Primario gastroenterologo emerito
Specialista in Chirurgia Generale, Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva

A sentir parlare di dieta mediterranea, alcuni nostri connazionali si riempiono d’orgoglio, l’essere al centro del Mediterraneo li porta a identificare questa dieta con un presunto modello … italico (in modo ancor più sbrigativo, con il proprio). Sperando di non urtare la loro suscettibilità, proviamo ad avere una visione più distaccata, sia in senso culturale che scientifico.

Nel secolo scorso, a … scoperchiare la pentola furono due americani: Ancel Keys e Walter Willett. Prima di loro, a nessuno studioso … mediterraneo era venuto in mente di magnificare ciò che le nostre nonne mettevano nel piatto. Va precisato che gli studi erano partiti da Creta e dal modello greco osservando l’epidemiologia: quelle comunità presentavano minor rischio di malattia coronarica, diabete, tumori, vivendo in media 4 anni più degli americani nonostante un’assistenza sanitaria peggiore. Nel 1992, ispirandosi a quegli studi, era stato il Dipartimento Agricoltura degli USA a varare la “piramide alimentare”.


Willett impose le prime correzioni aumentando il peso di frutta e verdura, legumi, cereali integrali, pesce e olio d’oliva. Successivi aggiornamenti portarono a distinguere le dannose margarine, a ridurre i cereali non integrali e i carboidrati in genere. Quelli raffinati, assieme ai dolci, relegati alla punta della piramide. Seguirono distinzioni tra proteine vegetali e animali. Nel 2011, il cosiddetto piatto di Harward era composto per oltre metà da verdura e frutta mentre erano calate le proteine. Tuttora persistono dubbi sui latticini, che stimolano le somatomedine o IGF, i fattori di crescita preziosi fino alla pubertà, ma arma a doppio taglio nell’adulto-anziano in quanto anabolizzanti, protettori di organi e apparati ma potenziali elementi di stimolo neoplastico.


Ancel Keys, a noi tanto caro, era da tempo venuto a vivere, studiare e … nutrirsi nel nostro Cilento, elogiando i frutti della nostra terra e del nostro mare. Dettaglio non secondario, l’importanza dell’attività fisica all’aria aperta. Ma il tema della dieta mediterranea è più variegato di quanto si pensi. Cominciamo con l’osservare che sul Mediterraneo si affacciano una ventina di popoli, dal fronte magrebino a quello libico-egiziano, dal medioriente al ponte anatolico-balcanico, dalla conca adriatica all’arco latino: Spagna, Francia, Italia.


Culture diverse, nobili e antiche tradizioni compresa quella alimentare. Tante varianti, ma in nessun altro popolo mediterraneo c’è traccia di quel che noi chiamiamo “primo piatto”, indiscutibile secondo molti italioti. Nel mio piccolo, mi scuso per la digressione personale, vi confermo che in una cinquantina di nazioni di quattro continenti non ho mai trovato traccia di “primo piatto”, pur essendo pasta o riso conosciuti ovunque.

Certo, in un lontano momento storico, l’invenzione delle nostre nonne aveva un senso: il cibo scarseggiava, tanti figli da sfamare, provavano a riempir loro la pancia con un malloppo di amidi, a portata di mano e di tasca, anche perché spesso si cominciava e si finiva così, non cera nient’altro. Ma il nocciolo non sono usi e costumi, è la composizione dell’alimento base: carboidrati.


Nessuno studioso serio ha mai consigliato spaghetti o fettuccine. Willet, Keys, Barry Sears o il nostro Valter Longo con la sua dieta mima-digiuno, per citare i più famosi, non si sono mai sognati di far iniziare un pasto ingurgitando 80-100 grammi di pastasciutta (+ condimento), sotto forma di amidi ma pur sempre 320 – 370 kcal in carboidrati, quasi venti cucchiaini o bustine di zucchero del bar. Senza contare l’inizio mattinata tra cornetto, corn flakes e quant’altro. Nulla a che vedere con la dieta mediterranea, come forse vorrebbero credere alcuni affezionati alle loro dolci abitudini, dure a morire. I carboidrati della dieta mediterranea sono forniti da verdura e frutta, ortaggi e legumi.

Paradossalmente, quelle … dolci abitudini aumentano l’appetito, e il continuo sforamento della soglia di carboidrati innesca la spirale dell’insulinoresistenza. Che roba è? Nel corso degli anni, si fiacca la capacità pancreatica di utilizzare lo zucchero, la glicemia passa da borderline a stabilmente elevata. Un pancreas perennemente sotto stress porta subdolamente alla sindrome metabolica, emblema del mondo occidentale: sovrappeso, ipertensione, fegato grasso, dislipidemia, arteriosclerosi. Nella donna, anche ovaio policistico.


Willett e compagni hanno insistito sulla policroma gamma dei vegetali: mezzo chilo al giorno di frutta e verdura (non come … contorno), semi e frutta secca. Tante fibre, vitamine, minerali. E il magico apporto in omega 3, utili in sessanta patologie. Noci, semi di lino e pesce, questo sì, del mediterraneo, con pochi residui di metalli pesanti rispetto a quello di grossa stazza dei mari freddi.


Ma i benefici dei vegetali sono tanti: riempiono lo stomaco anticipando il senso di sazietà, proteggono dal cancro, aiutano la digestione, diluiscono gli zuccheri evitando brusche impennate d’insulina. Lo zucchero di una bibita produce uno sbalzo glicemico più forte rispetto alla stessa dose presente nella frutta fresca. Cosa fa la differenza? Le fibre. Certo, nella frutta non c’è solo il fruttosio o levulosio che dir si voglia. Attenti agli altri zuccheri, specie dei fichi maturi, uva, ananas, banane, massimamente i datteri. Perfetta la frutta con pectina come la mela, che leva il medico di torno.


