parla […] il linguaggio inarticolato» delle passioni, allora essa coincide col linguaggio originario, o, quanto meno, ne costituisce un preziosissimo residuo culturale. Proprio in questo suo “parlare”, e non solo “imitare”, risiedeva il potere della musica di commuovere i «cuori sensibili».24 Al contrario, l’armonia, in quanto artificio creato dall’uomo, non aveva nulla di naturale, né poteva “imitare” altro che se stessa, producendo solo «bellezze di convenzione».25 Come già nel suo Discorso sulle scienze e le arti (1750),26 il progresso (in questo caso, quello della musica) aveva provocato un’irreparabile regressione rispetto all’espressività originaria. Appare dunque del tutto giustificata l’invettiva, citata all’inizio, contro coloro che, come Rameau, perseguivano un ideale di musica intesa come scienza: costoro, abbandonando «l’accento orale»27 in favore delle rigide e artificiose regole dell’armonia, avevano condannato quest’arte al declino.

4. Il canto decadente dei filosofi

Lo scopo del Saggio non era però quello di portare avanti la polemica iniziata con la Lettera anni prima: i tempi erano cambiati e la querelle des bouffons era solo un ricordo, per quanto assai vivo. Ora Rousseau sentiva piuttosto l’esigenza di fornire fondamenti alle proprie argomentazioni. Nel capitolo xix egli riprendeva quindi la ricostruzione cronologica della decadenza della musica:

Man mano che la lingua si perfezionava, la melodia, imponendosi nuove regole, perdette insensibilmente l’antica energia, e il calcolo degli intervalli si sostituì alla delicatezza delle inflessioni […] Lo studio della filosofia e il progresso del ragionamento che avevano perfezionato la grammatica, tolsero alla lingua quel tono vivo e appassionato che l’aveva resa in origine così simile al canto. […] La melodia cominciò a non essere più così aderente al discorso, assunse a poco a poco un’esistenza autonoma, e la musica divenne più indipendente dalle parole. Allora, insensibilmente, cessarono anche quei prodigi che essa aveva prodotto quando rappresentava il tono e l’armonia della poesia ed esercitava sulle passioni quel potere che la parola in seguito esercitò solo sulla ragione. Da quando la Grecia si riempì di sofisti e di filosofi, scomparvero i poeti e i musicisti celebri. Coltivando l’arte di convincere, si perse quella di commuovere. Perfino Platone, geloso di Omero e di Euripide, denigrò l’uno e non seppe imitare l’altro.28

La ricerca costante di regole grammaticali, tanto nella lingua quanto nella musica, provocò la separazione fra la parola e la melodia che Rousseau collocava storicamente nel momento in cui si svilupparono in Grecia la sofistica e la filosofia. Proprio l’introduzione dell’artificio della dialettica e la conseguente condanna platonica della poesia causarono la fine dell’arte «di commuovere». Una successiva fase di declino risale ai tempi della conquista romana, allorché «la Grecia in catene perdette quel fuoco che riscalda gli animi liberi e non trovò più, per elogiare i suoi tiranni, quel tono con cui aveva cantato i suoi eroi. […] La lingua latina, più sorda e meno musicale, fece torto alla musica adottandola».29

5. Il canto gutturale dei barbari

Secoli dopo, anche l’impero romano era destinato alla decadenza e alla caduta, sicché «infine arrivò la catastrofe»:30

L’Europa, invasa dai barbari, e asservita da gente ignorante, perdette contemporaneamente le scienze e le arti, e lo strumento universale delle une e delle altre, vale a dire la lingua armoniosa perfezionata. Questi uomini rudi, che il Nord aveva generato, abituarono insensibilmente tutte le orecchie alla rozzezza dei loro organi: la loro voce dura e priva di tono era fragorosa senza essere sonora. […] Essi non potevano esprimere il canto se non con una sorta di boato, che consisteva nel rinforzare il suono delle vocali per coprire l’abbondanza e la durezza delle consonanti. Questo canto tonante, unito alla scarsa flessibilità degli organi, costrinse i nuovi venuti e i popoli sottomessi che li imitarono a esprimere con lentezza tutti i suoni per farsi capire. L’articolazione faticosa e i suoni rafforzati contribuirono in egual misura a sottrarre alla melodia ogni senso della misura e del ritmo […]. Il canto divenne ben presto una composizione noiosa e lenta di suoni monotoni e urlati, senza dolcezza, senza misura e senza grazia.31

I popoli del Sud conquistati da quelli del Nord, dalle voci fragorose e senza tono, furono costretti ad adeguarsi, smarrendo ogni traccia della bellezza originaria delle loro lingue. Le parlate gutturali, cariche di consonanti, si sovrapposero a quelle antiche, le cui vocali distese consentivano la modulazione della voce. Per riparare alla perdita di espressività causata dalla scomparsa della componente melodica del linguaggio, gli uomini furono costretti a introdurre nel canto numerosi artifici tecnici. Si spiegava così l’origine dell’armonia:

