Questo studio e i seguenti non vengono scritti per proporre una “summa” o un riassunto sui primi pittori Impressionisti, di cui sceglierò soltanto un ristretto numero.

Molto più semplice sarebbe stato ripercorrere la loro vita o descrivere alcuni quadri a scelta, ma tali riassunti si trovano su moltissimi libri, o perfino su siti ben conosciuti del sapere universale di cui è inutile fare il nome perché tutti li conoscono. Tuttavia, alcuni di loro rimarrà più utile descriverli attraverso la loro storia; altri, invece, come Manet, sono così complessi che a mio parere si può meglio descrivere i loro risultati artistici attraverso una riflessione più approfondita sulla loro personalità. Ritengo oltretutto che questi pittori in particolare si possano capire bene soltanto osservando ripetutamente i loro quadri, perché ognuno di noi in essi vi scorge qualche diversa sfumatura. Sono “Impressionisti”, come dice il loro stesso nome, e per questo motivo generano impressioni parzialmente diverse: è il significato che hanno voluto trasmettere ai loro quadri, ma anche quello che l’osservatore percepisce in maniera più o meno conscia. Per questi motivi, ho voluto dare un taglio da articolo personale, con citazioni da documenti utili, offrendo una mia riflessione sincera su di loro.

Inizio, come è giusto che sia, da Edouard Manet (23 gennaio 1832 – 30 aprile 1883), considerato il fondatore dell’arte moderna, in quanto per individuare una data di inizio di questa fase pittorica viene utilizzata convenzionalmente quella dell’esposizione al Salon di Parigi della sua grande tela “scandalosa” e ormai iconica Colazione sull’erba, nel 1863 (e la seguente dell’Olympia, nel 1865). Voglio sottolineare che la mia scelta è dettata da motivazioni storiche, non per stilare una lista di preferenza, in quanto i maggiori Impressionisti sono tutte personalità di grande valore, anche se Manet è un caso particolare. Come viene spesso detto non è un completo Impressionista; è un nodo di collegamento di questi ultimi con la corrente antecedente del Realismo, e dunque assai singolare per capire l’evoluzione pittorica di quegli anni. Ma in definitiva, per quanto abbia i suoi maestri e i suoi indirizzi, è un pittore assolutamente originale e fuori schema: lungi da me voler fare una lista di preferenza, ma non è un caso che Emile Zola lo abbia definito, a suo parere, “l’emblema più acuto, più interessante e più originale” dell’arte francese del tempo (ne “Il naturalismo al Salon”, 1880).

Si capisce benissimo, osservando i suoi quadri, quanto egli sia stato di ispirazione per i pittori dell’avanguardia parigina ottocentesca, come ben mostra la tela di H. Fantin-Latour del 1870, L’atelier delle Batignolles (fig. 1, quartiere dove si riunivano questi pittori, soprattutto al Café Guerbois, oggi sparito), dove un nutrito gruppo di importanti artisti e intellettuali osserva il maestro al cavalletto: fra gli illustri signori si riconoscono nientemeno che Renoir, Bazille, Zola, e, nella penombra all’estrema destra, Monet. Egli fu un artista proiettato nell’analisi approfondita del presente e, forse proprio per questo motivo, un anticipatore del futuro.

Fig. 1

Edouard Manet fu infatti, prima ancora che un artista, un uomo particolare: pur essendo estremamente umile, ebbe in vita quella certa gentilezza cortese da uomo maturo ma anche uno spirito giovanile spavaldo e indomito che a me ricorda un po’ i migliori protagonisti dei romanzi di avventura. La sua vita è stata un’avventura, infatti, fin da quando partì alla volta di Rio de Janeiro come allievo pilota nel 1848-1849, dove realizzò caricature dei suoi compagni di bordo. Il padre Auguste, capo del personale al ministero della giustizia, avrebbe voluto che lui intraprendesse studi in legge, ma a Manet non andava, e Auguste, sebbene non fosse d’accordo, gli permise altre strade. Provò quindi la carriera da marinaio, ma dopo il tirocinio del 1848-49, a luglio del 1849 fallì l’esame d’accesso alla scuola navale, e dunque decise di dedicarsi allo studio professionale della pittura: infatti, antecedentemente aveva già scorto la sua predisposizione al disegno, grazie allo zio Fournier che lo aveva accompagnato nella visita di molti musei e indotto a frequentare la scuola di disegno nel collegio che già frequentava. Nel 1850 divenne allievo di Thomas Couture per sei anni dove iniziarono le sue insofferenze verso la pittura “ufficiale” (evidentemente a lui non solo non andava di studiare legge, ma proprio era insofferente verso le regole). Questo è solo l’inizio della sua ormai famosa lotta, pluridecennale e drammatica, contro il Salon di Parigi e la critica della stampa parigina perché la sua pittura fosse accettata, e come abbiamo detto il 1863 risulta uno spartiacque fra la pittura ufficiale e la nuova pittura, più propensa alla sperimentazione. Egli, dopo decenni di difficili battaglie affinché la sua pittura fosse compresa e accettata nei circoli ufficiali, dovette infine ridurre le sue osservazioni della vita moderna di Parigi a causa di una atassia alla gamba sinistra, che anni dopo lo portò alla cancrena e infine all’amputazione della gamba e alla morte nel 1883, lasciando questo mondo come icona di “ribellione” artistica, quasi come se apparisse il protagonista-antagonista del libro d’avventura di Robert Louis Stevenson uscito nello stesso anno, L’isola del tesoro, il pirata immaginario con una gamba di legno, Long John Silver.

