Quando sei partito
rimase un singhiozzo, rimase la parola del corpo
rimase un grande scoppio di riso da danza.
Tentammo di ricreare le tue feste, ma non fu lo stesso.

(Mazisi Kunene, La partenza di un grande cuore)

Leni Riefenstahl (1902-2003), Sarenco (1945-2017). Si può pensare a due vite, due ideologie, due anime più lontane? Lasciateci divertire, lasciatecele confrontare. La prima nacque da portentosi “genitori”; la Repubblica di Weimar (1918-’33) le fu madre: instabilità politica e sociale, certo, ma pure vivissimi stimoli, echi di saperi pagani impigliati dapprima nel folklore poi, quasi con prepotenza, riemersi grazie a movimenti giovanili come i coevi “Uccelli Migratori” i quali anelavano alla tradizione, di cui la Natura e i suoi miti sono elementi essenziali, e al contempo, sulla falsa riga di Isadora Duncan, inneggiavano alla danza libera, espressiva, attraverso cui dal movimento del corpo pareva trarre origine il moto stesso dell’universo. Per padre la nostra ebbe la seconda metà del Settecento quando “l’ideale astratto della bellezza umana si fondava sulla ritrovata consapevolezza della bellezza della scultura greca” (G. Mosse); essa si poteva ammirare nelle collezioni più famose ma soprattutto veniva promulgata dalle descrizioni, dagli studi (oggi superati) compiuti da Humbolt o Winckelmann: le sculture assunte da quest’ultimo a paradigmi erano figure di giovani atleti che nella struttura del corpo e del portamento assurgevano ad esempi di potenza e virilità, di armonia e proporzione. L’incarnazione della Bellezza, dunque, da ricercarsi nell’equilibrio, nell’immota cristallizzazione delle passioni. Madre e Padre “in spirito”, dunque. Visioni, patrimoni artistici che la Riefenstahl, forte di risorse tecniche praticamente illimitate per l’epoca, riversò nei discussi tre “canti filmici” (Il trionfo della volontà in special modo) sul Terzo Reich.

«Mi affascina tutto ciò che è bello» confessò la Riefenstahl, intervistata dai ‘Cahiers du Cinéma’ nel ’65. Sarenco, all’anagrafe Isaia Mabellini,seconda anima da noi rievocata, annuisce da lassù: occorre diventare messaggeri di Bellezza. Nondimeno l’irrequieto poeta visivo vobarnese ha voluto “cantarla” con altri strumenti: secondo lui l’Artista è, infatti, qualcuno che dà vita all’arte in tutto ciò che fa, in toni beffardi, eccedenti. Osservando una fra le dodici stampe fotografiche su legno realizzate fra il 1970 e 2016 intuiamo che in Mabellini l’Artista, anzi il Poeta, e il Matto dei Tarocchi (il ghignante “jester” di certe tele olandesi di metà Cinquecento) si fondono, divenendo la stessa persona pura: “il Matto” – scrive Jodorowski – “da le spalle al mondo ed ha il coraggio di avanzare verso la conoscenza e la sua figura suscita l’ilarità del popolo ma egli è indifferente alla derisione altrui derivante dalla sua diversità. Egli è l’eterno pellegrino che non è sopraffatto dalle passioni, senza legami, indifferente a ciò che lo circonda, distaccato dalle cose terrene e materiali ed affronta il viaggio verso mete irraggiungibili dagli altri”. Il collegamento con Il viaggio è la verità – Sillogismo per giovani generazioni, stampa su carta del 2004, viene spontaneo.

