Un ritmo convulso, cadenzato su rapide mutazioni, scandisce il tempo di noi uomini del Terzo Millennio. Tutto sembra proiettarsi velocemente al domani, ricco e nuovo, dopo un assaggio dell’hodie. Così l’hic et nunc spariscono incalzati dal cras immediato, determinati come siamo dall’uso di tecnologia sempre più avanzata.

Ciò malgrado, trovare studiosi, emissioni televisive, convegni e testi che si soffermino con sacri crismi scientifici su indagini dell’evoluzione umana nel passato e passato remoto non è raro, anche in piena civiltà delle immagini. Anzi appare pasto prelibato per antropologi, filologi, sociologi e tanti altri “…ologi”. Il perché è da ricercare nel mistero quasi sacrale che come alone indistinto sfuma e allontana le nostre origini, ed anche nel desiderio di indagare nelle tradizioni più antiche per recuperarle e mantenerle in vita. Visto da questa angolatura potrebbe rappresentare la ricerca di un nutrimento vitale fin dall’inizio dell’esistenza umana.

I saperi vivono attraverso la storicità  e rappresentano la riproduzione del riflettere umano nel confronto millenario con gli eventi della natura.

Il nostro più antico antenato, messosi a fatica in posizione eretta riesce a sovrastare l’orizzonte della savana e a cacciare con minor difficoltà. Assimila un’esperienza, ne fa consuetudine, la esterna, la confronta e lascia così un’indicazione sulla via del sapere e del saper fare, comunicandola attraverso la suggestione profonda del recitare l’esperienza acquisita con il racconto, il proverbio, la conta, l’indovinello, lo scongiuro, la filastrocca , spesso accentuati dalla forza del ritmo o del canto. Chi narra produce avvertimenti, emozioni che rimanda a chi ascolta, a sua volta coinvolto in un confronto a specchio con il proprio sapere e sentire. Il legame tra chi recita e chi ascolta è quello di anelli agganciati l’un l’altro, a trasmettere una reciprocità coinvolgente.

L’uomo non è nato parlante come invece raccontano le sacre scritture. E non è neppure vero che la proliferazione delle lingue fu una punizione (…un’altra) del “creatore”.

Il produrre parola – master della comunicazione – è stata una conquista lenta, dipendente da trasformazioni fisiologiche, posturali, frutto di un complesso meccanismo anatomico. La gestualità, accompagnata da balbettii indistinti, fonemi abbozzati, versi informi, portarono l’uomo primitivo alla conquista della parola: soffio vitale della sua pura umanità. La paleoantropologia indica che intorno a 300.000 anni fa l’apparato di fonazione umano era in grado di modulare una considerevole quantità di suoni. Mi piace pensare che nel silenzio della sua caverna il primitivo provò ad imitare il suono che proveniva dal battito del suo cuore.

Nominare oggetti, cose, aspetti della natura, situazioni o sensazioni da parte dell’uomo è stato costruire il suo primo patrimonio culturale da condividere, per entrare nell’ambito dell’amicalità, dell’insulto, della difesa, dell’attacco, della celebrazione rituale, della comunicazione di piaceri o dolori. E’ soltanto allora, ma non sappiamo quando, che l’uomo ha iniziato a scambiare il suo sapere e saper fare con altri simili formando e facendosi partecipe di un cerchio magico, – meglio definirlo comunità – identificabile pian piano per idee, dottrine, pratiche, atteggiamenti, trasmessi di generazione in generazione in quel quadro di riferimento che ha consentito ad un popolo di distinguersi da un altro. La parola, quindi, come conquista umana carica di magia, emessa a creare coscienza di sé e a determinare e coordinare legami di vita. Da cui la sua sacralità: il senso di responsabilità di chi la pronuncia e di colui che l’ascolta per memorizzarla e trasmetterla a sua volta. Dimenticare il “raccontato” equivarrebbe a lasciare che un pezzo di sé venga disperso e mai più recuperato. Trattasi, dunque di un “legame” in qualche sorta magico. Se l’incontro di comunità diverse si trasforma in scontro, la parte più debole vedrà sgretolarsi il proprio “patrimonio culturale” e la sua identità rimarrà nella memoria di pochi per morire definitivamente con loro.

Cadono solo frantumi. L’annientamento impedisce il passaggio di informazioni, esperienze. Rientriamo nel senso da dare a questo scritto insistendo sulla considerazione che l’homo loquens cattura suoni e ne fa comunicazione all’interno di un gruppo con senso di circolarità: dire e ascoltare, emettere onde sonore capaci di nominare oggetti o sensazioni e recepirle ha il potere di appropriarsene. Farle sue. Sull’evoluzione strutturale del corpo umano s’innesta quella interiore e comunicativa e la si può definire – riassumendo – nascita sociale dell’uomo attraverso: linguaggio gestuale, linguaggio gestuale con suoni, articolazione di parole accompagnate da gesti adeguati tra individui che si comprendono: è la lunghissima infanzia nell’evoluzione del genere umano. La trasmissione di questa letteratura, poi definita popolare, si affermò lentamente e fu essenzialmente orale. Molto è andato ovviamente perduto. Proverbi, motti, detti, conte, filastrocche e racconti sono comunque in qualche modo pervenuti fino a noi, cui sembra quanto mai intrigante e affascinante mantenere in vita le tradizioni di quella lontanissima cultura andata di bocca in bocca attraverso melodie e parole. Parole che si aggregano e diventano insegnamenti, giochi, ammonimenti, scherzi, minacce, inviti, nelle varie civiltà che si vanno formando.