Per spiegare questo complesso pittore, ho scelto il termine “anticonformista” nel titolo, dopo una riflessione su altri aggettivi: “ribelle”, come è stato definito da molti, a mio avviso non gli si addice del tutto, perché egli fu persona molto semplice e leale (come lo definì Baudelaire) e mai volle fare altro che dipingere quello che voleva, la realtà; fu infatti il pittore di transizione fra la corrente realista (di cui è uno dei più illustri rappresentanti assieme a Courbet, Millet, Daumier… e Degas, poi in un prossimo studio spiegherò perché) e l’Impressionismo. Tali e diverse immagini della realtà le dipinse tutte con estrema naturalezza, e una nascosta vena di eleganza romantica del tutto personale, in quanto egli era comunque figlio del periodo romantico, ed è in quel periodo che vanno trovate le prime avvisaglie di un cambiamento epocale in pittura. Nel suo atteggiamento davvero testardo però si riconoscono anche alcuni atteggiamenti tipici del ribelle, come è palese da questa massima di Manet, trasmessa da Jeanniot: “Bisogna sempre restare il padrone, e fare quello che diverte. Niente compiti! Ah no, niente compiti!”.

Questo pittore ebbe “un’intera esistenza votata all’arte, con coraggio” (come affermò Zola nel 1880). Fu inoltre una personalità umile, gentile e molto elegante nei gesti e nelle azioni, dotata di un sano umorismo, come dimostrano le vignette caricaturali con cui egli iniziò a disegnare, e quelle dei seguenti anni (coincidenza casuale, anche Monet iniziò la sua carriera con le caricature); ma fu anche un temperamento forte, come scrisse Zola, talmente da fungere da padre (ma non da capo ufficiale, in quanto mai partecipò alle loro mostre particolari, pur essendo caldamente invitato, ed anche in questo fu anticonformista) di una corrente oggi considerata così importante come l’Impressionismo. In generale, nella sua pittura innovativa e nel suo atteggiamento, è vero che dette un grande aiuto per l’affermarsi di una nuova pittura, ma è anche vero che questo pittore voleva seguire il solco degli antichi (come dimostrano le copie che realizzò di dipinti di Velazquez, Tiziano, Delacroix e altri) con un’arte fresca e attenta alla realtà; dunque, porsi come il continuatore-innovatore (stilistico e tematico), non come un elemento di scandalo, e lo scrisse anche lui infatti: “È la sincerità ciò che conferisce alle opere un carattere che può sembrare una protesta, mentre in realtà il pittore ha cercato soltanto di esprimere la propria impressione… Non ha preteso né di rovesciare la tradizione, né di creare una pittura nuova. Ha voluto semplicemente essere sé stesso e non un altro.” Queste caratteristiche si vedono bene nei suoi quadri, tanto che Zola giustamente affermava che la “nuova lingua” di questo pittore era composta da “semplicità ed equilibrio”. Parole così giuste che calzano a pennello con quelle di Manet estratte da un articolo del citato Jeanniot ne “La Grende revue” del 10 agosto del 1907: “In arte, la concisione è necessità, significa eleganza. L’uomo conciso fa riflettere; l’uomo verboso annoia. Regolatevi sempre nel senso della concisione… In una figura, cercate la grande luce e la grande ombra [ciò indica bene le caratteristiche dei suoi quadri, immagini realizzate con rapide pennellate e fatte di contrasti di luce e ombra]; il resto verrà naturalmente; e spesso è assai poca cosa. E poi, coltivate la memoria; perché la natura non vi darà mai che informazioni. È come un parapetto, che vi impedisce di cadere nel banale.” I concetti che si possono estrapolare dai suoi documenti sono moltissimi, e sono sempre concisi e di grande saggezza, ma da molti suoi contemporanei egli fu giudicato addirittura un pazzo per le sue scelte stilistiche e tematiche del tutto estranee alle mode.

Va comunque considerato che Manet non nacque dal nulla: fu il principale elemento trasformante, il “naturale” (e in fondo, abbastanza prevedibile, visto il periodo e le premesse) imprevisto storico che doveva avvenire per rinnovare la pittura francese ottocentesca. Per far capire questo fatto, può essere utile come esempio il celebre pittore Corot, altro famoso artista parigino, ancora della corrente romantica, che è considerato il più grande paesaggista francese ottocentesco: egli è utile perché fa parte di quella ristretta cerchia di precursori dell’epoca moderna che già vedevano i limiti della pittura del suo tempo. Vari anni prima di Manet, infatti, inviava quasi sempre ai Salons le pitture con i temi che la critica avrebbe apprezzato, ovvero storici, mitologici, aulici e popolati di ninfe, mentre per sé realizzava altri dipinti che raffiguravano reali paesaggi rurali e marine, popolati di persone vere, o ritratti di persone normali, con quelle sue accanite ricerche sulla luce che ispirarono Monet (attraverso il suo vero maestro, Eugene Boudin). Corot, come Daubigny e gli altri pittori cosiddetti della scuola di Barbizon, fu inoltre tra i primi a capire che la pittura doveva essere eseguita en plein air per vedere le sfumature della luce: proprio le stesse idee degli Impressionisti, ma ancora alla sua epoca non avevano inventato i colori in tubetto, e dunque questo grandissimo maestro doveva suo malgrado completare faticosamente i paesaggi in studio, recandosi molte volte nello stesso posto per osservare un raggio di luce in un dato momento (Daubigny invece aveva un’ “atelier galleggiante”, una piccola barca grazie alla quale dipingeva en plein air). A Corot, è superfluo scriverlo, piaceva ovviamente dipingere la realtà, nei suoi ritratti di popolani e nella poesia romantica dei paesaggi visti nei suoi innumerevoli viaggi; ma era anche saggio e scaltro da non proporre i suoi dipinti più intimi al Salon ufficiale, per non incorrere in critiche, quasi sempre riempiendo quei suoi dipinti con elementi arcadici, biblici, o mitologici. Tutto questo atteggiamento non lo ebbe Manet, che andò spavaldo con spirito giovanile a combattere per gli ideali della nuova pittura realista al Salon ufficiale di Parigi, attraverso una pittura disinibita e svincolata dalle piacevolezze sublimi, auliche o pompose della borghesia di quell’epoca. Utilizzò luci accese per definire le masse dei corpi, e parecchio nero, proprio per creare i contrasti (il nero, un colore poco utilizzato dagli Impressionisti, eccetto Degas, suo grande amico, ma utilizzato invece molto dai realisti); inoltre, egli obbedì a quella “legge dei valori” come la chiamò Zola (nel 1867) che segue una “delicatissima esattezza dei rapporti tonali” che Zola stesso, nella scuola dell’epoca, individuava solo in questo autore, in Corot e in Courbet (non a caso, artisti importantissimi per la pittura dell’epoca, già citati). Con la sua vista limpida e svuotata di secondi fini, scelse per soggetto la vita reale, dedicando maggiore interesse ai personaggi dimenticati e dunque alle situazioni della vita comune, agli umili, ai poveri, alle prostitute, e anche ai cani, ai gatti e quant’altro, visti non come animali da esposizione, ma come individui con un loro temperamento degno di avere un ritratto, come quelli riservati in genere ai grandi signori. In questo sta lo scandalo Manet: dette, con candida umanità, interesse e dignità a tutti i soggetti o agli eventi mondani che più lo colpirono, senza nessun pregiudizio, senza nessuna voglia di seguire le mode e i costumi, senza veli. Per far ciò trasse più di qualche spunto da alcuni autori antichi come Velazquez che infatti dipingeva spesso nani e popolani, ubriachi e mendicanti, e infatti Manet fu chiamato all’inizio e al centro della sua carriera, e assai giustamente, il “nuovo Velazquez”, in quanto vi è una linea diretta indiscutibile fra questi autori di epoche molto diverse. Manet in quegli anni dipinse moltissimi quadri sulla Spagna, con ballerine spagnole come Lola di Valenza (fig. 2, del 1862, che tanto piaceva a Baudelaire), corride e toreador di ogni sorta (come Victorine Meurent in costume di espada, dello stesso anno, per esempio), e soprattutto popolani caratteristici, alla Velazquez.