Proseguendo il “folle” confronto tra i due artisti, potremmo aggiungere che Sarenco, contemplando dalla cabina del suo “natante” oltre mezzo secolo di storia (non solo europea), seguì un’altra rotta rispetto a Leni Riefenstahl. In un primo tempo il pensiero di Gillo Dorfles “abitò” il nostro letteralmente: considerazioni, oggi anche più pungenti e necessarie, sulla plasmabilità dei “bisogni” del fruitore medio, sulle definizioni “masscult” e “midcult” coniate da Macdonald e riprese da Eco, sugli intrecci fra Arte e prodotto seriale ideato e propugnato dalle industrie, fra «consumismo e tecnocrazia» (eloquente sottotitolo del saggio Le oscillazioni del gusto, nella riedizione del ‘70). Del fraterno amico Joseph Beuys non seguì tanto il sentimento del sacro, nel segno di Steiner, quanto la convinzione che “l’osservatore non è un semplice fruitore o consumatore dell’opera, ma è parte dell’opera stessa nella misura in cui esercita in modo libero la propria fantasia e attinge dalla propria interiorità il pensiero, il messaggio che l’artista ha espresso attraverso l’opera, sia essa un dipinto o una azione” (Letizia Omodeo Salè). Si sfogò poi nella stessa “nursery” di Pierre Garnier, una stanza del diletto dove alle balie non era permesso entrare e, fra giochi di specchi di parole e di figure geometriche (si guardino, ad esempio, gli assemblaggi su carta Omaggio a Feuer-Bach del 2009 e Sconosciuto dell’anno dopo), nulla era mai fine a sé stesso ma sempre indirizzava al raggiungimento di un sapere, contestato o dimenticato. Di Jean Cocteau ammirò invece, pur non facendoli propri del tutto, il senso di tenerezza, la “scandalosa” tensione (o regressione) al Favoloso – così difficili da preservare quando il mondo li accerchia, li doma, li insozza – non ultimi, gli aforismi: “Il pubblico vuole che gli si spieghi la poesia. Ignora che la poesia è un mondo chiuso da dove si riceve pochissimo e da dove accade perfino di non ricevere nulla”… “Una cosa permessa non può essere pura”… “Si pensa che i realisti siano quei matti che riempiono i musei. Un museo è un obitorio. La sola possibilità che abbiamo di commuoverci è d’incontrarvi un amico. Un amico dietro il cadavere. Una bella tela è la testimonianza di una attività morta. In quelle corse estenuanti attraverso sale che puzzano di morte, i nostri passi si arrestano solo davanti alle opere singolari”… si legge ne Le mystère laïc (1928) del visionario di Maisons-Laffitte e, in qualche modo, su Più morta che natura (olio su tela; 2001) ci si abbandona ad un simile abbraccio di mestizia e divertito cinismo insieme.

Non ultima in termini di fascinazione e, arrischiamoci a ipotizzare, inconscia “imitazione” da parte di Sarenco, la tramontante “stagione africana” di Arthur Rimbaud: dopo vari viaggi, occupazioni (da marinaio a supervisore dei lavori a Cipro) e gravosi malanni il celebre poète maudit, appena ventiseienne, sbarcò nel 1880 al porto di Aden; lì aderì ad una società commerciale divenendone in seguito rappresentante ad Hārer Jugol ed è proprio nella parte orientale dell’altopiano etiopico che la giovane penna si scoprirà spedizioniere, quindi geografo, fotografo progettando, svuotato nelle tasche ancora una volta, di far soldi inviando in Europa e alla Société de Géographie in particolare, diari e scatti della propria “odissea” lungo regioni dove, amare parole, “lo straniero si sente ancora più straniero”. “Voce che grida nel silenzio”, scrive Isabella Mingo, “la corrispondenza africana di Rimbaud, a lungo ignorata, ricusata, rimossa, ci permette di ricostruire il senso di un percorso esistenziale intenso e travagliato”. Escludendo la stampa su tela Giudicavamo derisorie… Amavamo le pitture idiote… (1963/2014) nella quale Rimbaud viene esplicitamente citato, Sarenco “dialoga” a distanza, quasi sottovoce, con l’esperienza africana del poeta di Charleville, di cui ha condiviso il senso di consunzione, la dolente percezione di non esser più ben accetto in patria come anche “la selvatica nostalgia dell’anima” (Piero Jahier) placabile soltanto in Africa, continente mitico, misterioso, l’ultimo posto buono al mondo dove eroici, nudi corpi di uomini e donne, lievi come ali di farfalla potenti come colpi di revolver, si contrappongono ai “colori da falso bordello” dell’Occidente: ciò lo si evince dal “trittico” (2001) di assemblaggi su tavola Ma al ritorno l’oceano era pieno di grafite…,Solo, come un poeta,Non ci sono più luoghi dell’esilio? e in forma sicuramente più ironica, godereccia (ma non meno lucida) sull’incisione lignea Per la poligamia (2000).

