Tra i testi di Torquato Tasso c’è una canzone minore, anche conosciuta come Al Metauro, che a detta mia offre interessanti possibilità per un’applicazione propedeutica efficace, nella misura in cui essa permette di avvicinarsi con una certa immediatezza al poeta, e più precisamente alla sua biografia e al suo mondo interiore, in quanto la canzone è in effetti una «canzone autobiografica». Ma andiamo per gradi e cominciamo dalla lettera del testo, postillata nei punti più ostici con alcune note chiarificatrici poste a piè di pagina.

***

O del grand’Appennino

Figlio picciolo sì, ma glorïoso,

E di nome più chiaro [1] assai che d’onde!

Fugace peregrino

A queste tue cortesi amiche sponde

Per sicurezza vengo e riposo.

L’alta Quercia che tu bagni e feconde

Con dolcissimi umori [2], ond’ella spiega [3]

I rami sì ch’i monti e i mari ingombra,

Mi ricopra con l’ombra;

L’ombra sacra, ospital, ch’altrui [4] non niega

Al suo fresco gentil riposo e sede,

Entro al più denso [5] mi raccoglia e chiuda,

Sì ch’io celato sia da quella cruda

E cieca Dea, ch’è cieca e pur mi vede,

Bench’io da lei m’appiatti [6] in monte o ’n valle,

E per solingo calle [7]

Notturno io mova e sconosciuto il piede;

E mi saetta [8] sì che ne’ miei mali

Mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali [9].

Ohimè! dal dì che pria [10]

Trassi l’aure vitali, e i lumi [11] apersi

In questa luce a me non mai serena,

Fui de l’ingiusta e ria

Trastullo e segno [12], e di sua man soffersi

Piaghe che lunga età risalda appena.

Sàssel [13] la glorïosa alma sirena [14],

Appresso il cui sepolcro ebbi la cuna [15]:

Così avuto v’avessi o tomba o fossa

A la prima percossa!

Me dal sen de la madre empia fortuna

Pargoletto divelse. Ah! di quel baci,

Ch’ella bagnò di lagrime dolenti,

Con sospir mi rimembra e de gli ardenti

Preghi [16] che se ’n portâr l’aure fugaci:

Ch’io giunger non dovea più volto a volto

Fra quelle braccia accolto

Con nodi così stretti e sì tenaci.

Lasso [17]! e seguii con mal sicure piante [18],

Qual Ascanio o Camilla, il padre errante.

In aspro esiglio e ’n dura

Povertà crebbi in quei sì mesti errori [19];

Intempestivo [20] senso ebbi a gli affanni,

Ch’anzi [21] stagion matura,

L’acerbità de’ casi e de’ dolori

In me rendè l’acerbità de gli anni.

L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni

Narrerò tutti? Or che non sono io tanto

Ricco de’ propri guai, che basti solo

Per materia di duolo?

Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?

Già scarsi al mio voler sono i sospiri;

E queste due d’umor sì larghe vene

Non agguaglian le lagrime a le pene.

Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,

Egro e morto ti piansi, e ben tu il [22] sai;

E gemendo scaldai

La tomba e il letto: or che ne gli alti giri [23]

Tu godi, a te si deve onor, non lutto;

A me versato il mio dolor sia tutto.

***

In apertura, Tasso si rivolge al fiume Metauro, raccontandogli d’essere in cerca di rifugio nei pressi delle sue sponde, e in particolare sotto una «alta Quercia» che il fiume bagna e nutre. Per comprendere appieno la natura dell’albero è necessario essere in possesso di un’importante informazione contestuale: la quercia è lo stemma della casata dei Della Rovere, signori di Urbino; signori che, al tempo, stavano ospitando Tasso. A Ferrara, il poeta aveva avuto dei dissidi con il duca Alfonso d’Este, i quali avevano portato a una breve incarcerazione. Riacquistata la libertà, Tasso aveva pensato di domandare l’appoggio dei Della Rovere, presso i quali sperava di trovare conforto. Gran parte della prima strofa, dunque, si svolge all’insegna dell’encomio, pur dandoci già occasione di toccare quei punti biografici che, all’altezza della stesura del testo, fanno parte della contingenza.