Fig. 2

In quegli anni egli scrisse, infatti, in una lettera del 28 maggio 1865 a H. Fantin Latour, suo amico (dunque nel pieno della sua carriera pittorica), che quel pittore spagnolo valeva tutto il viaggio che lo aveva condotto a Madrid, e che era “il pittore dei pittori”. Tanta era la sua ammirazione per il sivigliano che gli volle dedicare un quadro, proprio nei primi anni della sua carriera, Velazquez nello studio, del 1860, e infatti copiò alcuni suoi dipinti (va detto che trasse qualche altra ispirazione minore anche da altri pittori di varie nazionalità, per esempio da Tiziano, da Goya, da Frans Hals, da Delacroix). In effetti, nei ritratti della fase iniziale o intermedia come Il suonatore di chitarra del 1860 (fig. 3), mi è sempre parso di leggere un Velazquez “fuori epoca” nel senso del tempo e dei modelli diversi perché di un tempo e di un luogo così differente come Parigi.

Fig. 3

I suoi personaggi hanno la stessa caratterizzazione psicologica e realistica, le sue pitture rispettano i caratteri di essenzialità ed eleganza, e perfino il pennello talvolta sembra, anche se soltanto a prima vista, molto simile. Ovviamente, con gli anni, Manet abbandonò questo tocco spagnoleggiante, e assunse i caratteri impressionisti che lui stesso aveva sviluppato, ma rimane sempre nei suoi ritratti quantomeno la caratterizzazione psicologica dei personaggi comuni propria anche del grande maestro seicentesco.

Per proseguire nella descrizione di questo artista, prima di indicare una serie dei suoi quadri, un buon modo è prendere a spunto altre parole di Emile Zola, uno dei suoi principali estimatori e difensori, tratte da vari suoi articoli1 (questo è l’articolo del 7 maggio 1866 su L’Evenement):

“Sono entrato una sola volta nell’atelier di Manet. L’artista è di statura media, piuttosto piccola che grande; biondo di capelli e di viso leggermente colorito, sembra avere una trentina d’anni [all’epoca ne aveva 34, infatti]; l’occhio vivo e intelligente, la bocca mobile, un po’ beffarda a momenti [ricordiamoci che all’inizio della sua carriera disegnava anche caricature, e probabilmente era divenuta ancora più beffarda in seguito alle critiche]; la faccia intera, irregolare ed espressiva, ha un non so quale espressione di grazia e di energia. Insomma, nei gesti e nella voce l’uomo ha la massima modestia e la massima dolcezza [la sua personalità si riflette a mio avviso perfettamente sui suoi dipinti]. Colui che la gente tratta come un imbrattatele beffeggiatore vive ritirato, in famiglia. È sposato e ha l’esistenza regolata di un borghese. Lavora d’altronde con accanimento, cercando sempre, studiando la natura, interrogandosi e andando per la sua strada”.

Manet, pur essendo energico, era dunque una persona molto modesta e dolce; tuttavia, i suoi dipinti, in particolar modo la Colazione sull’erba e l’Olympia (entrambi del 1863, ma esposti il primo in quell’anno, e il secondo al seguente Salon del 1865), generarono una reazione della critica così veemente che fu essa stessa a dare un taglio al passato. Questi capolavori sono pitture di svolta che mostravano prostitute: il primo (fig. 4) rappresentava uno sconveniente idillio borghese con uomini vestiti e una donna nuda, mentre il secondo (fig. 5, basato sulla Venere di Urbino di Tiziano da Manet copiata in gioventù, e forse anche dalla Maja desnuda di Goya e qualche altro nudo femminile, ma totalmente diversa da queste pitture), fu ritenuto così sconveniente da nasconderlo ad un’altezza tale quasi da non vederlo. Non piacque neanche la sua nuova pittura che tendeva ad appiattire lo sfondo e a creare macchie tramite schizzi di colore, senza quella attenzione al particolare tipica di altri autori, ma che preannunciava l’Impressionismo.