Una volta che la melodia fu dimenticata e che l’attenzione del musicista si diresse interamente verso l’armonia, tutto si volse a poco a poco verso questo nuovo oggetto. […] Non sorprende affatto che il tono orale ne abbia sofferto e che la musica per noi abbia perduto tutta la sua energia. Ecco come il canto divenne gradualmente un’arte interamente separata dalla parola da cui trae la sua origine, come le armonie dei suoni fecero dimenticare le inflessioni della voce e come, infine, limitata all’effetto puramente fisico della simultaneità delle vibrazioni, la musica si trova privata degli effetti morali che aveva prodotto quando era stata, doppiamente, la voce della natura.32

6. La lingua servile dei moderni

Perdute, dunque, le sue caratteristiche originarie, la musica restò anche priva degli «effetti morali» descritti dagli Antichi, ossia della sua capacità di commuovere, di convincere, di esaltare gli animi con la stessa efficacia dell’arte oratoria. Rousseau ricordava che «nei tempi antichi, durante i quali la persuasione sostituiva la forza pubblica, l’eloquenza era necessaria».33

A tal proposito, Rousseau terminava significativamente il Saggio con un capitolo dal titolo Rapporti fra le lingue e i governi, che conteneva le conclusioni etiche e politiche della sua riflessione morale:

Presso gli Antichi ci si faceva ascoltare facilmente sulla pubblica piazza; vi si parlava un giorno intero senza il minimo disagio. I generali arringavano le loro truppe: venivano ascoltati e non si stremavano affatto. […] Erodoto leggeva la sua storia ai popoli della Grecia riuniti all’aperto e tutto echeggiava di applausi. Oggi l’accademico che legge una memoria in un giorno di assemblea pubblica a malapena viene udito dal fondo della sala.34

Gli Antichi, infatti, parlavano «lingue favorevoli alla libertà: sono le lingue sonore, prosodiche, armoniose, il cui discorso si distingue d’assai lontano. Le nostre son fatte per le chiacchiere dei divani».35 La libertà consisteva proprio nel fatto che «la persuasione sostituiva la forza pubblica», ossia che le decisioni politiche potevano essere prese solo collegialmente dal popolo radunato «sulla pubblica piazza», così come avveniva nelle antiche repubbliche. È questo un argomento più volte ripreso nella riflessione politica di Rousseau, come si legge, per esempio, in un passo del Contratto sociale (1762):

Il corpo sovrano, non avendo altra forza oltre il potere legislativo, non agisce che per mezzo delle leggi; e non essendo le leggi che atti autentici della volontà generale, il corpo sovrano non potrebbe agire se non quando il popolo è adunato. Il popolo adunato, si dirà, che chimera! È una chimera oggi; ma tale non era duemila anni fa. Gli uomini hanno forse cambiato natura? I limiti del possibile, nelle cose morali, sono meno ristretti di quanto pensiamo: sono le nostre debolezze, i nostri vizi, i nostri pregiudizi che li restringono. Le anime basse non credono ai grandi uomini: vili schiavi sorridono con aria canzonatoria a questa parola libertà. Tenendo presente ciò che è stato fatto, consideriamo ciò che si può fare. Non parlerò delle antiche repubbliche della Grecia; ma la Repubblica romana, era, mi sembra, un grande Stato, e la città di Roma una grande città. […] Passavano poche settimane senza che il popolo romano non fosse adunato, e anche parecchie volte.36

Nel Contratto sociale Rousseau auspicava un ritorno dei popoli al pubblico esercizio della volontà generale, eppure, nel Saggio rilevava come le lingue moderne non fossero adatte a tale scopo. «Gli uomini hanno forse cambiato natura?», domandava nel Contratto sociale. Forse quella degli uomini no, ma di certo era cambiata la natura delle loro lingue. Del resto, che cosa sarebbe servito ai suoi tempi esercitare pubblicamente l’arte della persuasione? Probabilmente a nulla, perché da parte di chi detiene il potere

non si ha bisogno né d’arte né di figure retoriche per dire “quello è il mio piacere”. Quali discorsi restano dunque da fare al popolo riunito? Dei sermoni. E che importa a coloro che li fanno di persuadere il popolo dal momento che non è il popolo che fa le nomine per i benefici? Le lingue popolari ci son divenute inutili quanto l’eloquenza. Le società hanno assunto la loro ultima forma; non vi si cambia più nulla se non con cannoni e scudi, e, poiché non si ha più nulla da dire al popolo se non “pagate!”, lo si dice con i manifesti all’angolo delle strade o con i gendarmi alla porta. Non c’è bisogno di riunire nessuno per questo, al contrario bisogna mantenere i sudditi dispersi: è la prima massima della politica moderna.37