Fatta questa premessa – forse un po’lunga, ma troppo affascinante il tema – è bene considerare che i varii gruppi, tribù distribuiti sul pianeta che si andava pian piano popolando, si incontravano, si scontravano ed i più forti coartavano i più deboli. Le espressioni comunicative si arricchivano senza dubbio, e questo sistema non storico – ché non se ne ha notizia – si arricchì con la formazione di popolazioni più consistenti, che divennero civiltà nel corso dei millenni, affermate linguisticamente e riconoscibili.

Scontri, invasioni, battaglie, guerre e conquiste tra popolazioni linguisticamente diversificate hanno determinato arricchimenti e cambiamenti notevoli nei due scorsi millenni. Per semplificare di molto l’argomento partiamo da una civiltà di notevole importanza, quella di Roma – a sua volta influenzata dalla Grecia – I Romani conquistano la Gallia ed impongono il latino ai Celti. Non si tratta certamente della lingua classica. In guerra vanno soldati e mercanti che non si esprimono come Orazio, Cicerone o Tacito. Il loro latino è volgare e la lingua che ne uscirà sarà su questo che si formerà e su quel che resta evidente del loro precedente parlare. Così come avverrà per la lingua spagnola arricchita da quella araba. La lingua inglese mescolerà radici germaniche e norvegesi, influenze latine e francesi. L’origine della lingua tedesca appartiene ad una sottofamiglia delle lingue indoeuropee. La sua affermazione per arrivare al tedesco odierno ha dietro di sé un lungo processo. Il nostro italiano – come tutte le lingue romanze – deriva dal latino popolare cui si sono sovrapposte trasformazioni secolari dovute a mutamenti storico-politici caratterizzati da conquiste alternative del nostro territorio spezzettato e conteso, con al centro – sempre – lo Stato della Chiesa in cui si parlava il latino o latinorum.

Nel corso dei due millenni – precedenti l’attuale – si sono formate e rafforzate civiltà affermatesi nelle scienze, nella musica, nelle opere teatrali, nelle scoperte geografiche con scambi e prestiti di terminologie altre. Lo spagnolo e il portoghese, ad esempio sono penetrate nelle altre lingue europee con nomi di piante ed animali provenienti dal continente americano ed orientale, grazie alla politica di esplorazione e colonizzazione. Il tedesco si è americanizzato dopo il 1945 in ambito informatico, o della moda, o ancora per rapidità nella comunicazione. La lingua italiana entrò a pieno titolo nelle altre lingue europee – XVII e XVIII s. – in settori musicali o della commedia dell’arte, grazie al successo dell’una e altra arte all’italiana. La moda negli ambienti acculturati introdusse l’uso della lingua italiana anche nelle Corti (Vienna, Salisburgo, Dresda, in Russia con Pietro il Grande, in Spagna e Portogallo, ed in Inghilterra, soprattutto per il melodramma). Venne così riconosciuto l’italiano come mezzo di comunicazione principale dell’opera. C’è da aggiungere che i viaggiatori del “Grand Tour”, per ragioni culturali e turistiche, parlavano in quel che fu definito “italianised english”. Perfino la Francia – anche se non mancò una “querelle” tesa ad evidenziare la superiorità del loro idioma rispetto all’italiano – si piegò all’uso di andamenti musicali quali “Adagio”, “Andante”, “Presto”…

Si tratta di penetrazioni limitate nel tempo e in particolari settori; acquisizioni linguistiche entro ambienti sociali quasi per “moda”; terminologie riprese per peculiarità specifiche e limitate a determinati settori, non di certo di “trapianti linguistici”.

Stiamo vivendo il Terzo Millennio ed i giovani attuali sono chiamati Post- millennials. Insieme con loro il pianeta appare condizionato dal termine globalizzazione – termine apparso a partire dagli anni novanta nell’Enciclopedia Treccani: “unificazione dei mercati a livello mondiale, consentita dalla diffusione delle innovazioni della tecnologia informatica”. Come tale assegna un ruolo decisivo ai poteri economico-politici determinando una sorta di crisi identitaria con conseguente indebolimento di tante culture locali. Rimanendo nell’ambito del linguaggio sta venendo a mancare il numero degli idiomi parlati a beneficio della diffusione della lingua inglese, più precisamente inglese-americano con forte valore di mercato. Notevole risulta, pertanto, il legame tra linguaggio e tecnologia, come la formazione di neologismi nel lessico di numerose lingue in questo ambito. Il problema è che come coda incontrollata troppi termini anglo-americani sono entrati e continuano ad entrare nella nostra lingua – pur ricca di possibilità traduttive – privi di ogni attinenza con la tecnologia. Oltretutto pronunciati malamente o usati con significato completamente sbagliato. La causa è da attribuire a vezzo, ignoranza, atteggiamenti snob.

È naturale chiedersi: e il patrimonio distintivo e comune della nostra lingua? E la storia linguistica che garantisce indagini sociali, culturali, comportamentali? E la salvaguardia del tratto che rende riconoscibile l’essere umano proprio grazie alla lingua che meglio di ogni altra espressione fornisce conoscenze della propria civiltà, della sua mente, della sua funzione sociale? L’itanglese ci spalmerà tutti come lingua globale? Un’anglomania compulsiva, tipica di uno status symbol radical chic, anche quando le parole non mancano certo nella nostra variegata e ricca lingua, così assalita?

In conclusione si desidera chiosare riportando – con un sorriso – da “Il punto a cui non vorremmo arrivare” (diciamoloinitaliano.wordpress.com/2019/09/23) :

D’in sul top della old skyline,

passero single, alla campagna

twettando vai nella deadline del giorno;

ed erra il feeling per questa valle…”

(From: “Il passero single” by James G. Leopardi, translated by Zop)

L'”itanglese” ci spalmerà tutti come lingua globale? – di Fiorella Soldà

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