Fig. 4
Fig. 5

Tale bagarre proseguì con offese vere e proprie verso Manet a questi e agli altri suoi quadri, con tanto di vignette caricaturali per i suoi dipinti, articoli denigranti e molteplici rifiuti delle tele di questo maestro alle esposizioni ufficiali (è incredibile, per fare soltanto un esempio fra i molti, il fatto che il famoso Pifferaio sia stato rifiutato al Salon del 1866, fig. 6); tuttavia, si formò fortunatamente anche uno schieramento a sua volta avverso a quest’ultima corrente, composto per esempio da scrittori illustri come Zola, Baudelaire e Mallarmé, e da pittori come gli Impressionisti, o altri personaggi conosciuti come Théodore Duret, scrittore e commerciante di cognac, che videro giustamente le grandi qualità di questo pittore.

Fig. 6
Fig. 7

Edouard Manet fu infatti il pittore che all’epoca realizzò le aspirazioni dei maggiori intellettuali di quel tempo come Baudelaire, che avrebbero voluto vedere un’arte non solo concreta e obiettiva, ma anche e soprattutto percorsa da un’insolita vita nervosa, tendente ad un’analisi del contemporaneo nei suoi caratteri familiari o enigmatici, dei costumi, dei capricci delle persone, alla poesia della gente comune; dunque, un’arte sobria che mostrasse la realtà in tutte le sue sfaccettature e non la pittura cosiddetta storica, che mostrava i miti e gli avvenimenti del passato da un’ottica contemporanea, spesso con caratteri troppo pomposi (anche quando esteticamente bellissimi). Fra le pochissime soddisfazioni concesse dalla critica ufficiale a questo straordinario pittore, possono essere annoverate davvero poche tele, fra cui Il chitarrista spagnolo, che gli valse una menzione d’onore nel 1861, e Le Bon Bock nel 1873. Oggi siamo fortunatamente di avviso completamente diverso rispetto alla critica ufficiale contemporanea di Manet, e dunque, prima delle ormai iconiche Colazione sull’erba e Olympia, sono molti i quadri sicuramente molto importanti e da menzionare. Ne citerò alcuni più conosciuti ed altri meno, tralasciandone qualcuno molto famoso. Un quadro poco enfatizzato dalla critica, ma che ha un certo interesse, è Il ponte della nave del 1858, perché è il primo di una serie di dipinti sulle navi (porti, battaglie navali, ecc., come la bella Battaglia fra la Kersage e l’Alabama del 1864), coi quali probabilmente ricordava con nostalgia i propositi giovanili di fare il marinaio; segue l’ormai famoso Bevitore d’assenzio, che è il primo dipinto inviato al Salon ufficiale da Manet nel 1859 (fig. 7, che ho voluto mettere a fianco del Pifferaio per la postura simile), un po’ acerbo rispetto ad altri successivi, ma già assai originale di soggetto e di esecuzione, che fu rifiutato dal Salon e dileggiato da Couture (il maestro di Manet, col quale egli aveva già avuto aspre discussioni), e il Gamin con le ciliegie dello stesso anno, che raffigura un ragazzino che si suicidò e che rimase molto impresso a Manet. Di seguito, fra i quadri non menzionati, cito il bellissimo Ritratto dei genitori del 1860, il Gamin col cane del 1861, i caratteristici e originali soggetti Gitana con sigaretta e Gitano del 1862 (quest’ultimo, parte di un dipinto smembrato dallo stesso Manet); inoltre, il Ritratto di Madame Brunet, il complesso dipinto del Vecchio suonatore e astanti del 1862, e soprattutto la celebre Musica alle Tuileries datata 1862 (ma probabilmente già eseguita nel 1860, fig. 8), capolavoro nel quale, fra il non finito e con poche rifiniture di dettagli nello sfondo, compare un turbinio di gente di grande movimento che mostra un ritrovo a Parigi, fra cui si scorgono molti personaggi del tempo e Manet stesso, a sinistra. Anche quest’opera, esposta alla Galleria Martinet, era già considerata troppo originale di soggetto, raffigurando un evento quotidiano, e di esecuzione, essendo reso con chiazze di colore, e dunque già prima della Colazione sull’erba scandalizzò il pubblico.

Fig. 8

Va sottolineato per la fase iniziale (1850-1862), il fatto che egli, proprio come quasi tutti i grandi artisti, abbia fatto due viaggi in Italia per imparare dai grandi del passato, ed è venuto infatti ben due volte a Firenze (nel 1853, e nel 1857), dove ha copiato per esempio l’autoritratto di Filippino Lippi e una formella della cantoria del Duomo di Firenze di Luca della Robbia. Molti altri dipinti della prima fase e di quella centrale della pittura di Manet potrebbero essere elencati: sarebbe giusto perché quello è il periodo più interessante per capire le basi artistiche che formarono la sua arte, ma ovviamente posso soltanto esaminarne brevemente alcuni. Tuttavia, invito davvero a un viaggio nella bellezza delle opere di Manet, in quanto fin dai primi anni di pittura si vede bene il suo genio anticonformista e la sua grande attenzione in particolare ai ritratti e alle nature morte, come quella che compare in basso a sinistra nella Colazione sull’erba, o il mazzo di fiori della serva nel quadro Olympia, veri e propri dipinti nel dipinto, realizzati (soprattutto il secondo) con sapienti e veloci schizzi di colore, da vero capolavoro.