E così Rousseau concludeva sostenendo che «ogni lingua con la quale non sia possibile farsi intendere dal popolo riunito è una lingua servile: è impossibile che un popolo sia libero e parli una lingua simile».38

Questo, dunque, era il carattere della lingua dei popoli moderni. Dopo la rottura del legame con la musica, la perdita della capacità espressiva delle lingue aveva drasticamente ridotto la loro capacità di comunicare le passioni e le aveva pertanto rese inadeguate alla politica e alla difesa della libertà.39 Un tempo esse costituivano lo strumento essenziale di espressione della volontà durante le assemblee pubbliche, così come accadeva nell’antica Grecia, il luogo e il tempo nei quali l’umanità aveva raggiunto l’apice della civiltà. Tra le più sublimi vestigia di quel passato irrimediabilmente perduto ci resta il ricordo della lingua e della musica greca, delle quali, però, i nostri sensi sono condannati a ignorare appieno la bellezza.


Note

1 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue: dove si parla della melodia e dell’imitazione musicale, a cura di Paola Bora, Torino, Einaudi, 1989, p. 96.

2 A tal proposito si vedano C. Lévi·Strauss, Razza e storia ed altri saggi di antropologia, trad. it. a cura di P. Caruso, Torino, Einaudi, 1967, pp. 83-96; M. Duchet, Le origini dell’antropologia, 4 voll., Bari, Laterza, 1976, vol. III, cap. vii: L’antropologia di Rousseau, pp. 135-198; Id., Le partage des savoirs: discours historique, discours ethnologique, Paris, La découverte, 1984, pp. 192-219; J. Starobinski, La transparence et l’obstacle, suivi des Sept essais sur Rousseau, Paris, Gallimard, 1971, pp. 356-380; J. Derrida, Le cercle linguistique de Genève, in Id., Marges de la philosophie, Paris, Minuit, 1972, pp. 165-184.

3 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., p. 102.

4 Sulla querelle des bouffons cfr. E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, Torino, Einaudi, 1991, pp. 92-183; G. Lazarevich, Pergolesi and the “guerre des bouffons”, in F. Degrada (a cura di), Studi pergolesiani n. 2, Atti dell’International Pergolesi Conference (New York, 25-26 aprile 1986), Firenze, La Nuova Italia, 1988, pp. 155-203; A. Peroni, La musica del «Caffè», «Studi settecenteschi», XIX (n.s.), 1999, pp. 211-245; P. Vendrix, La Reine, le Roi et sa maîtresse: essai sur la représentation de la différence durant la querelle des bouffons, «Il saggiatore musicale: rivista semestrale di musicologia», V, 1998, 2, pp. 219-244; R. Wokler, Rousseau on Society, Music and Language: a historical interpretation of his early writings, New York-London, Garland, 1987, cap. iv: The Controversy with Rameau and the Genesis of the Essai sur l’origine des langues, pp. 235-378. La riproduzione anastatica di vari interventi della querelle, editi a Parigi e L’Aia fra il 1752 e il 1754, si trova in La querelle des bouffons: texte des pamphlets, avec introduction, commentaires et index par D. Launay, 3 voll., Genève, Minkoff reprint, 1973.

5 J.-J. Rousseau, Confessioni, trad. it. V. Sottile Scaduto, in Id., Opere, a cura di P. Rossi, Firenze, Sansoni, 1993, p. 965.

6 J.-B. D’Alembert, La libertà della musica, in E. Fubini (a cura di), Gli Illuministi e la musica: scritti scelti, Milano, Principato, 1969, p. 101.

7 Ivi, p. 94.

8 Così Rousseau ricordava con compiacimento la prima di Le devin du village: «Sin dalla prima scena […] sentii che nei palchi si sollevava un mormorio di sorpresa e di approvazione, mai sentito fino ad allora in questo genere di rappresentazioni. Il crescente fermento giunse al punto di essere notevole in tutto il teatro […]. Non si applaude alla presenza del re: questo fece sì che si sentisse tutto. Sentivo attorno a me un cicaleccio di donne che mi sembravano belle come angeli e che, tra loro, dicevano a mezza voce: “Questo è bello, questo è meraviglioso; non vi è una nota che non parli al cuore”. Il piacere di commuovere tante amabili persone mi commosse fino alle lacrime, e non potei trattenerle al primo duetto, osservando che non ero il solo a piangere» (J.-J. Rousseau, Confessioni, cit., p. 937).