Un frutto speciale è l’avocado, ricco di acidi grassi monoinsaturi, antiossidanti e vitamine tra cui la E. Come l’olio d’oliva. Perfino un bel po’ di proteine, quasi un cibo completo, oltre che salutare. Altri frutti tropicali non hanno gli stessi requisiti: mango, papaya, maracuja (il frutto della passione), somigliano alla frutta nostrana.

Sulla tanto sbandierata quota del 55-60% in carboidrati, crescono i dubbi: mai dimostrate le basi scientifiche se non per certi atleti, non certo per il sedentario italiano medio. La Campania vanta il triste primato dell’obesità infantile. Sempre più studiosi suggeriscono un apporto inferiore rispetto ad abitudini superate dai tempi. Non scienziati integralisti, ma il superaccreditato Barry Sears.


I carboidrati consigliati sono in percentuali decisamente inferiori, con sottoclassi che sarebbe lungo menzionare, supportate da dimostrazioni biochimiche.

Qualche dubbio può sorgere sui legumi. Per quanto ricchi di antiossidanti, fibre e proteine – ovviamente vegetali – contengono fastidiosi antinutrienti (fitati, saponine, ossalati, tannino) e un bel po’ di carboidrati. I più intransigenti hanno finito per osteggiare anche quelli, ma se le quantità non sono enormi e si tollera un po’ di pancia gonfia, vanno meglio di zuccheri semplici come il saccarosio, più noto come zucchero da tavola.

Sul pane e pasta integrale, invece, non illudiamoci troppo: le decantate fibre variano dal 10 al 20%, il rimanente 80-90% è lo stesso dei prodotti raffinati. Ricordate i tanti cucchiaini o bustine del bar? Qui ne troviamo solo un po’ meno, non puoi mangiarne quanto ti pare. Anche sugli amidi assimilati lentamente c’è da dire qualcosa, non sono tutti uguali. Riso, pane bianco, farinacei raffinati, pur essendo a base di amidi, hanno un alto indice glicemico (li assimili velocemente). La pasta ha valore intermedio, ma c’è la quota proteica del glutine, anch’esso richiama insulina.

Alcuni studi sul sovrappeso, addirittura non fanno differenza tra consumo di carboidrati semplici (rapidamente assimilati) e complessi, tutti da limitare.


Per gl’inguaribili amanti del cibo a forma di pasta, ad esempio spaghetti, c’è lo ‘shirataki’, pseudopasta a zero carboidrati, non ricavata da cereali ma dalla pianta giapponese konjac: fibre gommose insolubili, anti-colesterolo, ottime per diabetici, per di più ad azione prebiotica, nutrono il microbiota intestinale. Difetti? Un po’ costosa e quasi insapore, ma con un buon sugo può andare.


Ma torniamo alla frutta. Più fibre, più salute, meno zucchero ingurgitato e assorbito più lentamente. Meno stress per il pancreas, produttore d’insulina finché ce la fa.

Tra gli zuccheri, il fruttosio merita un discorso a parte. Oltre alla frutta, lo ritroviamo anche sui banchi del supermercato, trasformato in cristalli come lo zucchero da tavola. Agl’inizi degli anni ’90, si era imposto per alcuni vantaggi. Primo, l’elevato potere dolcificante, assai più del glucosio, quindi ne serviva meno. Il miele è assai dolce perché ricco di fruttosio. Poi il lento assorbimento, niente picco glicemico, stimolo insulinico quasi nullo. Tutto questo aveva prodotto una forte spinta commerciale, anche per altre proprietà come la protezione dalle muffe e la miglior conservazione dei prodotti che rimanevano morbidi più a lungo. Non a caso, il fruttosio è usato anche in articoli non dolciari come tramezzini e pancarré, salse, insaccati. E a differenza del glucosio, niente effetto cariogeno.

Da qui, il largo impiego in cucina e nell’industria di dolci, bibite gassate, bevande e tutto il possibile. Poi vennero fuori le magagne, soprattutto dall’uso eccessivo. Danni per organi e apparati. Come tutti i monosaccaridi, anche il fruttosio è assorbito per diffusione facilitata attraverso i villi intestinali, ma mentre il glucosio è captato dai muscoli, dal grasso e altri tessuti per effetto dell’insulina, il fruttosio non dipende dall’ormone pancreatico e si accumula direttamente nel fegato, trasformato in glicogeno. Per un organo di 1,5 kg, le riserve variano tra 75 e 110g. Di notte, o durante il digiuno, il glicogeno è convertito in glucosio in base alle necessità, le riserve si svuotano fino all’ 80%. Ma la capacità dell’organo di stipare fruttosio non supera i 30-50 g al giorno. Superata la soglia per abusi alimentari, l’eccesso di fruttosio è trasformato in trigliceridi. Dapprima sotto forma di fegato grasso, precursore di roba più seria, poi microlesioni dei glomeruli renali, della retina, di molti endoteli, in punti predisposti senza che ce ne accorgiamo, se non dopo anni, quando il guaio è fatto.

La maggior parte del fruttosio in commercio è ricavato dall’amido di mais, sulle etichette trovate scritto ‘sciroppo di mais’. Oppure l’acronimo inglese HFCS (High-Fructose Corn Syrup), ‘sciroppo di mais ad alto contenuto in fruttosio’, ergo: maggior potere dolcificante. Occhio alle etichette!

Equivoci e incertezze della dieta mediterranea – di Guido De Filippo

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