Manet fu inoltre “un’anima soleggiata” che ebbe “gaiezza comunicativa” come scrisse De Nittis nel 1895: infatti, se è vero che egli prese a spunto anche Goya per alcuni suoi quadri, come l’Esecuzione di Massimiliano del Messico, del 1867, che richiama le Fucilazioni del 3 maggio 1808 di Goya, egli ha un approccio a mio avviso quasi antitetico a questo autore, molto più simile al suo vero “maestro” Velazquez, in quanto non vi trovo mai, anche in quadri drammatici come questo (o in altri, come il Torero morto, o i quadri dei mendicanti, per esempio), nessuna volontà di rappresentare caratteri realmente negativi di ciò che dipingeva, ma semplicemente l’accettazione nuda e cruda della realtà, così com’è, al massimo con un po’ di velata malinconia, solo in taluni casi. Nessun intento moralistico o di condanna sottaciuta, dunque, ma un elegante specchio del reale, in tutti i suoi aspetti, con una certa ricerca della poesia. A breve, a tal proposito, parlerò di un altro quadro iconico del suo nutritissimo elenco di capolavori: il Bar alle Folies Bergere, che spiega bene questo fatto.

Tutto quel che è stato scritto finora coincide con quanto detto da Valery in una acuta osservazione nel Triomphe de Manet del 1932, “È forse per questo che il Realismo si attaccò tanto ardentemente a Manet. I naturalisti miravano a rappresentare la vita e tutte le cose umane tali e quali – proponimento e programma non privi di ingenuità -; ma il loro merito positivo mi sembra quello di aver trovato della poesia (o piuttosto apportato della poesia) e talvolta della qualità più alta, in oggetti o soggetti fino allora considerati ignobili o insignificanti. [… Egli fu] una natura innamorata dell’eleganza, penetrata intensamente dello spirito lieve di libertà che si respirava ancora a Parigi. In fatto di dottrine e di teorie, Manet, scettico e parigino svincolato da tutto, non credeva che alla bella pittura”. La realtà del quotidiano è, per esempio, un ritratto di cane, come quelli favolosi ma poco conosciuti di questo maestro (ricordato principalmente per gli elegantissimi gatti, come quello nella stessa tela dell’Olimpia): cani ritratti come se fossero un gran signore o una persona, con un proprio temperamento ben delineato, spesso sbarazzino oppure dolcissimo, come, per far solo un esempio, Follette, il cane dell’amico Cante, segretario di Proust, che è fra le sue ultime opere (è del 1882), poco noto al grande pubblico, ma che, a mio parere, è il suo ultimo piccolo capolavoro (cito anche il ritratto del cane Minnay, realizzato con tali schizzi di colore che potrebbe essere contemporaneo, del 1879, e quello, ancora più carino, di Douki che fa la “linguaccia”, del 1875). Nel mezzo fra le prime opere e queste ultime stanno moltissimi quadri di grande importanza: ne cito solo alcuni, fra i molti; ne manca sicuramente qualcuno importante, ma quando un pittore è così bravo e realizza quadri così differenti e originali, è difficile sceglierli.

Un quadro da citare è il Cristo morto e due angeli del 1864 (fig. 9, uno dei quali con originali ali blu), crudo e realistico, del quale pochi sanno che ha un collegamento col Cristo dei dolori di Andrea del Sarto qui a Firenze, al Cenacolo di San Salvi, che il maestro probabilmente vide anni addietro quando visitò la nostra città. Tale dipinto, nel quale c’è in effetti un errore (la piaga nel costato a sinistra anziché a destra), fu deriso dalla critica e dal pubblico, ma ebbe un apprezzamento, oltre che da Baudelaire, dal critico Thoré-Bürger. Egli, infatti, affermò che le eccentricità di Manet nascondevano un vero pittore, lodando i toni delle carni e scrivendo giustamente questa divertente riflessione che fa capire quanto Manet non fosse capito: “Quanto strane, quelle ali d’un altro mondo, colorate d’un azzurro più intenso dell’estremo limite del cielo! Gli uccelli della terra non hanno un simile piumaggio [si ricordi però che Manet era stato a Rio de Janeiro e di uccelli con colori variopinti ne aveva visti], ma può darsi che gli angeli, questi uccelli del cielo, portino tali colori; e il pubblico non ha il diritto di riderne, dal momento che non ha mai visto angeli… Di angeli e di colori, non bisogna discutere”.

Fig. 9

Dello stesso anno 1864 è il quadro già impressionista, anche questo un capolavoro, Corse dei cavalli a Longchamp (fig. 10), che segue una serie di studi, dove con pennellate vibranti riesce a dare l’idea della corsa frenetica dei cavalli. Inoltre, la Donna in rosa col pappagallo del 1866, esposta al Salon e ovviamente aspramente criticata per ragioni che oggi giudicheremmo del tutto insensate.

Fig. 10

Molto interessanti sono anche il Ritratto di Emile Zola, del 1867-1868, donatogli in segno di gratitudine, in cui si vede l’attenzione di Manet all’arte giapponese nella stampa sulla parete (arte giapponese da cui trasse qualche spunto), e quello di un altro suo amico, Theodore Duret, del 1868, dove vediamo la firma di Manet al contrario, un modo astuto per nascondere la sua identità e per provare ad ottenere critiche favorevoli. Fra i più bei dipinti ispirati chiaramente a Velazquez e ad altri pittori spagnoli, cito Il filosofo del 1865 perché è probabilmente il ritratto di Eugène, il fratello di Edouard. Cito anche due ritratti femminili, La lettura del 1868 (fig. 11) che ritrae sua moglie Suzanne Leenhoff assieme a Leon Koella Leenhoff, sullo sfondo, che legge (che è molto probabilmente il figlio di Manet, nato vari anni prima del matrimonio, ma fatto passare per tutta la vita come fratello minore di Suzanne), e il Ritratto di Berthe Morisot (Il riposo) del 1869, di grande eleganza, che è uno dei tanti che ritrae questa importante pittrice impressionista, con la quale il maestro ebbe molta complicità e stima.