Dalla fine della prima strofa e per tutto il resto del componimento, però, l’encomio viene abbandonato, e il poeta si occupa di cantare il proprio dolore. Così facendo, racconta di fatto il proprio passato, il proprio presente e il proprio futuro, nella misura in cui svela le ombre che lo perseguitano, gli affanni che lo affliggono e le speranze che lo animano.

Cominciamo dal passato. Tasso confessa di sentirsi bersaglio della dea Fortuna sin dalla nascita, poiché la sua vita è sempre stata sventurata: si è dovuto allontanare dall’amata madre, poi deceduta; ha dovuto seguire un «padre errante», senza avere la possibilità di mettere radici; è stato esposto al dolore anzitempo, quando ancora non aveva la maturità sufficiente per affrontarlo; infine, ha dovuto piangere anche la perdita del padre, che ora – dice – lo osserva dall’alto.

Viene poi il presente. Tasso cerca, nei Della Rovere e in particolare nel duca Francesco Maria II, quella tranquillità e quel conforto che la vita non gli ha mai concesso. Cerca un’ombra «ospital», attende di essere “raccolto e chiuso” nell’abbraccio protettivo di un amico, nelle fronde di una pianta che forse lo nasconderà dalle frecce della Fortuna. L’autore della Liberata, in realtà, è già chiuso su sé stesso, completamente rivolto verso il proprio mondo interiore: non c’è spazio per il dolore altrui; ce n’è soltanto per il conforto. «Già scarsi al mio voler sono i sospiri», dice il Tasso: sente di non aver sospiri sufficienti per estrinsecare ed esorcizzare il proprio dolore, sente di dover veicolare tutta la propria volontà verso la propria sofferenza; così, dunque, chiede lapidariamente: «a me versato il mio dolor sia tutto».

Il futuro, infine. Tasso chiede «sicurezza» e «riposo», chiede una tregua al destino e ai suoi imprevedibili piani. Questo è il trampolino di lancio per un nuovo viaggio attraverso la biografia del poeta, che avrebbe deciso di tornare a Ferrara e che, a causa di nuovi dissidi con i Duchi, sarebbe stato rinchiuso nell’istituto di Sant’Anna per diversi anni. Questa permanenza, a sua volta, non è che l’inizio di un susseguirsi di avvenimenti fondamentali, in specie letterari: proprio in questo periodo sarà pubblicata la grande Gerusalemme liberata, e proprio in questo periodo comincerà il lavorio che porterà alla sorella minore – artisticamente, s’intende – del grande poema, ovverosia la Gerusalemme conquistata.

Si chiude così la breve ricognizione della vita e dell’animo del grande scrittore cinquecentesco, la cui essenza, ad ogni modo, nessun testo potrà mai contenere per intero.


Note

[1]   illustre

[2]   acque

[3]   grazie a cui essa espande

[4]   ad altri

[5]   laddove la pianta è più fitta

[6]   mi nasconda

[7]   solitario percorso

[8]   trafigge

[9]   frecce

[10]   per primo

[11]   occhi

[12]   bersaglio

[13]   lo sa

[14]   Partenope, figura mitica che si credeva essere sepolta a Napoli

[15]   culla

[16]   preghiere

[17]   povero, sciagurato

[18]   piedi

[19]   vagabondaggi

[20]   inopportuno

[21]   prima di

[22]   lo

[23]   nei cerchi del Paradiso


Fonti: (1) il testo della poesia è stato tratto da https://it.wikisource.org/wiki/O_del_grand%27Appennino ed è distribuito sotto la licenza CC BY-SA 4.0 Deed (cfr. https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0/deed.it). Al v. 42 «quel» è stato corretto con «quei». Inoltre, alcune convenzioni grafiche sono state attualizzate; (2) Il canone letterario. La letteratura italiana nella tradizione europea, a cura di H. Grosser, M. C. Grandi, G. Pontiggia, M. Ubezio, vol. I, Torino, Principato, 2010, pp. 1080-82.

Una canzone per conoscere Tasso – di Gabriele Chierici

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