9 Ivi, p. 965.

10 J.-J. Rousseau, Lettre sur la musique française, textes étabilis et annotés par O. Pot, in Id., Oeuvres complètes, édition publiée sous la direction de B. Gagnebin et M. Raymond, 5 voll.,Paris, Gallimard, 1959-95, vol. V, Écrits sur la musique, la langue et le théâtre, pp. 294 e 297, traduzione mia.

11 Ivi, p. 328.

12 Circa la datazione del Saggio, cfr. P. Bora, Introduzione, in J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., pp. viii-xxxiii; R. Wokler, Rousseau on society, music and language, cit., p. 301n, pp. 349-364; F. Zambelloni, Linguaggio musicale e linguaggio lirico in Rousseau, «Rivista di filosofia», LXV, 1974, 1, pp. 5-32, in particolare p. 7n.

13 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., pp. 16-7.

14 Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, a cura di L. Quatrocchi, Torino, Loescher, 1960.

15 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., p. 31.

16 Ivi, p. 47.

17 Montesquieu, Lo spirito delle leggi, trad. it. B. Boffito, prefazione di G. Macchia, introduzione, cronologia, bibliografia e commento di R. Derathe, 2 voll., Milano, Rizzoli, 1996, libri xiv-xvii, vol. I, pp. 385-439.

18 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., p. 51.

19 Ivi, p. 79.

20 Ivi, p. 80.

21 Ivi, p. 44.

22 Discorso preliminare, in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, trad. it. e note di P. Casini, Bari, Laterza, 1968, p. 52.

23 Rameau sosteneva il primato dell’armonia che trovava il proprio fondamento nel principio fisico della vibrazione del corps sonore, ossia di qualsiasi corpo che produca una vibrazione fondamentale e le sue armoniche. A partire da questo principio, potevano, secondo Rameau, essere matematicamente dedotti (con un procedimento che rivelava un debito dichiarato verso il “metodo”cartesiano) tutti i fenomeni concernenti la musica, compresa la stessa creatività artistica. Cfr. J.-Ph. Rameau, Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturels (1722), in The Complete Theoretical Writings of Jean-Philippe Rameau, edited by E.R. Jacobi, 6 voll., [s.l.], American Institute of Musicology, 1967-1972, vol. I, p. 3. Sul pensiero teorico di Rameau cfr. C. Girdlestone, Jean-Philippe Rameau: his life and his work, London, Cassell and Company, 1957; T. Christensen, Eighteenth-Century Science and The Corps Sonore: the scientific background to Rameau’s principle of harmony, «Journal of music theory», XXXI, 1987, 1, pp. 23-50.

24 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., p. 87.

25 Ivi, pp. 86-7.

26 Nel Discorso sulle scienze e le arti, Rousseau espresse la sua convinzione che lo sviluppo tecnico e culturale dell’umanità avesse avuto un influsso negativo: «Se le nostre scienze son vane nell’oggetto che si propongono, sono ancor più pericolose per gli effetti che producono. Nate nell’ozio, l’alimentano a loro volta» (J.-J. Rousseau, Discorso sulle scienze e le arti, trad. it. R. Mondolfo, in Id., Opere, cit., p. 10).

27 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., p. 96.

28 Ivi, p. 99. Platone criticò, in particolare nel libro III della Repubblica, la poesia e buona parte dei modi musicali antichi: cfr. Platone, La Repubblica, III, 398c-399e, trad. it. F. Sartori, in Id., Opere Complete, curatori vari, 9 voll., Roma-Bari, Laterza, 1993, vol. VI, pp. 110-111.

29 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., pp. 99-100.

30 Ivi, p. 100.

31 Ibidem.

32 Ivi, pp.101-2.

33 Ivi, p. 104.

34 Ivi, pp. 104-5. È interessante notare che anche Condillac aveva affermato che gli attori antichi riuscivano a farsi udire in spazi molto vasti. Tuttavia, attribuiva tale risultato alla loro tecnica declamatoria e all’uso delle maschere tragiche che amplificavano la voce. Ai suoi tempi, però, l’arte della recitazione era mutata: si costruivano teatri più piccoli e meglio illuminati poiché anche la mimica facciale era parte integrante dell’interpretazione. Cfr. Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane, cit., pp. 223-224.

35 J.-J. Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, cit., p. 104.

36 Id., Il contratto sociale, trad. it. e note di V. Gerratana, con un saggio introduttivo di R. Derathé, Torino, Einaudi, 1994, pp. 121-2.

37 Id., Saggio sull’origine delle lingue, cit., p. 104.

38 Ivi, pp. 105.

39 Sulla questione della libertà in Rousseau cfr. A. Loche, La società possibile: una lettura del Contrat social di Jean-Jacques Rousseau, Milano, FrancoAngeli, 2018, pp. 61-123.

«Le prime lingue furono canti e voci appassionate» – La nascita del linguaggio nel pensiero di Jean-Jacques Rousseau – di Alessandro Peroni

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