Fig. 11

Vanno citate anche le sue moltissime nature morte, che ha realizzato nel corso di tutta la sua carriera, e che sono fra le poche cose che la critica del tempo considerava quasi unanimemente ben fatte; in fondo, vi è una spiegazione logica, in quanto con quelle egli non poteva in alcun modo suscitare scandalo, e dunque per la critica non era pericoloso in prospettiva lodarle. Scelgo di citare, fra di esse, il Mazzolino di violette e ventaglio del 1873, ma le altre non sono da meno. Vi sono molti altri dipinti che dovrebbero essere elencati, ma sono così tanti che diverrebbe un elenco troppo lungo e un po’ noioso, e per questo motivo scelgo di mostrare soltanto altri cinque capolavori dell’ultima fase. Il primo è Alla ferrovia del 1873 (fig. 12).

Fig. 12

Nello sfondo, osserviamo come il maestro parigino riesce a creare un’atmosfera realistica ed enigmatica, col vapore del treno che passa sulle rotaie, mentre la bambina guarda di spalle stupita da dietro le sbarre. Richardson suppone, quasi sicuramente a ragione, che Claude Monet sia stato mosso da quest’opera a dipingere tre anni dopo i suoi famosi e meravigliosi quadri sulla ferrovia di Saint-Lazare. Un altro particolare bellissimo è il tenero cagnolino che dorme serafico, meraviglioso. Per quest’ultimo noto invece una somiglianza col bel cagnolino (sveglio) di Velazquez nel Ritratto del principe Felipe Prospero del 1659. Anche questo quadro fu esposto al Salon del 1874 fra molte polemiche e gli furono tributate ignobili battute come quella a corredo della caricatura di Cham, che scrisse: “Queste infelici, vedendosi dipinte a quel modo, hanno tentato di fuggire, ma lui, previdente, ha piazzato un’inferriata, che ha loro impedito ogni ritirata”, ed anche, addirittura, un’altra didascalia offensiva mascherata da battuta, sempre di Cham: “In prigione, per aver mancato di rispetto al pubblico”. Queste sono soltanto alcune delle frasi denigratorie che il pittore dovette subire, per far capire che erano passati ben undici anni dalla Colazione sull’erba, e ancora critica e pubblico continuavano a umiliarlo, a considerarlo come un imbrattatele contrario alle regole e al decoro, e la situazione perdurò per molti anni ancora. Per fortuna Manet, come ho scritto, non aveva nessuna intenzione di smettere di dipingere, e aveva anche i suoi ammiratori, come Mallarmé, che scrisse un apprezzamento proprio per questo dipinto: “Stufo delle ricette dell’Accademia che aveva appreso sotto la direzione di Couture, avendo riconosciuto la vanità di tutto quello che gli avevano insegnato, Manet prese la decisione di non dipingere più del tutto o di dipingere pescando esclusivamente entro di sé”, e ancora più interessante è il seguente passo: “Ogni volta che egli affronta un quadro, ci dice, egli tuffa la testa in avanti, condividendo il sentimento che il metodo più sicuro, benché in apparenza pericoloso, per diventare un buon nuotatore, sia quello di gettarsi subito in acqua. […] Ogni opera deve essere una creazione inedita dello spirito. La mano, è pur vero, conserverà qualche segreto acquisito con la tecnica, ma l’occhio deve dimenticare tutto ciò che ha già visto altrove, e reimparare, a partire da quello che gli sta di fronte”. Ancora una volta, un altro parallelo col mare di questo maestro che avrebbe voluto fare il marinaio, quasi che i suoi sfondi liquidi, o le enigmatiche profondità come quella nascosta dal fumo del treno in questo quadro, non siano in realtà la rappresentazione della natura acquatica, misteriosa, e in perenne movimento, della realtà.

Un altro quadro interessante fra quelli finora non citati è proprio lo spontaneo Ritratto di Stephane Mallarmé del 1876, dipinto per ringraziare l’amico; quello della Donna con prugna sotto spirito del 1877 (che a mio avviso ha un che alla Degas), il Ritratto di Jeanne de Marsy del 1881, e il grande, ma più freddo, Ritratto dei coniugi Guillemet nella serra, del 1879. Particolarmente bello è il delicato incontro amoroso della Coppia al Père Lathuille (fig. 13, ancora una volta crea stupore sapere che anche questo dipinto, esposto al Salon del 1880, ebbe per lo più critiche ostili, ma ormai era una prassi a cui Manet era abituato). Sullo sfondo si vede il cameriere che osserva la coppia da lontano, contento di vedere l’affetto fra i due amanti.

Fig. 13

Una menzione particolare va anche ad alcune immagini di mare, come il Porto di Bordeaux del 1871 (fig. 14), molto articolato e realistico, nella miglior maniera dei grandi pittori di marine ottocenteschi ma reso alla maniera impressionista con sapienti linee veloci di colore, al Chiaro di luna sul porto di Boulogne-sur-mer del 1869, e al dipinto meno famoso ma molto suggestivo, Pescatori in mare del 1873.

Fig. 14

Tornando ai ritratti, va segnalata in questo periodo la famosa tela dalla protagonista molto simpatica, del 1877, Nanà (fig. 15) che raffigura la soubrette Henriette Hauser mentre si osserva civettuola allo specchio, e sulla destra uno sconosciuto che la osserva ammirato.