La Poesia non ha dunque ucciso le star del video, come Sarenco si augurava nell’opera Poetry killed the video star (stampa su carta; 1998), gustosa parodia di una nota hit dei Buggles, né le guerre hanno conosciuto vittorie o sconfitte bensì indefinite, sanguinose (per molti proficue) reiterazioni e, con buona pace di Marinetti, il Denaro (“Money”) si è confermata la sola, vera igiene del mondo. Seppur con estetiche e scopi diversissimi, tanto in Sarenco quanto nella Riefenstahl si perpetra l’utopia del continente africano “come luogo conservatosi ancora originario e primigenio; dove il tempo si è inspiegabilmente fermato e dove i viaggiatori immaginano di scorgere l’età primitiva e incorrotta della terra, l’infanzia dell’umanità” (Francesco Surdich). Qui sta il punto d’incontro, unito al sotterraneo, comune desiderio di comparare le molteplici espressioni artistiche locali (sotto molti aspetti, a partire dalla decorazione rituale del volto, rimaste un enigma per entrambi) a quella classica europea. La differenza è che il vobarnese Mabellini mise piede in Africa quasi per caso, all’inizio del decennio Ottanta, in cerca di ispirazione, di silenzio, mentre la Riefenstahl già dalla fine degli anni ’50 cercò in Kenya gli esterni ideali per un film sugli schiavi, Carico nero, mai portato a termine. Nel ‘62, fulminata “sulla via della fotografia” da un’immagine di George Rodger, si trasferì nel Sudan meridionale e realizza degli splendidi reportage “etnologici” (documentari e fotografie) su alcuni popoli del ceppo Nuba. Essa tornò in Africa in diversi periodi e dopo molte controversie editoriali diede alle stampe Die Nuba von Kau (‘73), Die Nuba (‘76) e Men Afrika (‘82).

Se fosse ancora tra noi, Sarenco ci guarderebbe in tralice per questo confronto, esprimendo la stessa severa posizione dello studioso Pino Bertelli (le cui annotazioni hanno ispirato la parte conclusiva dell’articolo) a proposito della controversa artista tedesca ossia che “[…] la sua scrittura fotografica […] non contiene l’universo che attraversa l’abisso colonialista subìto da un popolo, è una fotografia incapace di sollecitare giudizi critici da parte del lettore, ma ne contorna o ne suscita una lettura dottrinale che rimanda a una modalità costruttiva fantasmata sulle ceneri della verità antropologica! […] I volti tristemente allegri o ritirati nella paura, sanguinano di singhiozzi, ma la fotografa li nasconde nella tecnica dell’emulazione pittorica e nemmeno bene… i gesti, i balli, le acconciature… non affondano nella preistoria come è stato detto, ma nel folclore un po’ raffinato che ne moltiplica il disagio a vivere”… eppure la mostra “La Platea dell’Umanità”, visitabile al CAMeC (Centro d’Arte Moderna e Contemporanea) della Spezia fino al 14 gennaio 2024, ci ha suggerito, aldilà di ogni pregiudizio, questo azzardato parallelo che costituisce, al tempo stesso, un invito a riscoprire Il sogno africano – Leni Riefenstahl in Sudan (2003), toccante docu-film di Ray Müller che cattura il ritorno di Leni a quel mondo, ormai non più isolato dalla Storia, trent’anni dopo. Vediamo la regista, allora 98enne, e il suo equipaggio affrontare più di un pericolo in un paese devastato dalla guerra, sopravvivendo a un attacco armato e persino al rovinoso atterraggio del loro elicottero. Alternando nel montaggio scatti e riprese delle spedizioni della Riefenstahl nei primi anni ‘70 con la realtà del presente, il lavoro di Müller documenta il declino di un popolo un tempo orgoglioso e il dolore della cineasta per la perdita di molti vecchi amici che conobbe in quello che considerò fino all’ultimo il periodo più felice (l’unico, forse) della sua vita.

P.S.: il presente scritto è stato portato all’attenzione di Oriano Mabellini, fratello di Isaia e presidente della “Fondazione Sarenco” (Via G. Natta, 20 – Cunettone di Salò, Brescia), in data 08 maggio ‘23. Per informazioni, scrivere a fondazionesarenco@libero.it.

«…tentammo di ricreare le tue feste, ma non fu lo stesso». La berlinese e il bresciano – di Giordano Giannini

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