Fig. 15

Va infine menzionata un’opera tarda, che è quasi il testamento visivo del pittore; è il Bar delle Folies Bergère del 1881 (fig. 16, di cui esiste anche una versione di prova), dove in primo piano ci osserva una bella cameriera dietro a un bancone pieno di spumanti, birre, arance e quant’altro, sul cui sfondo appare una moltitudine di gente che si diverte. Un dipinto con mille particolari, resi senza interesse di definire qualsiasi cosa con minuzia, alla maniera impressionista. Ma in esso c’è qualcosa di strano: Manet, è il magico nodo fra il Realismo e l’Impressionismo, e qui si riconosce benissimo il suo genio.

Fig. 16

Guardiamo meglio questo magnifico dipinto: la sala sembra raffigurata così com’è, col bancone, la cameriera e tutte le persone sullo sfondo. Tuttavia, ben presto ci si accorge che lo sfondo è in realtà uno specchio, e quello specchio mostra qualcosa di differente, se lo si osserva con attenzione. Vediamo infatti riflessa la stessa cameriera che discorre con un uomo con baffi e cappello, che l’occhio percepisce subito, appena visto, come una dissonanza. Infatti, tornando a riosservare la ragazza in primo piano, ci accorgiamo meglio che ella non parla con nessuno e non ha nessuno davanti, eccetto noi: ella è muta e ha uno sguardo malinconico, come se si sentisse sola in mezzo a tutte quelle persone che trascorrono la serata in compagnia. Lo specchio dunque differisce dalla realtà. Questo quadro infatti rappresenta (probabilmente con una vena autobiografica, essendo Manet ormai anziano e anche un po’ triste per la malattia aggravata), la differenza fra esteriorità ed interiorità, e stabilisce che la realtà è sempre più complessa di ciò che sembra, perché esiste non solo l’esteriorità, ma anche, e soprattutto, la propria realtà interiore, che la ragazza accetta passivamente, con umiltà. Manet fu un indagatore, uno dei più grandi Sherlock Holmes che siano mai esistiti in pittura: forse, per fare un altro paragone letterario, non sembra davvero un caso che il destino gli abbia concesso di realizzare i disegni per la traduzione francese del libro Il corvo di Edgar Allan Poe, l’inventore stesso del genere giallo. Ancora una volta Manet si fonde con gli intellettuali e con gli artisti dell’epoca.

Si capisce inoltre molto bene perché Manet fu definito il “nuovo Velazquez”. Si collegano perfettamente alla pittura di Manet le parole molto belle di B. De Pantorba (Tutta la pittura del Velazquez, 1964), che parlava del pittore sivigliano come di un maestro del tutto immerso nella sua epoca ma allo stesso tempo classico come l’arte greca, per il suo “elevato piano di equilibrio, di sobria eleganza, di severa profondità, nel nome di quella bellezza che sgorga, come limpida acqua, dalla sorgente perenne della verità”. Equilibrio, eleganza, profondità, bellezza, verità: come abbiamo visto sono le stesse caratteristiche che i grandi pensatori dell’epoca vedevano in Edouard Manet.

Ho voluto dilungarmi, spero non troppo, in questa analisi su questo pittore davvero interessante dell’Ottocento. Dunque, se fu Claude Monet, come è noto, a dare il nome agli Impressionisti, col suo magico impasto di colori e luci Impression. Soleil levant del 1874 che causò un famoso articolo polemico di Louis Leroy (che la ritenne un’impressione, un dipinto incompleto), e gli Impressionisti sono un gruppo di straordinari pittori che dettero il via ad una straordinaria stagione artistica e a mille varianti-controvarianti ed evoluzioni dell’arte moderna, è anche vera nella sua semplicità l’affermazione di Emile Zola: “Manet fu il padre degli Impressionisti, Monet fu il capo”. Solo dal 1880 circa gli Impressionisti iniziarono ad essere accettati, ma Manet combatté in prima linea fin dal 1863 (anzi, dal 1859, col rifiutato Bevitore d’assenzio), assieme ai realisti e a qualche altro pittore come quelli di Barbizon, perché si facesse largo una pittura maggiormente attenta alla realtà, dai caratteri freschi e rinnovati. Ci voleva però un folto gruppo di artisti e letterati perché nei decenni avvenisse un rinnovamento pittorico: Manet, con la sua scoppiettante battaglia al Salon ufficiale (che lui considerava vero campo di battaglia), gli Impressionisti con le loro mostre particolari, e i grandi letterati dell’epoca e gli artisti che non vedevano con sdegno o derisione queste innovazioni, ma con vivo interesse; dunque, una squadra autorevole di grandi pensatori prima che artisti. Manet, con una certa amarezza, doveva lottare perfino sul finire della sua vita, criticando uno dei giornalisti che per un certo tempo lo aveva attaccato, Albert Wolff, “Non mi dispiacerebbe di poter leggere finalmente, mentre sono ancora vivo, il meraviglioso articolo che mi dedicherete non appena sarò morto”. Di lui Degas disse, quando egli morì, “Era più grande di quanto pensassimo”. Alla fine, anche i suoi detrattori hanno gettato la spugna, ovviamente soprattutto dopo che è morto, grazie ai molti amici di Manet che ne hanno rivendicato l’onore (fra cui va ricordato anche uno dei suoi più grandi amici fin da giovane, finora non menzionato, Antonin Proust). Fa un po’ tristezza sapere che questo artista non si è veramente goduto il meritato successo, ma purtroppo succede spesso ai grandi geni, quelli che preannunciano il futuro. Sicuramente lo avrebbe meritato: i quadri di Manet riflettono meglio di altri pittori la realtà della vita di tutti noi, fatta di mille battaglie e della dignità della vita comune. Se ciò che disse Baudelaire in merito a quadri come quelli di Manet è vero, ovvero che essi sono l’espressione dell’eroismo della vita moderna e della gente comune, anche egli stesso è divenuto l’arte che proponeva. Il più grande ribelle, se così si vuol chiamare, ci insegna l’esperienza di Manet, è quello che nella nostra società riesce a rimanere “sé stesso e non un altro”, che ragiona per conto proprio nel rispetto degli altri; e il più grande artista è quello che rispetta quella frase del filosofo Bernardo di Chartres del lontano XII secolo, “Siamo nani sulle spalle di giganti”, frase bellissima di un bellissimo secolo, che ci fa capire non solo che siamo sulle orme dei grandi del passato, ma anche che non dobbiamo farci comodamente trasportare da esso e seguire le leggi, ma migliorarle, ovvero accogliere l’aiuto dei grandi per salire sulle loro spalle e vedere qualcosa di più all’orizzonte, noi che siamo nani al loro confronto. Insomma, Manet fu un uomo più che un’artista, che cercò di combattere con le armi che aveva per fare del suo meglio in un mondo che era certamente molto più pazzo di lui nel suo autocompiacimento, e senza accorgersene imprigionato dalle sue stesse leggi.

Manet ebbe la fortuna di avere non solo una vista e una mano sublimi, ma ancor più una testardaggine invidiabile e l’apprezzamento di alcuni dei maggiori pensatori e degli artisti più innovativi dell’epoca, la loro ammirazione e la loro amicizia. Tralasciando l’aspetto storico delle innovazioni pittoriche che egli promosse assieme agli Impressionisti e la sua capacità pittorica non comune (perfino un suo detrattore, Mantz, scrisse di lui, già nel 1863, che era “entrato col suo valore istintivo nel dominio dell’impossibile”, in quanto ci sono particolari irripetibili nei suoi dipinti), se non avesse avuto queste caratteristiche appena elencate, di lui oggi parleremmo come di una stranezza, di un pittore dalle sregolatezze “giovanili”, audace e forse anche di un certo interesse, ma a tratti acerbo, o perfino, se le antipatie da quell’epoca non fossero cambiate, di un folle sregolato e di un imbrattatele, di cui si sarebbero apostrofati e scherniti particolari come le originali e bellissime ali dell’angelo blu nella tela citata del 1864. Insomma, tutte cose false, ma la critica può (anche senza malizia o invidia, ma per predisposizione estetica, superbia o semplicemente per rendersi conforme e guadagnare furbescamente consensi), generare queste false impressioni su un artista. Edouard Manet, lo si vede anche dalle pitture più giovanili, era già all’epoca un pittore avanti ad altri, perché aveva un intelletto più libero dalle convenzioni, un animo gentile, una vista più profonda, e sapendolo, per questo motivo andava cocciutamente e con umiltà per la sua strada.

“Non ha preteso né di rovesciare la tradizione, né di creare una pittura nuova”, scrisse egli stesso in sua difesa (come si è già scritto prima), ed è verissimo. Infatti, Edouard Manet è un classico della pittura, tale e quale a Raffaello, Leonardo, Velazquez, Caravaggio, Constable, Corot, Monet, per fare solo degli esempi, e molto più addietro per fare altri esempi a casaccio, come il classico Apelle, come Giotto, come Masaccio e come centinaia di altri astri dell’arte di ogni tempo che piano piano hanno formato un caleidoscopio di emozioni, che ci fanno capire che, a dispetto delle guerre e delle cattiverie di questa nostra società, anche l’essere umano può essere capace di grandi cose. Tutti loro vanno analizzati nel loro tempo per capirli davvero bene, ma hanno un che di assoluto che attinge da qualcosa di alto e profondo. Se Manet si fosse fermato, avvilito dalle offese denigranti dei suoi critici detrattori (e della gente comune condizionata dalle mode e da loro), la cecità di questi ultimi avrebbe avuto vittoria; ma la natura opera sempre con giudizio, e allo straordinario pennello di Manet furono date le ali dei molti amici che ho soltanto parzialmente elencato in questo testo (ciò fa riflettere sul valore dell’amicizia), e soprattutto uno sguardo di aquila col quale indagò la società e la traspose nei suoi bellissimi dipinti. Se è vero che ebbe poche soddisfazioni per il suo lavoro dalla critica ufficiale, è altrettanto vero che ne ebbe moltissime dalla sua pittura, e che, senza quasi accorgersene, con la sua volontà di non piegarsi alle mode per rappresentare la realtà, è stato un punto di svolta epocale per l’arte. Sono convinto che fece tesoro delle piccole grandi soddisfazioni che ebbe nella vita comune di tutti i giorni, perché i suoi quadri riflettono una serenità d’animo, quando un individuo diverso, meno forte, vi avrebbe scaricato la sua acredine, o avrebbe smesso. Egli, pur avvilito dalle critiche, non se ne curò davvero più di tanto, andando per la sua strada, e questo è un insegnamento a non abbattersi, e a seguire i propri ideali, con umiltà e rispetto nei confronti degli altri, ma anche di sé.

Quella di Edouard Manet è dunque una bella storia da romanzo, da raccontare anche oggi per ricordarsi un fine molto semplice dell’arte e della vita, quello di essere noi stessi, che è così importante ma anche paradossalmente assai arduo da ottenere in questa società umana sempre più bombardata da mille sollecitazioni esterne.


1 Questi si possono leggere in Emile Zola, Saggi sul naturalismo nell’arte, Roma 1993, che contiene molti suoi articoli dedicati a Manet e al realismo. Ovviamente gli altri articoli di altri scrittori non sono inseriti in quel libro.


Per una bibliografia approfondita sugli Impressionisti rimando al libro di John Rewald, “La storia dell’Impressionismo. Rievocazione di un’epoca”, Milano 1976, quarta ed. riveduta. Essa contiene molti dei testi da me utilizzati.
Fra i testi successivi, si veda anche: “Manet 1832-1883. Catalogo delle mostre al Grand Palais e al Metropolitan Museum of Art”, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1983.

“Impressioni” su alcuni dei primi impressionisti – Edouard Manet, l’anticonformista – di Fabrizio Bianchi

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